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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Ultimi - Inchiesta sui confini della vita

Maurizio Mottola



Giovedì 25 febbraio 2010 si è svolta a Napoli la presentazione del libro Ultimi Inchiesta sui confini della vita (Rita Pennarola, Tullio Pironti Editore, pagine174): "Il libro di Rita Pennarola sui confini della vita è semplicemente sconvolgente e affascinante: esso ci introduce con la maestria di una grande investigatrice nel mondo sconosciuto della bioetica, dal quale i più sono rimasti lontani per limiti culturali e, forse, per il timore di prendere posizione su temi così scottanti. Si tratta di materia difficile e complessa. Eppure questo libro - che tratta magistralmente i temi ardui degli aborti, dei trapianti e del fine vita - riesce a colmare in modo semplice ed efficace, almeno in parte, le immense lacune su argomenti che tutti dovrebbero conoscere (dalla prefazione di Ferdinando Imposimato)". Questo libro si propone dunque di ripensare la comprensione dei diversi passaggi fisiologici che caratterizzano, sulla base delle leggi naturali, la nascita e la morte, che sono due momenti in cui l'essere umano è davvero "ultimo", privo in se stesso di quelle tutele che la natura invece assegna agli unicellulari per sfuggire ai pericoli. Insomma in materia di inizio e di fine vita, vari fattori hanno finora appannato gli aspetti puramente biologici dei due fenomeni, che vengono vagliati nel libro con un approccio bioetico. Rispetto alla bioetica sono sulle posizioni dello storico e filosofo (e sacerdote) Ivan Illich (1926 - 2002), che si riteneva fuori da ogni bioetica, proprio perché riteneva la bioetica una conseguenza della medicalizzazione della vita e della morte ("Un tempo la facoltà di vivere verso la morte si acquisiva nel quadro della cultura di ciascuno ... Nell'era della gestione dei sistemi, il medico, in quanto professionista, può solo essere d'ostacolo al morire intransitivo. Oggi, la preparazione al morire si può praticare solo con degli amici. Esiste una vecchia norma mediterranea secondo la quale ciascuno ha bisogno di un amicus mortis, che gli dica la verità e resti con lui fino alla fine"). Questo libro è un argomentato punto di vista e però svolgo talune considerazioni da altri versanti. L'atteggiamento attuale nei confronti della malattia e della morte è tale per cui si affida alla medicina (come parte dello sviluppo della scienza in generale) il pesante fardello salvifico, che una volta era prerogativa delle religioni e successivamente dei sistemi filosofico-politici. La medicina non semplicemente può, ma piuttosto "deve" abolire la sofferenza (cioè le malattie) ed in prospettiva, la morte. Oggi non si muore perché si è essere umani, ma si è "uccisi dalle malattie". Dalla totale accettazione della morte da parte delle culture primitive si è passati ad un sottile e pervasivo rifiuto del "morire". La maggioranza dei cittadini conferisce oggi ai medici l'onerosa consegna psicosociale di debellare sofferenza e morte. Fin quando i potenti fattori socioculturali sottesi a questa posizione saranno prevalenti e diffusi nella società, ogni risultato parziale, ogni mancata totale guarigione, ogni morte che segua a malattia diagnosticata porterà delusione e rabbia, che si tradurranno in convinzione che tutto ciò sia dovuto ad errore medico o a malfunzionamento della struttura sanitaria o ad entrambi. E' difficile in tale situazione accettare un ridimensionamento, che ricollochi nell'ambito del ciclo dell'esistenza le malattie, la vecchiaia e la morte. Certamente il contrastare l'accanimento terapeutico ed il promuovere la cultura dell'accompagnamento alla morte costituiscono due potenti antidoti, che riconsegnano al singolo individuo l'evento morte come momento intimo e personale, in modo tale che ognuno possa stabilire l'umano e personale scenario della propria morte contro la tendenza ad un evento del morire standardizzato e burocratizzato. Paradossalmente questa posizione critica, che viene prima di ogni bioetica, difficilmente può essere accettata dagli schieramenti che oggi occupano il dibattito pubblico su questi temi. Sia i difensori della vita ad ogni costo - grazie alle preziose tecniche della medicina -, sia i difensori della libertà e della buona morte si trovano spiazzati di fronte alla prospettiva di messa in discussione del primato della bioetica, fondato sulla medicalizzazione della vita e della morte. Entrambi i fronti, per gli strumenti che propongono e per l'accettazione acritica del sistema medico (comunque, sempre chiamato ad intervenire o pro o contro e viceversa), finiscono per esprimere le due facce della stessa medaglia. Le categorie mediche, sostenute dall'ideologia dello sviluppo, determinano una rappresentazione degli esseri viventi come sistemi immunitari, concezione che finisce per sostenere una sorta di a-mortalità. Come afferma Ivan Illich " ‘Zigote' è il nome dato all'uovo umano fecondato che cerca di trovarsi una nicchia nell'utero. Questo ‘fatto scientifico' sta per acquisire uno status giuridico in quanto soggetto umano (...) perché i costituzionalisti come la cancelleria pontificia insinuano che il genoma e il citoplasma possono svilupparsi in un ‘io' per il riconoscimento dell' ‘altro' - all'occorrenza, la madre -". Se non si demedicalizza la società (e le normative) non se ne esce fuori: vita, sofferenza e morte sono territori che vanno sottratti all'invadenza della medicina. I medici antichi, capaci di riconoscere la facies ippocratica (espressione del viso che indicava che il paziente era entrato nel percorso verso la morte), si ritiravano su questa soglia e ciò era il migliore aiuto che un medico potesse portare alla buona morte di un suo paziente. Oggi, invece, ci troviamo di fronte alla proliferazione di cure terminali, che prolungano in un coma irreversibile lo stato vegetativo (definito eufemisticamente esistenza) del paziente, reso inerme dalle condizioni in cui versa e dalla burocrazia normativa.


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