PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> COMUNITÀ TERAPEUTICHE

PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



La Comunità Terapeutica come luogo d’integrazione fra differenti approcci

di Enrico Pedriali


Lavoro presentato alla Conferenza di Windsor dell'anno 2000




Il titolo della Conferenza di quest’anno sembra fatto apposta per una dissertazione squisitamente teorica, il che per me rappresenta una grossa tentazione, ma non vorrei che la mia relazione finisse col sembrarvi una specie di “pensare ad alta voce”, per cui cercherò di usare il taglio più pragmatico che la mia indole mediterranea mi consente.


Nutrire il corpo, la mente e l’anima: questo è il problema.

Da secoli la filosofia, la scienza, la religione e la politica se ne occupano, talvolta in sinergia, tal altra in antagonismo fra loro.
Premetto che non è dell’anima e delle sue esigenze che mi occuperò in questa sede, sia perché me ne manca la competenza professionale, sia perché si tratta di un ambito che considero prettamente soggettivo e privato.
Vorrei invece focalizzare l’attenzione sul corpo e sulla mente.
Biologia, medicina e psichiatria per un verso, psicologia, psicoanalisi e sociologia per l’altro, hanno indagato a fondo il funzionamento e le esigenze del corpo e della mente: il bagaglio delle nostre conoscenze al riguardo è indubbiamente considerevole.
E’ legittimo tuttavia chiedersi in che modo gli strumenti (psicologici, biologici, socio-ambientali) di cui disponiamo siano in grado di fornire effettivo “nutrimento”, sia dal punto di vista della loro specifica idoneità a soddisfare esigenze particolari, sia per quel che riguarda la modalità con cui vengono utilizzati o proposti.
Questa domanda apparirà tanto più legittima a chi ha dimestichezza con le patologie più gravi perché è tutt’altro che raro, in questi casi, imbattersi nell’apparente immodificabilità di certe situazioni, anche quando si utilizzano strumenti potenzialmente validi, siano essi trattamenti farmacologici o psicoterapici o socioterapici. In altre parole, la disponibilità e la capacità di “nutrire” a volte sono frustrate e il “nutrimento” decisamente rifiutato, per quanto buono possa essere.
Tutto ciò viene spesso attribuito a una “resistenza al cambiamento” (consapevole o inconsapevole) da parte del paziente che, pur mostrando bisogni evidenti, rifiuta o vanifica ogni proposta di modificazione del proprio stato. Sarebbe però ragionevole chiedersi se all’origine di questi insuccessi non possa esservi anche da parte dei terapeuti, un’analoga resistenza intesa come difficoltà a cogliere la natura dei bisogni del paziente e a modificare, quando occorra, i propri schemi d’intervento.
Si potrebbero fare diversi esempi al riguardo, ma ciò che mi preme non è tanto analizzare in dettaglio le situazioni in cui ciò si verifica, quanto mettere a fuoco il rapporto fra la particolare natura dei bisogni presentati dai pazienti e la capacità di offrire un aiuto/”nutrimento” adeguato da parte di chi si propone in questo ruolo.
Questo rapporto rappresenta a mio parere un punto nodale di ogni relazione terapeutica e assume importanza particolarmente rilevante a livello istituzionale.
Ogni istituzione infatti accoglie al suo interno persone con bisogni di tipo diverso che possono riguardare sia il corpo che la mente, ma anche operatori con diversi ruoli e orientamenti e con i loro propri bisogni.
Dal rapporto fra queste componenti e dalle loro diverse caratteristiche si può realizzare un salutare equilibrio o viceversa un nocivo squilibrio.


Psicoterapia, Farmacoterapia, Socioterapia: antagonismo o sinergia?

Storicamente gli approcci ai problemi relativi alla salute mentale si possono raggruppare grossolanamente in tre sistemi teorico-metodologici: quelli psicologici, quelli bio-farmacologici e quelli socio-ambientali.
Ciascuno di essi fonda la propria metodologia su ipotesi comprensive dei disturbi mentali da cui derivano sia la chiave di lettura dei comportamenti e dei bisogni delle persone che ne sono affette, sia gli interventi ritenuti idonei rispettivamente a modificarli e a soddisfarli.
La loro potenzialità terapeutica tuttavia non è sufficiente di per sé a garantire sempre risultati positivi.
A complicare le cose interviene spesso la tendenza degli addetti ai lavori a schierarsi ideologicamente da questa o da quella parte, mantenendo in vita una scissione che ha le sue origini nella antica separazione Cartesiana fra mente e corpo.
Così il terapeuta di formazione biologica tende spesso a ridurre tutto all’individuazione del farmaco più appropriato all’eliminazione del sintomo; quello di formazione psicologica è unicamente interessato all’interpretazione più idonea da fornire al paziente per metterlo in condizione di superarlo, mentre il socioterapista tende a ricercare i guasti di natura sociale ritenuti all’origine dei comportamenti patologici per proporre l’apprendimento di modelli relazionali più adeguati.
Rinchiusi nel proprio guscio, ciascuno spesso guarda l’altro con diffidenza o con sopportazione.
Una separazione troppo rigida tra i vari approcci o la netta predominanza dell’uno a scapito degli altri, comporta il rischio di una visione deformata dei bisogni del paziente, non consente di coglierli nella loro globalità e porta facilmente a interventi parziali e spesso inefficaci.

Le situazioni limite possono essere esemplificate:
1. da quei casi che vengono trattati con una progressiva “escalation” farmacologica, in cui si assiste a un vero e proprio accanimento terapeutico, tanto dispendioso quanto infruttuoso e spesso nocivo;
2. da quelle terapie psicologiche multiformi e interminabili per cui il paziente, nel corso degli anni, viene sottoposto a tutte le forme di psicoterapia possibili, da quelle individuali a quelle gruppali, senza trarne vantaggi sostanziali, ricavandone a volte una sorta di dipendenza, oppure
3. dalla negazione ideologica di qualsiasi valore positivo di questi due approcci per cui tutto viene ridotto a una questione di interventi socio-ambientali anche quando l’evidenza clinica lo smentisce.

Queste situazioni si rivelano, con maggior evidenza, quando le tre funzioni (socioterapica, farmacologica, psicoterapica) non sono realmente integrate fra loro, ma convivono in condizioni di subordinazione dell'una all'altra, oppure vengono utilizzate con un certo eclettismo, cioè con un impiego disordinato di tutt'e tre i tipi di intervento, in mancanza di una chiara strategia terapeutica.
Un esempio di istituzione in cui una funzione prevaleva nettamente sulle altre è stata rappresentata per molto tempo da Chestnut Lodge, la celebre clinica statunitense ove il modello di trattamento psicoanalitico assumeva, fino a qualche anno fa, una posizione decisamente predominante rispetto a farmacoterapia e socioterapia.
I pazienti (prevalentemente psicotici, disturbi di personalità, borderlines) venivano accolti allo scopo precipuo di avviare un trattamento psicoanalitico individuale. Il trattamento farmacologico, molto ridotto e di breve durata, e tutti gli aspetti legati alla residenzialità erano considerati esclusivamente come supporti..
Non di rado i pazienti rimanevano a Chestnut Lodge anche per molti anni, per poter proseguire il trattamento analitico e la loro vita quotidiana trascorreva in attesa delle sedute.
Il trattamento residenziale in funzione della terapia analitica, non teneva in sufficiente considerazione altri bisogni del paziente, mantenendolo in una situazione di passività e di stagnazione controproducente.
Si cercò di correggere la situazione dando maggior significato alla vita quotidiana dell’istituzione e alla partecipazione ad essa dei pazienti oltre a incentivare i progetti individuali di reinserimento nella vita sociale cosicchè, negli ultimi tempi, Chestnut Lodge si avvicinò, ma solo in parte, a un modello di trattamento comunitario.
Il radicale cambiamento delle politiche sociali e sanitarie tuttavia ha fatto si che la gestione della clinica venisse sensibilmente modificata, tanto che oggi rimane ben poco dell’orientamento originario.
La lezione che ne deriva fa riflettere sui limiti a cui una visione esclusivamente o marcatamente orientata in una sola direzione (in questo caso in senso psicoanalitico) può andare incontro, col rischio di non riuscire a effettuare una corretta analisi dei bisogni dei pazienti, e anche dei bisogni di sopravvivenza dell’istituzione.

Analogamente si potrebbero portare esempi (specialmente di tipo accademico) in cui l’orientamento organicistico predominante non consente di utilizzare correttamente l’approccio psicologico e socioterapico, col risultato di andare incontro a vistosi fallimenti nei casi in cui i bisogni dei pazienti potrebbero trarre evidenti vantaggi da questi due tipi di approccio.

Per quanto riguarda l’orientamento socio-ambientale, negli anni immediatamente successivi al varo della legge 180, l’esperienza italiana, caratterizzata da una certa prevenzione ideologica sia nei confronti dell’approccio psicoterapico che farmacoterapico, ha dimostrato come gli interventi esclusivamente socio-ambientali possano, a loro volta, rivelarsi del tutto insufficienti a soddisfare bisogni che da quei tipi di approccio potrebbero trarre un probabile vantaggio.


Il sintomo: un nemico da eliminare o un segnale da comprendere?

Fin qui ho provato a descrivere alcune situazioni in cui le certezze teorico-metodologiche degli operatori dell’uno o dell’altro orientamento vengono messe in crisi.
Anche un’impiego eclettico di strumenti psicologici, farmacologici e socio-assistenziali non è sinonimo di buon “nutrimento”, specie se viene attuato esclusivamente nell’ottica di eliminare i sintomi del paziente.
Quando questo rappresenta l’obbiettivo preliminare da raggiungere a tutti i costi, accade non di rado che vengano messe in atto strategie terapeutiche di vario genere, simultaneamente o in successione, nell’illusione che dalla semplice sommatoria di più interventi possa derivare la soppressione del sintomo.
Qualcosa del genere accadeva in medicina quando la difficoltà di formulare una diagnosi esatta o l’insufficiente conoscenza dell’etiopatogenesi dei sintomi inducevano all’impiego massiccio di interventi aspecifici o di farmaci a largo spettro, nella speranza di colpire l’agente (sconosciuto) responsabile della malattia. A volte il risultato era quello di indebolire le difese naturali del paziente e di esacerbare l’agente patogeno stesso.
A mio parere la qualità dell’atteggiamento che si tende ad assumere di fronte ai sintomi del paziente è molto importante ai fini di quell’equilibrio cui si riferisce il titolo di questa Conferenza.
Se l’atteggiamento è di rigida contrapposizione, le nostre offerte d’aiuto sotto forma di farmaci, di sostegno psicologico e socio-ambientale, potranno essere subite o accettate passivamente, ma difficilmente saranno assunte consapevolmente come un buon “nutrimento” e non di rado verranno rifiutate come un cibo sgradevole e velenoso.
Viceversa un atteggiamento che esprima disponibilità e capacità di accogliere il comportamento sintomatico come espressione di conflitti vissuti consciamente o inconsciamente dal paziente o di particolari suoi deficit di natura costituzionale, può aprire la strada a una relazione su cui costruire un’alleanza terapeutica per individuare il trattamento/”nutrimento” più idoneo alle diverse circostanze. In altre parole, la capacità di stabilire una relazione accogliente e comprensiva può veicolare un nutrimento più facilmente assimilabile.
A mio avviso i bisogni che i diversi pazienti o uno stesso paziente in momenti differenti della sua vita presentano, possono richiedere l’utilizzazione di farmaci, come di interventi psicologici o socioterapici in un rapporto sinergico.
Nella mia esperienza con soggetti psicotici ad esempio, mi è capitato di constatare come l’impiego di farmaci neurolettici in dosi appropriate, può consentire un miglior controllo delle ansie paniche così come delle pulsioni aggressive, permettendo al paziente di avvicinarsi ai suoi nuclei psicopatologici attraverso un approccio psicoterapico. Per la stessa via, può divenire più accessibile alle relazioni interpersonali ed accettare l’intervento socioterapico.
E’ anche vero che l’intervento farmacologico risulta tanto più efficace quanto più viene percepito dal paziente come qualcosa di cui si può servire per raggiungere un miglior autocontrollo e non già come un veleno che lo pone alla mercé dei suoi “persecutori”.
Nel prospettare un’eventuale utilizzazione di farmaci occorre quasi sempre avvalersi anche dell’ausilio psicologico, all’interno di una relazione che ha un significato socioterapico.
In altre parole, si può realizzare in pratica una convergenza in cui l’approccio psicologico, socioterapico e farmacologico agiscono in sinergia, l’uno al servizio dell’altro quando occorre, per fornire una serie di stimoli integrati fra loro, sulla base di una corretta analisi dei bisogni dei pazienti.
Nella mia visione di un contesto che risulti capace di “nutrire”, la qualità della relazione fra paziente e terapeuta è determinante come veicolo nutrizionale, a prescindere dal ruolo e dall’orientamento del terapeuta.
Altrettanto importante però è la capacità di integrazione fra ruoli e funzioni diverse da parte dello staff.

Mi sono dilungato a descrivere le disfunzioni derivanti da un rapporto squilibrato fra funzione psicologica, farmacologica e socio-ambientale proprio perché l’esperienza mi ha insegnato l’importanza, ma anche la difficoltà di realizzare un rapporto integrato fra loro.

L’importanza deriva dal fatto che il paziente ci presenta spesso un quadro frammentato, che richiede una serie di interventi volti a una maggior integrazione delle sue parti scisse; interventi che non possono essere di un solo tipo, perché debbono rispondere a esigenze che hanno a che fare con la sfera corporea, con le dinamiche intrapsichiche e relazionali del paziente.
Non credo abbia molto senso stabilire una graduatoria d’importanza fra interventi psicologici, farmacologici e relazionali poiché tutti possono essere necessari in tempi, in misura e modalità variabili. Ai terapeuti è richiesta la capacità di capire quale, quando e come usare questi strumenti in una strategia integrata d’intervento.

La difficoltà di realizzare tale integrazione è abbastanza evidente quando si ha a che fare con pazienti psicotici per la resistenza al cambiamento che spesso li caratterizza, ma anche per le resistenze simmetriche dei terapeuti ad adeguare i loro schemi d’intervento quando le circostanze lo richiedano.
A ciò va aggiunto il fatto che anche gli operatori hanno i loro bisogni e fra questi spesso il bisogno di curare gli altri è il più evidente.
Non starò qui a dilungarmi su questo aspetto che richiederebbe una trattazione molto accurata, tuttavia ritengo che anche questo fattore vada tenuto presente nel considerare le componenti che intervengono a determinare un sano equilibrio o un evidente squilibrio all’interno della relazione terapeutica.

Mi avvio alla conclusione affrontando l’argomento che ho scelto come titolo della mia relazione.


La Comunità Terapeutica come luogo d’integrazione fra differenti approcci: pragmatismo o sacrilegio ?

Non credo sia necessario, in questo contesto, risalire alle origini della Comunità Terapeutica o rivisitare la storia del Movimento che si è sviluppato intorno ad essa.
Tuttavia sarà utile tenerne conto per cercare di rispondere ad alcuni quesiti che mi son posto stendendo questa relazione e che, in un certo senso rivolgo anche a voi.
Possiamo ritenere che in Comunità sia indispensabile privilegiare un particolare tipo di approccio rispetto ad altri ?
E in questo caso quale ?
Oppure essa si presta a un’utilizzazione di molteplici strumenti in un progetto organizzato ?
O invece è più corretto considerarla come un sistema teorico-metodologico a sé stante, o una filosofia di vita capace di dare “nutrimento” ai suoi ospiti, indipendentemente da qualsiasi orientamento specifico ?
Le mie domande potrebbero sembrare ingenue, ma in realtà la conoscenza che ho accumulato di tante Comunità, dalla fine degli anni sessanta ad oggi, mi induce a dubitare della possibilità di una risposta univoca.
Qualche anno fa, in occasione della stesura del volume “La Comunità Terapeutica. Mito e Realtà”, sottoposi informalmente ad alcuni colleghi italiani, francesi e inglesi, un mini questionario di 4 domande relative alla compatibilità dell’impiego di farmaci in un contesto come quello comunitario.
A grande maggioranza, i colleghi italiani risposero affermativamente, così come i colleghi francesi, ad eccezione di coloro che si occupavano di adolescenti; dai colleghi dell’Henderson e del Cassel arrivarono risposte che escludevano questa possibilità, mentre la risposta fu possibilista.
Non ho certo la pretesa di presentare questi dati come risultati di una vera e propria ricerca, ma non credo nemmeno che si possa liquidare il tutto con l’ipotesi di una più spiccata farmacofilia dei paesi latini, rispetto a quelli anglosassoni.
Ciò che mi colpì in quella piccola indagine personale fu il fatto che il diverso atteggiamento nei confronti di un certo tipo di approccio potesse essere in relazione con la tipologia di pazienti (le Comunità favorevoli all’impiego di farmaci, ospitavano prevalentemente pazienti psicotici, a differenza delle altre.
Un’ipotesi di questo genere meriterebbe di essere presa in considerazione non già per ricavare dati pro o contro questo o quell’orientamento, quanto per conoscere la relazione effettivamente esistente fra bisogni dei pazienti e assetto comunitario, al di là di ogni enunciazione pregiudiziale.
In altre parole, sarebbe interessante definire se la Comunità può rappresentare un setting sufficientemente flessibile e in grado di utilizzare diverse modalità d’intervento integrate fra loro, per offrire “nutrimento” a differenti esigenze, o se invece essa presenti caratteristiche intrinseche che la rendono più idonea a determinate tipologie d’utenza piuttosto che ad altre1.
Credo che questo quesito potrebbe divenire oggetto di accurate ricerche e fornire risposte molto utili a definire il campo d’azione delle Comunità.
Il titolo della conferenza tuttavia, oltre a suggerire ipotesi di ricerca, rinvia anche ai concetti Winnicottiani di “holding”, di “cure materne sufficientemente buone”, cioè sostanzialmente all’immagine di una madre capace di accogliere, contenere e fornire nutrimento nella misura e nella forma più idonea a rassicurare e a far crescere il bambino.
Non vi nascondo che mi piacerebbe pensare alla Comunità come un luogo-contenitore di esigenze diverse, di pazienti e operatori, che sappia dar nutrimento agli uni e agli altri, utilizzando senza pregiudizi ideologici, quelle risorse che meglio possono rispondere alle esigenze emergenti, in un rapporto finalizzato alla crescita e al cambiamento , quando sia possibile.
In questo consiste, a mio parere, quell’equilibrio cui si fa riferimento nel titolo di questa conferenza, ma probabilmente sto già cominciando a ... “pensare ad alta voce”, per cui è bene che il mio discorso termini qui.


1 Realisticamente, tenderei ad escludere la possibilità che la Comunità rappresenti un setting idoneo per tutte le patologie.


PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> COMUNITÀ TERAPEUTICHE