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COMUNITÀ TERAPEUTICHE
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La Comunità Terapeutica per adolescenti:
un territorio da esplorare

di Carla Marzani



Proveniente dalla Pediatria, Carla Marzani è rapidamente approdata alla Neuropsichiatria Infantile e svolge da anni attività di dirigente nei Servizi per l’Età Evolutiva a Milano, secondo orientamenti psicodinamici. Dotata di un ricco bagaglio di esperienze e di un naturale talento clinico, ha sempre profuso il suo impegno nella concreta realizzazione di progetti istituzionali all’interno dei Servizi Pubblici. Questo articolo ne è una testimonianza.



Anni fa, assieme ad alcuni colleghi, mi sono trovata nella condizione di organizzare una Comunità Terapeutica per adolescenti con gravi disturbi psichiatrici ed è appunto su un possibile modello di Comunità per questo tipo d'utenza che sarei molto lieta di ricevere spunti, soprattutto di tipo metodologico. Devo premettere che sono neuropsichiatra infantile e mi sono sempre occupata di bambini piccoli, quindi l'esperienza di una C.T. per adolescenti, pur essendo da tempo una mia aspirazione, rappresentava pure una cosa totalmente nuova. Per altro mi sembra che in questi ultimi 20-25 anni, da quando esiste in Italia la neuropsichiatria del bambino e dell'adolescente, siano state ben poche le esperienze terapeutiche che riguardino adolescenti in regime residenziale. Gli psichiatri infantili dibattono molto appassionatamente sul fatto che bambini e adolescenti possano o meno beneficiare di strutture residenziali (ricordo che è stata fatta una grossa battaglia contro i reparti per bambini e adolescenti), tuttavia mi pare che non si siano per ora esplicitati precisi modelli terapeutici per ragazzi che, trovandosi in situazioni sociali complesse o di patologia psichiatrica, non possano trarre grandi vantaggi dai soli interventi ambulatoriali.
L'esperienza di Milano nasce in questo contesto culturale; la Comunità si è dovuta organizzare in un tempo brevissimo, circa due mesi, senza la possibilità di selezionare i pazienti, nè il personale educativo che avrebbe dovuto occuparsi di loro. La Regione Lombardia infatti, circa tre anni fa, decise di chiudere una Comunità privata, la casa psicoterapica "I Delfini" di Vernate (Pavia) trovandole una sede nella USSL 75/II. Si è costituito quindi, rapidamente un gruppo di lavoro, costituito dalla sottoscritta, Enrico Pedriali, Ida Finzi, Paola Freo e succesivamente Patrizia Conti (attuale dirigente della Comunità), ai quali sono molto grata per la condivisione di un'esperienza che è stata molto difficile per tutti noi. Una prova, fra le altre, delle difficoltà a cui siamo andati incontro è stato proprio l'elevato turnover dei medici psichiatri. Uno dei motivi per cui sono interessata a portare avanti questa esperienza è il tentativo, che credo di grande responsabilità, di aprire e gestire una C.T. per psicotici in ambito pubblico. Mi risulta che la maggior parte delle esperienze esistenti, anche per adulti, siano private.
La nostra regione ha proposto la C.T. per adolescenti psicotici come una delle strutture dei futuri servizi di psichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza (U.O.N.P.I.), sul modello delle strutture intermedie proposte per la psichiatrica degli adulti. Il modello di Comunità che avevamo o abbiamo in mente è quello di un "luogo casa" ove un gruppo di educatori, coadiuvato da psichiatri ed infermieri, si possa costituire come ambiente educativo-terapeutico per ragazzi con disturbi psichiatrici gravi (schizofrenie ad esordio adolescenziale, evoluzioni di psicosi infantili senza eccessivo deterioramento, pazienti borderline), prediligendo soggetti che non abbiano una organicità conclamata ed escludendo esiti di autismo infantile. Pensiamo ad un gruppo di adulti che aiuti a crescere un piccolo gruppo di 7/8 pazienti, vivendo con loro, programmando attività interne ed esterne (la nostra casa non ha possibilità di riabilitazione interna), sviluppando e migliorando i rapporti con i familiari, quando vi sono (abbiamo diversi casi con gravi problematiche sociali), o i rapporti con altre figure esterne. Il gruppo degli educatori dovrebbe dunque lavorare per favorire la crescita della dimensione adattiva dell'Io, cercando di far vivere, riemergere ed ampliare le parti sane, tenendo conto, caso per caso, della tipologia ed invasività delle angosce e difese psicotiche, coadiuvato dagli psichiatri, in una costante e continua lettura dei bisogni, dei problemi quotidiani, del percorso da scegliere e degli interventi, un lavoro cioè fondato sulla condivisione della vita quotidiana. Il modello della Comunità vorrebbe inserirsi nel filone della psichiatrica infantile ed adolescenziale francese, semiresidenziale e residenziale, dove l'attitudine e la cura psicoterapica non sono forniti in settings specifici di psicoterapia individuale o di gruppo, ma sono intrisi nello stesso lavoro quotidiano. Questo a differenza dei modelli inglesi dove il lavoro istituzionale è spesso rigidamente separato dai percorsi psicoterapici individuali.
La Comunità dovrebbe dunque essere un luogo ove sono possibili la distruttività e la riparazione, dove sono accolti i livelli regressivi e l'espressione tramite sintomi, che vengono naturalmente accettati, con un invito alla modifica, dove l'azione ed i gesti hanno un significato maggiore che non la parola-spiegazione. La struttura istituzionale e le sue regole, dovrebbero costituire un setting abbastanza preciso entro il quale leggere il comportamento dei pazienti e favorire il loro cambiamento. Altri presupposti teorico-clinici che sostengono il modello della C.T. per adolescenti psichiatrici, sono quelli che la patologia psicotica o borderline in adolescenza, spesso accentua le caratteristiche di rottura con la famiglia, o che la famiglia si rompa emozionalmente o concretamente sulla patologia del figlio, per cui molti di questi ragazzi vengono espulsi in maniera diretta o indiretta, o in ogni caso la famiglia, diviene il luogo meno adatto per la cura. Nei successivi momenti di discussione e riflessione sul nostro pensiero e sul modello cui desideriamo arrivare, ci troviamo sulla strada di chi ha organizzato la Comunità, tenendo conto di alcuni presupposti fondamentali del pensiero psicoanalitico e cioè: il concetto di Winnicot di "contenitore mentale materno" e di "reverie" che si estende al concetto di madre e di ambiente sufficientemente buono. Tale concetto, riportato all'ambiente terapeutico, significa riconoscimento dei bisogni, autentico interesse per il paziente, disponibilità affettiva, capacità di elaborazione interna e non controreazione, identificazione con le parti sane. Teniamo conto inoltre del pensiero degli autori Kleiniani che fanno riferimento al passaggio dalla posizione schizo-paranoide alla posizione depressiva, come cardine dell'avvio di uno sviluppo di relazioni normali con l'oggetto e la realtà. L'ambiente lavora quindi nella direzione di favorire la diminuzione dello splitting e della proiezione nel tentativo di aumentare l'introiezione di un oggetto sufficientemente buono, attraverso la relazione con gli educatori e con le cose. Il pensiero di molti autori che si sono occupati dell'adolescenza (Kestemberg, Meltzer, Jammet) ci ricorda con forza la peculiarità di questo momento evolutivo con la necessità di ricomporre una nuova identità corporea, la necessità di cambiamento e di organizzazione di un nuovo sè, sempre a ponte fra la forza della regressione e lo spirito di un narcisismo alla differenziazione. Abbiamo pure presenti i lavori degli autori che si sono occupati delle specifiche caratteristiche della patologia in adolescenza (Kernberg, Masterson per la patologia borderline, Laufer per il break-down, etc.).
Nel nostro caso ci sono state gravi difficoltà iniziali nel dare un assetto sufficientemente terapeutico all'ambiente. Gli educatori che erano venuti dalla precedente Comunità, sono stati tutti sostituiti, perché inidonei, salvo due, nel primo anno. I pazienti, già abituati ad un clima violento e, in parallelo, coercitivo, hanno messo in atto ogni tentativo per far fallire questa seconda esperienza nella quale si trovavano inseriti. La collocazione della Comunità nel recinto di un ex-ospedale psichiatrico e la necessità di collaborare col servizio di guardia dell'ospedale inducevano, ogni volta che vi erano delle crisi nei pazienti, risposte di tipo medico-sanitario con molta soddisfazione degli educatori, ma non sempre in sintonia col lavoro della Comunità. Ciò malgrado, il contributo datoci dai colleghi della psichiatria adulti, è stato fondamentale per poter proseguire. La struttura in sostanza, sia sul piano organizzativo che sul piano dell'energia mentale, non era pronta quale contenitore degli ospiti al loro ingresso e ciò ha sicuramente contribuito alla lentezza del processo di crescita. Ciò, unito alla necessità dei cinque pazienti più gravi, di una presa in carico molto stretta mediante farmaci e colloqui individuali, ha fatto si che la Comunità, per molto tempo, potesse essere forse più assimilata ad un reparto di psichiatria dell'adolescenza che non ad una reale Comunità.
Nel corso di questi anni, la nostra attenzione si è concentrata su molti problemi, di diverso ordine e tipo, che per semplicità raggruppo in due categorie, sui quali sarei molto lieta di avere un confronto:
a) quelli relativi alla organizzazione del contenitore-comunità.
Lo staff dei medici crede di aver ben presente quale vorrebbe essere il punto di arrivo, ma è stato ed è tutt'oggi abbastanza difficile attivare gli educatori in tale senso e creare spazi di lavoro e di formazione del tutto condivisi. Gli strumenti sono stati:
- il gruppo clinico dei casi, settimanale, condotto dai neuropsichiatri con la presenza di educatori ed infermieri;
- la supervisione settimanale degli educatori con il dottor Pedriali, consulente esterno.
Si è colto in sostanza come gli educatori tendano a spingerci verso una gestione di tipo medico-psichiatrico tradizionale, (coadiuvati anche dalle infermiere), o verso un modello di tipo educativo-riabilitativo, nella convinzione che solo questo possa fare assumere all'ambiente un aspetto sufficientemente forte; molto volte sono state auspicate regole severe per la gestione della giornata, per i programmi ricreativi o educativi, per le entrate, per le uscite, nonché la presenza costante del medico psichiatra. Ci rendiamo conto della difficoltà del lavoro dell'educatore, e del grande impegno emotivo a loro richiesto, cioè quello di essere portatori di uno "stile" di rapporto, che andrebbe conservato in tutti i momenti della giornata e che si acquisisce solo in un tempo lungo. Restano per noi aperti gli interrogativi se la comunità per psicotici possa essere organizzata sul lavoro di educatori che non hanno avuto una specifica formazione analitica e devono compiere la loro trasformazione in itinere con i pazienti nella istituzione stessa. Sullo stesso tema cerchiamo ancora confronti e spunti di riflessione sulle modalità di interazione fra psichiatri ed educatori, sulle modalità con cui gestire la settimana e i turni degli educatori; ogni comunità con le sue abitudini e norme, come ogni famiglia, soddisfa delle esigenze ma non altre; per la comunità comunque la ricerca di modalità più confacenti alla cura sembra la base del lavoro stesso.
b) un secondo ordine di quesiti ci viene da riflessioni attuate nel corso di questi anni sul comportamento dei nostri pazienti, sui loro progressi o regressi, cioè in senso più ampio sulla loro evoluzione. Le patologie affrontate sono state: due schizofrenie, una con tipologia ebefrenica, l'altra paranoidea, una grave personalità borderline con pregresso grave abbandono e abuso, un ritardo mentale con tratti psicotici, due pazienti con break-down psicotici, poi compensati, un caso di psicosi simbiotica. Possiamo dire che tutti i pazienti hanno beneficiato della comunità (permanenza media da un anno ai due-tre anni), nel senso che ognuno di loro (e particolarmente i cinque provenienti dalla precedente esperienza) è andato incontro ad una stabilizzazione nel comportamento; potremmo riassumere che vi è stato un rientro di comportamenti indotti dal precedente ricovero, un assestamento su sintomi tipici della forma morbosa e non reattivi, un calo dell'esplosione aggressiva ecc., una spinta ad uscire verso la vita esterna. Ciò malgrado il contenitore proposto e le modalità di approccio ai pazienti sono sembrate molto più proficue per alcuni di loro e meno per altri. I maggiori problemi e dubbi ci sono sorti con una paziente con personalità borderline, per la quale, (pur vere le cose di cui sopra), la nostra attitudine e scelta di approccio relazionale pare non abbia portato ad alcuna evoluzione sostanziale della struttura mentale. La ragazza, possedeva un io molto poco coeso e fragile, fortemente caratterizzato da spinte al falso se (“sono grande, voglio avere rapporti, sono incinta... mi sposo ecc..”.), assolutamente incapace di coerenza, di cura per se stessa e di assunzione di responsabilità. Viveva in una continua ricerca di commiserazione, compianto, approvazione, elogi, che esprimeva soprattutto mediante la simulazione di malattia, crisi di disperazione, tentati suicidi. Cercava disperatamente il rapporto con la madre (persona con patologia psichiatrica) che non se ne occupava affatto e spesso trasformava le telefonate in attacchi sadici alla figlia... Nel corso della sua permanenza la paziente ha fatto cinque tentativi di suicidio dimostrativi, ma pericolosi, ingoiando vetri..., ogni volta accusando motivi diversi: l'abbandono della madre, una finta aggressione sessuale, una finta gravidanza, la presunta trascuratezza degli educatori, ai quali seguivano regolarmente scuse, lettere di promesse, riparazioni, costantemente disattese. La ragazza ha dovuto esser dimessa perché l'equipe non era più in grado di reggerla: a una grande dedizione, ha fatto seguito una grande delusione e rabbia. Il caso mi serve per porre alcuni interrogativi:
- l'ambiente comunitario così come da noi impostato, e il tentativo di fare evolvere i ragazzi nel contesto della relazione, è indicato comunque nelle patologie adolescenziali, tenuto conto del presupposto teorico di una proficua mobilità delle strutture? In tale epoca della vita dobbiamo fare delle distinzioni e quali? (la paziente prima citata è stata meglio, successivamente, in un ambiente di tipo ospedaliero con minore stimolazione affettiva ed assetto più rigido)
- la patologia borderline o i casi in cui la corazza del falso se sia molto impermeabile e vi siano intense componenti di perversione, possono essere utilmente trattati in contesti come il nostro?
- è bene e fino a che punto unire patologie molto diverse?
I pazienti che hanno più beneficiato delle nostre cure sono stati i pazienti psicotici, (ad eccezione di un caso, con patologia paranoidea, presto dimesso), e in particolare una ragazzina con psicosi simbiotica. Non voglio dilungarmi, ma sono molto interessata a capire meglio quanto e in quali casi un ambiente terapeutico di tipo comunitario, centrato sulla relazione, possa essere di reale beneficio nel percorso terapeutico di adolescenti con gravi disturbi psichici, quali siano gli indicatori di mobilità a cui dobbiamo attingere e come individuarli.
La struttura pubblica non solo per gli elevati costi sociali, ma pur per la grande diffidenza da cui è circondata, non può oggi permettersi di fallire, salvo il cambiare reparto di spesa e trasformarsi in una struttura assistenziale. Pare infatti che solo a queste strutture sia oggi demandato di occuparsi di questi problemi e che ad esse tutto sia concesso anche se le loro pratiche sono, a volte, discutibili.
In veste di neuropsichiatra infantile, vorrei concludere con due ultimi rilievi.
Ogni volta che si parla di Comunità Terapeutiche in senso lato, si coglie una differenza essenziale fra strutture che si occupano di pazienti adulti e strutture che si occupano di pazienti adolescenti. Occupandomi da anni di bambini e adolescenti, quando penso alla Comunità Terapeutica, mi riferisco davvero all'idea di creare uno spazio fisico ed emotivo ove i ragazzi possano modificarsi, forse guarire. Non voglio qui dissertare sull’etiologia della schizofrenia, in particolare se essa sia iscritta nel patrimonio genetico o meno, ma sappiamo comunque che un break-down psicotico in adolescenza non significa per tutti diventare schizofrenici o esserlo in futuro e che le psicopatologie più complesse derivano spesso da altri fattori, ambientali, sociali, etc. Per chi si occupa di adolescenza, parlare di Comunità significa realmente riferirsi ad un “luogo” che cura, anche se ciò non significa tout court che questi ragazzi saranno restituiti perfettamente sani al loro contesto sociale. La stessa cosa invece non sempre si coglie quando si parla di Comunità per pazienti psichiatrici adulti e, men che meno, per pazienti che sappiamo purtroppo essere cronici. Vorrei sottolineare questo crinale fra tipi di strutture: Comunità che hanno una "pretesa", un tempo reale di cura e poi di restituzione alle famiglie e al territorio, ed altre che, mi pare, siano adatte a creare dei percorsi per pazienti che poi inevitabilmente finiranno in altre strutture psichiatriche o in altri contesti di questo tipo.
Un ultimo rilievo vorrei fare a proposito del rapporto fra Servizio Pubblico e Strutture Private. Io penso che il compito di entrambi sia quello di individuare, sul piano epidemiologico, dello studio del sociale e del bisogno "psichiatrico", i modelli necessari per diverse fasce d’età, dal bambino piccolo, all'adolescente, all'adulto; l’uno e le altre devono valutare, decidere, proporre le strutture necessarie e attuare dei modelli credibili. Sulla base di questa chiarezza dell’obbiettivo da raggiungere credo si potrebbero superare contrapposizioni di carattere ideologico che hanno ben poco a che vedere con le esigenze degli utenti. Da questo punto di vista ritengo che in Italia ci sia ancora molto da fare.


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