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PSYCHOMEDIA
MEMORIA E (TELE)COMUNICAZIONE
Telematica



Dal Brutto Ana-Tron al Cyber-Cigno:
video-attività, sviluppo del pensiero e dell'identità

di Marco Longo

(Lavoro presentato al Futur Show, Bologna 2998 - Arena Incontri al Simposio La mente cresce on line. La rivoluzione videotecnologica: videogiochi, internet, realtà virtuale, tv interattiva)



Tron è il titolo di un famoso film in cui un ricercatore informatico, il protagonista buono del film, che ha ideato e lavora alla messa a punto di un potentissimo programma di simulazione grafica virtuale, scopre che il sistema operativo centrale del favoloso computer della sua azienda è stato alterato dai cattivi per poter deliquere; scoperto a sua volta, dovendo essere eliminato, viene proditoriamente risucchiato attraverso lo schermo all'interno del computer, divenendo egli stesso un programma e vivendo poi un'eroica avventura digitale dentro la macchina, che ovviamente porterà alla sconfitta dei programmi cattivi e naturalmente alla sua rinascita nel reale, ad un suo trionfale ritorno dal mondo dei bit a quello degli atomi, come si dice oggi.

Ana-Tron è invece un piccolo gioco di parole che, alludendo alla fiaba del Brutto Anatroccolo, utilizzo come una metafora per provare a parlare in modo meno noioso, spero, e sufficientemente evocativo della situazione di profonda solitudine e di video-passività, in cui il bambino (ma così spesso anche l'adolescente o l'adulto) può trovarsi ad essere risucchiato, ritualmente e ripetitivamente, perlopiù dalla televisione, ma anche da certi mini-video-games portatili, da certi Cd-Rom o dal lato oscuro della Grande Rete.

Viceversa il termine Cyber-Cigno può essere la metafora dell'adolescente (ma non solo) che ha imparato a gestire in modo creativo una situazione veramente gioiosa e pienamente soddisfacente di video-attività informatica e telematica, ad operare creativamente in prima persona attraverso una telecamera o un computer multimediale, esprimendo quindi al meglio, come direbbe Negroponte, la propria carattersitica positiva di "essere digitale"; ovvero di un essere umano, giovane o adulto, che come un cigno riesce a mettere la ali della fantasia alla proria creatività anche attraverso l'utilizzazione delle nuove tecnologie digitali.

Ma perché scomodare la fiaba? se non altro per il ruolo che essa ha nello sviluppo del pensiero infantile e per le risonanze che continua ad avere anche in quello adulto, in cui magari prende piuttosto la forma del mito. In un suo articolo lo psicoanalista Antonino Ferro paragona la fiaba al gioco, dimostrando come entrambi nascono ed assumono significato all'interno della relazione tra madre e bambino. Entrambi sono inoltre caratterizzati da insaturità: ogni bambino può infatti riempire con la sua fantasia allo stesso modo qualunque fiaba o gioco, con diversi significati nei diversi momenti della crescita e/o nei diversi stati emozionali.

Nel racconto di una fiaba da parte di un adulto (che sia pienamente partecipe e non annoiato, rigido o irritato) si stabilisce un ulteriore legame affettivo e interattivo tra il bambino e il narratore; una "trama affettiva" tridimensionale, potremmo dire, che si sovrappone alla trama narrativa monodimensionale della fiaba e che dà significato e spessore emozionale alla situazione relazionale fondata sulla presenza attiva dell'adulto a fianco del bambino. Ed è proprio questa situazione di spessore emozionale che garantisce e sostiene maggiormente lo sviluppo dell'attività fantastica del bambino, molto più che la piatta linearità della trama narrativa della fiaba.

Estendendo il discorso al campo della Scuola, Roberto Maragliano, creatore del Laboratorio di Tecnologie Audiovisive della Terza Università di Roma, conferma che anche in quest'ambito una cosa è utilizzare ancora classicamente la lezione o i compiti, con la memorizzazione solitaria del contenuto lineare di un libro, ed un'altra è utilizzare più modernamente in classe insieme all'insegnante la multimedialità e l'ipertestualità di un Cd-Rom interattivo o la potenzialità pressoché infinita della ricerca e dello scambio di materiale in Internet.

Lo stesso discorso fatto per la fiaba vale anche per il gioco infantile quando si svolge in presenza e con figure adulte e significative. Naturalmente il gioco del bambino non è finalizzato solo all'affinamento della comunicazione con gli adulti, ma anche alla messa in atto di un'esperienza virtuale (facciamo che io ero ... e che tu eri ... dicono i bambini, per i quali un bastone diventa così facilmente un cavallo) il cui fulcro è proprio l'attività, sia ludica che mentale, che viene svolta insieme all'altro. Da qui l'ovvia conseguenza che anche per quanto riguarda i video-games una cosa è giocare da solo con un gioco dalla grafica limitata, rigidamente frustrante e fortemente ripetitivo, un'altra è giocare con un adulto o comunque un altro vicino e con giochi multimediali, pienamente stimolanti e fortemente interattivi; o anche giocare e dialogare in rete con altri "esseri digitali".

Conseguentemente, sia con la lettura della fiaba che attraverso il gioco, il bambino mette alla prova la capacità dell'adulto di essere presente e vicino a lui, corpo e mente, ma mette alla prova anche la sua stessa possibilità di essere presente e vicino a se stesso, sviluppando le sue capacità operative e cognitive. Possiamo dunque pensare al gioco come un dialogo tra un sé interno e un sé esterno: il bambino cioè, attraverso la mediazione di materiali e assunzione di ruoli, parla tra sé e sé, racconta all'altro e si racconta quello che sta vivendo. In altre parole potremmo dire, riassumendo, che è proprio attraverso l'atto del narrare e del giocare che il bambino prende gradualmente coscienza della propria identità

Ma torniamo ora al nostro Ana-Tron. Hans Christian Andersen scrisse molte storie sull'archetipo dell'orfano e difese molto i bambini negletti e il loro diritto a cercare l'affetto dei propri simili e lo spazio affettivo più opportuno per la loro crescita intellettuale ed emozionale. Il Brutto Anatroccolo fu pubblicato per la prima volta nel 1845; ma della fiaba esistono oggi molte versioni, testuali o grafiche, compresa quella famosa di Walt Disney, che gli valse l'Oscar per il miglior cartone animato nel 1939.

La storia nel complesso è ben nota: un uovo di cigno viene per caso deposto e abbandonato in un nido di anatra ed alla nascita il pulcino, ovviamente molto diverso dagli altri anatroccoli, viene considerato brutto in quanto grigiastro e quindi diverso, alieno (così come grigia, cioè triste e alienante può essere considerata la situazione dei troppi bambini Ana-Tron che vengono posteggiati e abbandonati davanti alla televisione); scacciato dal nido, il Brutto Anatroccolo vaga triste e solitario (come il binario della famosa canzone di Claudio Villa o come quello del film "La strategia del ragno" di Bertolucci) senza una meta precisa, se non la ricerca di una nuova mamma accogliente e "sufficientemente buona", come direbbe Winnicott.

Nelle varie versioni della fiaba più volte l'Anatroccolo incontra animali o persone ed ogni volta si illude di aver finalmente trovato una mamma o una famiglia con dei fratelli con cui giocare, ma purtroppo alla fine viene sempre scacciato per qualche motivo. Sempre più triste, per l'impossibilità di accompagnarsi e identificarsi con un oggetto buono ed accogliente, sentendosi invece sempre più abbandonato e perseguitato, al contrario di Narciso arriva ad odiare persino la sua stessa immagine, che vede riflessa nell'acqua dello stagno; un'immagine virtuale divenuta quindi esterna e aliena a lui stesso e non un'immagine corporea interna e ben integrata nella sua mente. Visto che tutti lo isolano o lo rifiutano, il Brutto Anatroccolo, come ogni bambino abbandonato, corre dunque seriamente il rischio di arrivare lui stesso a rifiutare se stesso, vivendo e soffrendo la continua frustrazione narcisistica come un crescente attacco alla propria identità.

E a differenza dei video-giochi, nella realtà vera non c'è un game over; i segni delle ferite, fisiche o mentali, restano ben impressi e le tracce dell'abbandono e del lutto possono essere rimosse solo con la negazione e/o la proiezione. E anche il dolore, come ogni contenuto mentale che viene negato e proiettato, per poter essere reintegrato nella mente infantile ha bisogno di uno schermo esterno capace di accoglierlo e renderlo di nuovo visibile e comprensibile. Melanie Klein ci insegna che le tracce del mondo interno dei bambini riappaiono pienamente visibili nei loro giochi e nei loro disegni, che possono essere quindi interpretati analogamente alle libere associazioni degli adulti; ma se non c'è un altro realmente presente e vicino, realmente disposto a giocare e farsi schermo capace di raccogliere, comprendere ed elaborare tutto il dolore del bambino, quando mai egli potrà reintegrare le sue parti scisse?

Ed a questo punto potremmo allora chiederci: con quale efficacia lo schermo più o meno seduttivo di un televisore o di un computer multimediale può sostituire virtualmente per il nostro Ana-Tron la presenza di un essere umano reale? Nel cartone disneyano ad un certo punto il Brutto Anatroccolo incontra anche un'anatra di legno, una di quelle esche galleggianti, costruite e colorate ad hoc, che viene utilizzata dai cacciatori per attrarre le loro ambite prede volanti. Ovviamente l'anatra "virtuale" non reagisce, come sempre, scacciandolo e per l'Anatroccolo è la prima volta che non viene maltrattato; e anzi l'ondeggiare lento e ritmato sull'acqua dell'anatra di legno gli dà finalmente l'illusione di aver trovato una mamma capace di accoglierlo e di coccolarlo. Tutto va bene finché l'Anatroccolo non tenta di salire sulla schiena della finta anatra, per farsi cullare dal suo movimento ripetitivo così consolante, ma a quel punto però l'esca oscilla in modo imprevisto e spaventoso, facendolo cadere nuovamente nell'acqua e perfino colpendolo col duro becco eburneo sulla testa.

Già, proprio sulla testa, luogo simbolico del pensiero: per il Brutto Anatroccolo è l'ennesimo rifiuto, un colpo fisico, ma anche un'ennesimo attacco doloroso e persecutorio alla sua mente da parte di un oggetto inanimato (o comunque, nel caso del bambino abbandonato, un oggetto percepito come non animato da sentimenti positivi), una madre posticcia e rigida, che non sa e non può essere presente in modo vitale al suo fianco e giocare con lui, una macchina fredda che non può far altro che ripetere il suo proditorio richiamo. Così come in un certo senso fanno molte macchine del nostro tempo, siano esse più o meno meccanicamente o elettronicamente sofisticate, che rappresentano spesso, soprattutto per il diffuso consumismo imperante, anche un miraggio traditore, un'illusione alienante; e divengono quindi altrettanto frequentemente degli oggetti feticistici, meri sostituti di oggetti reali, che possono facilitare solo l'insorgere di una dipendenza e/o di un altro sintomo coattivo e ripetitivo, rendendo purtroppo anche il bambino o l'uomo simile ad una macchina.

I "catastrofisti", come dice Alberto Abbruzzese scrivendo su Telema, utilizzano molto questa visione alienante delle macchine anche per quanto riguarda le nuove tecnologie cibernetiche e ritengono che siamo ormai entrati pienamente in un'era di inesorabile declino per l'umanità. Ma le macchine, e quindi anche i più raffinati computers, sono davvero solamente, come qualcuno si ostina a pensare, dei freddi esecutori ripetitivi ed attivatori di dipendenza? E i videogiochi sono davvero solo delle esercitazioni infantili e delle pericolose distrazioni inoperose dal vero sapere della mente e del corpo? Oppure possiamo cominciare a considerare il computer multimediale anche come un compagno di giochi digitale o addirittura come un maestro virtuale? Lo dimostrerebbe il grande successo dei Cd-Rom, e certamente non solo di quelli contenenti dei giochi, anzi.

Come riporta Fabio Isman, sempre su Telema, una recente indagine di mercato ha collocato proprio i settori dell'arte e dell'architettura ai vertici dei "generi" preferiti da chi già possiede, o dai molti che intendono presto dotarsene, una sia pur ancora ridotta collezione di Cd-Rom (ma come la chiameremo poi: la nostra "cideria"? o la nostra "cideteca"?). L'arte è infatti "molto gradita" al 41% degli intervistati, e l'architettura al 38%. Contro il 31 del comparto "viaggi-geografia"; il 30 della scienza e, appena il 13 dei videogiochi. Insomma, sarà magari anche per il prezzo che non sempre è indifferente, ma di questo nuovo mezzo editoriale in Italia, paesi di geni ed artisti, si fa ancora, almeno così sembra, un uso abbastanza oculato. Perfino quasi del tutto "culturale"; e la produzione oltre che il mercato dei Cd-Rom sono ancora tutt'altro che maturi.

Del resto l'informatica sta rendendo all'arte servizi eccellenti: ne agevola senza dubbio lo studio e la divulgazione (vedi ad es. Codice ex-Hammer, ora Codice Bill Gates), la documentazione e la salvaguardia (vedi ad es. Galleria degli Uffizi o Galleria Borghese); rende possibili magistrali restauri di opere che altrimenti sarebbero destinate a scolorire o scomparire (come il Marc'Aurelio del Campidoglio o le Terme stabiane di Pompei); ci permette di scoprire molti capolavori nascosti (ad es. la ricostruzione virtuale di dipinti del Caravaggio altrimenti invisibili, visto che si trovano sulle medesime tele al di sotto altri dipinti).

Ma tornando a parlare di giochi e della ripetizione, certamente possiamo dire che un po' tutti i video-games hanno una struttura di base ripetitiva, ma anche che proprio per questo possono stimolare l'affinamento di strategie vincenti. Del resto la ripetizione è un fenomeno fondamentale non soltanto per ciò che è meccanico: si manifesta anche nel piacere che deriva dall'esercizio pratico, soprattutto se gradualmente più impegnativo; nel piacere che deriva dalla rifinitura attenta di ciò che produciamo creativamente, così come nel piacere che deriva dall'accettare una sfida e da tutto ciò che ci porta gradualmente all'apprendimento per tentativi ed errori ed all'affinamento appunto delle nostre strategie cognitive e comportamentali.

In questo senso, secondo Roberto Maragliano, il computer multimediale e persino i video giochi sono attualmente molto importanti nella crescita intellettuale dei bambini, in quanto consentono loro di stare in un rapporto reale e multisensoriale con le situazioni che vengono simulate nel virtuale. Ne deriva quanto sia importante non contrapporre in modo secco virtualità a realtà. Il virtuale non è qualche cosa che si viene a sostituire al reale, ma è una amplificazione delle possibilità di interpretazione e di uso del reale. Se non ci fosse il sogno, se non ci fosse la fantasia, se non ci fosse l'immaginazione noi saremmo in balìa delle cose, noi saremmo in balìa del reale. La virtualità si colloca esattamente a questo livello: è un ampliamento degli spazi, delle categorie, delle forme, entro le quali ridefinire e contrattare una nuova idea di realtà.

I bambini arrivano nelle scuole già con delle notevoli capacità di servirsi dei media che derivano se non altro dall'osservazione e dalla fruizione di cartelloni, insegne, cartoni animati, spettacoli televisivi e cinematografici. Sono dunque degli "esseri multimediali", come dice Maragliano parafrasando Negroponte. A scuola come a casa il bambino può dunque oggi facilmente utilizzare il computer in modo creativo e dinamico, sperimentando caratteri di stampa ed impaginazione, disegnando e colorando, esprimendo la propria fantasia. Tutto questo, come scrive Ornella Martini sulla rivista "Cooperazione Educativa", è per lui divertente, ma anche "gioioso, interattivo, stimolante". E per questo vengono chiamati "edutainment" (con una contrazione lessicale e semantica tra i termini "educational" ed "entertainment") tutti quei software utilizzati a scopo didattico, ma che conservano la leggerezza del videogioco. Tramite percorsi ipertestuali divertenti questo programmi stimolano e sviluppano le abilità cognitive, la curiosità la capacità di esplorare nuove possibilità e di inventare strategie nella soluzione dei problemi.

Anche lo psicoanalista junghiano Hillman, parlando del gioco, della fiaba e dei rituali, critica la classica concezione freudiana della ripetizione come mera attività primaria dell'istinto di morte e ci invita a pensare invece ai processi ripetitivi da un'angolatura diversa, meno sgradevole. La ripetizione gli appare anche come il substrato vitale presente sia nel rito che nelle arti. C'è anzi qualcosa nella natura umana che chiede di essere eseguito esattamente allo stesso modo più e più volte, come i rituali mattutini di certe culture per salutare il sole o quelli serali che si fanno per mettere a letto i bambini, sempre con la stessa fiaba raccontata necessariamente con le stesse inflessioni.

Sempre che ci sia un adulto attento e disponibile a raccontarla, naturalmente; cosa che lo stesso Maragliano consiglia del resto anche per l'uso del computer: la presenza attenta di un insegnante disponibile a giocare creativamente con la macchina insieme ai bambini ed anzi "come i bambini", con il loro stesso spirito di ricerca fantastica e con la loro stessa tendenza a rintracciare gli aspetti umani della macchina, per poter creativamente dialogare con essa. Non a caso forse anche Asimov, nel suo noto libro intitolato "Io Robot", narra come "fu una a bambina la prima a percepire la profonda umanità del robot". Del resto lo psicoanalista Bion dice che non è l'oggetto a determinare la qualità del sentimento: chi ama dimostra la propria capacità umana di amare; la qualità del sentimento dipende quindi soprattutto dal soggetto.

Ma veniamo dunque ora al finale della fiaba del Brutto Anatroccolo: ad un tratto per fortuna avviene l'incontro con una famiglia di cigni, che l'accoglie e se ne prende amorevolmente cura. Circodato dall'affetto, l'Anatroccolo può ora giocare con la madre e coi fratelli; e così pian piano il tempo passa e rimargina le ferite luttuose della mente, mentre il colore grigiastro del piumaggio lentamente si trasforma in un bianco splendente. Le rappresentazioni grafiche di molti libri a questo punto in genere ci mostrano un'immagine finale di un giovane cigno con le ali spiegate, finalmente padrone di se stesso e fiero della sua identità.

Quello che colpisce è che anche alla fine della storia dell'Anatroccolo i bambini che lo vedono ora così raffigurato come un magnifico cigno tra i cigni molto spesso esclamano: "Guarda! Ce n'è uno nuovo!" E infatti il cigno - come dice Ovidio nelle Metamorfosi - è sempre un uccello "nuovo", che compare all'improvviso, perché in genere si nasconde schivo e impaurito, dato che per sua natura "non si affida né al cielo né a Giove"; e questo poiché Cicno (o Cigno) è memore del fuoco scagliato da Giove contro suo padre Fetonte. Racconta infatti il mito che Fetonte, un giorno chiese a suo padre Febo di poter condurre il carro del sole, ma poi si avvicinò troppo alla terra e fece divampare incendi e prosciugare i fiumi. Allora Zeus lo fulminò ed egli precipitò, in fiamme, nel fiume Eridano. Tutto questo sotto lo sguardo atterrito del figlio Cicno, che pianse e fu trasformato in cigno; per questo, dice ancora Ovidio, "il cigno anela agli stagni, ai vasti laghi, e detestando il fuoco, sceglie come dimora i fiumi, nemici delle fiamme".

Al di là delle valenze edipiche presenti in questo mito, il cigno è dunque anche il simbolo del figlio che vorrebbe imitare il padre, ovvero che come il padre vorrebbe utilizzare uno strumento molto complesso, per lui nuovo, e tuttavia, non riuscendo a farlo, si sente inadeguato e terrorizzato, temendo una catastrofe o una punizione. E' il simbolo del giovane che vuole bruciare le tappe e che rischia di bruciarsi, perché non vuole seguire tutte le tappe necessarie ad uno sviluppo reale; ovvero, come direbbe Diego Napolitani, tutte le tappe, comprese la lentezza e le ripetizioni, che sono necessarie per l'apprendimento e per l'ingresso nel mondo degli adulti.

Ma hanno pienamente ragione i bambini a dire "Ce n'è uno nuovo!": il raggiungimento di un'identità adulta ed autonoma (autos) non è solo l'ammissione al mondo degli adulti (idem); è anche e sempre la nascita del nuovo dentro di sé, della propria personale diversità in senso positivo. Così il cigno della fiaba di Andersen crescendo finisce per appartenere veramente ad una famiglia di cigni ed è riconoscibile come identico agli altri cigni; è dunque finalmente parte di un insieme di identici, ma è anche "uno nuovo", autonomo e totalmente diverso, come ogni individuo adulto e psicologicamente maturo. Parafrasando Orazio, solo alla fine del duro percorso maturativo, spesso solitario come ogni iniziazione, si raggiunge la consapevolezza di una propria "aurea diversitas".

Per tutti questi motivi ho scelto la fiaba del Brutto Anatroccolo, ma anche perché, come dice Clarissa Pinkola Estés nel suo libro "Donne che corrono coi lupi", è una fiaba che incoraggia chi si sente deprivato e diverso a non darsi per vinto; ed inoltre l'anatroccolo che diventa cigno è un simbolo della natura selvaggia, di quella che potremmo chiamare la "cultura biologica di base" dell'uomo, che, se compressa anche in situazioni di forte deprivazione, istintivamente lotta per liberarsi, qualunque cosa succeda. A volte, quando stiamo per arrenderci, qualcosa ci mostra improvvisamente una via d'uscita, un passaggio, una possibilità di salvezza, come se una forza magica dentro di noi si rianimasse.

Come nei miti - dice Bruno Bettelheim nel suo libro "Il mondo incantato" - sono molte le fiabe che raccontano come il reperimento di un oggetto magico trasformi in modo vincente la vita dell'eroe o come il ritrovamento in se stesso di una forza magica consenta di rilanciare positivamente la sua avventura. Così il bambino isolato che si sente condannato ad essere un brutto anatroccolo non deve disperarsi, perché presto diventerà uno splendido cigno. Ma può il computer multimediale e la video-attività che esso consente rappresentare un oggetto altrettanto magico? o un oggetto altrettanto capace di attivare una forza magica e creativa dentro di noi?

Alberto Abruzzese sembra suggerirci positivamente questa ipotesi, affermando che la cibernetica, da Heidegger in poi, è soprattutto energia rigeneratrice e rinnovatrice. E Furio Colombo, nel suo articolo intitolato "Nel personal c'è un'anima e può darsi che sia d'artista", scrive: "Chi sa usare la straordinaria flessibilità del computer può muoversi entro limiti espressivi incredibilmente ampi ... E' presto per dire se ne risulterà accresciuta anche l'area dell'invenzione e della creazione artistica ... Il computer forse oggi come oggi abbassa un poco i punti alti di un possibile percorso d'artista. ... Ma allarga in modo drammatico i limiti espressivi disponibili per i non creativi. ... Il fenomeno è destinato, comunque, a generare una nuova estetica. E a segnare un'epoca".


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