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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Conversazione sul testamento biologico con Arianna Cozzolino

Maurizio Mottola


E' in corso l'esame del disegno di legge sul testamento biologico alla Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati: martedì 23 febbraio 2010 è stato approvato l'emendamento, il quale recita che alimentazione e idratazione "devono essere mantenute fino al termine della vita ad eccezione dei casi in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo". Ad Arianna Cozzolino, medico palliativista che lavora in Ospedalizzazione Domiciliare Cure Palliative Oncologiche - Hospice "Il Tulipano" dell'Ospedale Niguarda Cà Granda di Milano e responsabile del corso di formazione per medici alla Scuola Italiana di Medicina e cure Palliative (S.I.M.PA.), abbiamo posto in merito alcune domande.

Qual è la sua opinione sull'approvazione di tale emendamento, presentato dallo stesso relatore Domenico Di Virgilio? Credo che il complesso discorso su nutrizione e idratazione, intese come mezzi terapeutici oppure atti dovuti e quindi non definibili come terapia, sia molto vincolato a posizioni ideologiche e che questo emendamento si sia reso indispensabile, dopo la vivace espressione di numerose voci che hanno fatto rilevare, con motivazioni precise e non basate su opinioni ma su chiare evidenze, l'inapplicabilità di una nutrizione artificiale e/o di una idratazione forzata ad ogni individuo al termine della vita. Rispetto alla situazione precedente, quindi, meglio l'emendamento che l'assenza totale della possibile eccezione. Peccato che io non abbia chiaro per niente quali saranno, poi, i casi di eccezione di cui si parla, né quali siano le funzioni fisiologiche essenziali,  per di più in condizioni patologiche tanto gravi da portare a morte qualcuno.

Un'esponente della maggioranza ha dichiarato che "quest'apertura non è il riconoscimento di aver sbagliato con il testo Calabrò" licenziato dal Senato, ma si è resa necessaria per la presentazione di un altro emendamento che allargherebbe la platea di persone alle quali si applicherà la legge, vale a dire non solo i pazienti in stato vegetativo ma anche i malati terminali: che ricaduta avrebbe l'eventuale estensione ai malati terminali? Mi piacerebbe molto conoscere tale emendamento, ma credo che valga il discorso di cui sopra. Non ritengo concepibile che si passi il tempo a tentare di legiferare sull'utilità o meno di alimentare/idratare un malato terminale, perché io ritengo che questo sia un  atto medico. In questo caso dovrei aspettarmi  norme ulteriori su ogni altro atto medico: non so, dare o no un antibiotico, fare o no una trasfusione. Se il presupposto di partenza, invece, è che l'alimentazione artificiale non è atto medico, nel dirmi che ci sono casi -per quanto di eccezione- in cui essa può non essere più utile, mi si apre la prospettiva che essa possa essere futile o addirittura dannosa. Chi decide in quale delle situazioni diventa futile o dannosa? Perché se lo decide il medico allora torna ad essere di mia competenza professionale, quindi atto medico. Non riesco a trovare una logica. 

A decidere, in effetti, se idratazione e nutrizione non siano più efficaci per il paziente sarà il medico, "l'unico responsabile di giudicare, in scienza e coscienza, la condizione clinica dell'assistito": cosa succederebbe nella pratica clinica sua e degli altri colleghi se il testo venisse così approvato? Ecco che torniamo al punto della domanda precedente, ma a mio avviso il cuore della questione è un altro. Nella mia visione, il medico è un professionista che mette a disposizione del malato le sue conoscenze e competenze: informa, spiega le possibili opzioni terapeutiche e le loro conseguenze nell'accettarle o rifiutarle e, possibilmente, lo fa all'interno di un contesto relazionale, in cui si tiene conto dell'individuo e dei suoi valori. Se il malato è "competente", cioè se è in grado di comprendere le informazioni rilevanti e le conseguenze delle sue scelte, motivando le stesse secondo i suoi valori, è l'unico ad avere il diritto della parola definitiva su tutto ciò che lo riguarda, nel rispetto delle norme legali e deontologiche. Affidare al solo medico la possibilità e l'onere della scelta significa istigare alla medicina difensiva da un lato (chi dirà in serenità che è ora di "smettere" e su quali criteri?) e tornare, dall'altro, al vecchio concetto di paternalismo, per cui è solo il medico il detentore della verità e, soprattutto, del bene del malato. Un passo indietro clamoroso che non vorrei mai vedere.


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