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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Conversazione sull'istituzione negata con Mario Mastropaolo

Maurizio Mottola


Giovedì 11 e venerdì 12 novembre 2010 si è svolto a Napoli il convegno di studi 'La Diversità Liberata Storia di una istituzione negata: Basaglia e l’ospedale psichiatrico di Gorizia', organizzato dal Dipartimento di Scienze Relazionali G. Iacono e dal Dipartimento di Filosofia A. Aliotta dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, e dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. Allo psicologo e psicoterapeuta della Gestalt Mario Mastropaolo, tra gli organizzatori e relatori del convegno, abbiamo posto alcune domande.

Perché un convegno su Francesco Basaglia, adesso?

Ho assistito volentieri alla fiction televisiva “C’era una volta la città dei matti”, mandata in onda sulla Rai nella primavera scorsa, che mi ha ricordato l’esperienza drammatica dell’ospedale psichiatrico nella quale mi coinvolsi alla fine degli anni sessanta, sia visitando l’ospedale di Gorizia e parlando con gli operatori dell’istituzione, sia tentando di esportare l’esperienza all’ospedale di Nocera Superiore. Calato in quella realtà disumana alla quale avevo partecipato, ho avuto modo di scoprire quanto di attuale resta di quell’esperienza. Ritengo sia merito degli autori della fiction l’aver restituito l’umanità dell’intervento attraverso la poesia che trapela dagli infiniti episodi di solidarietà, tristezza, impotenza, speranza e nello stesso tempo di violenza, angoscia, miseria umana, attaccamento individuale al proprio interesse ottenuto a spese di un’attività fatta di orrori (sindacato degli infermieri). Per capire quale sarà il successivo sviluppo dell’iniziativa risulterà anche necessario soffermarsi sul rifiuto di Basaglia di partecipare alla cosiddetta prova ”scientifica”, rifiutandosi di assecondare l’ambiguo e sadico invito, privo di qualunque sensibilità ma compatibile col postulato dello scientismo medico, costruito nelle Università alienate che sono l’espressione di quella società deforme, la stessa che contribuirà alla costruzione del malessere. Questo gesto va interpretato come una ribellione spontanea nella quale l’identificazione con i degenti è l’unica garanzia di una disposizione positiva verso le loro difficoltà non risolvibili da alcuna medicina, o intervento “scientificamente corretto” o altro trucco scientistico. Quello di Basaglia è un gesto non appreso che sta a testimoniare un interesse reale per l’altro, la realizzazione di quella disobbedienza civile per la quale si è disposti a sfidare l’autorità. Il suo rifiuto gli costerà la carriera universitaria, talvolta utilizzata come una consolazione squallida che, nascendo da un potenziamento effimero della personalità, rappresenta il tradimento umano più feroce perché fondato sull’odio verso la diversità. La comparazione con le tecniche dei regimi autoritari e le infinite prove di fedeltà, nelle quali il valore assoluto di riferimento è dato dall’obbedienza stessa, è la base psicologica alienata di qualunque mancata individuazione o autonomia. Non a caso Kholberg, che aveva a lungo indagato sulla formazione del pensiero morale, colloca questo livello etico in un alto processo di maturazione nel quale la disobbedienza civile viene posta come uno dei raggiungimenti che vanno oltre il convenzionalismo. Tutto questo è di grande attualità.

Quali convergenze e quali divergenze tra il pensiero sulla malattia mentale di Francesco Basaglia ed il suo?

Non vedo discordanze perché è necessario prima di tutto mettere la malattia mentale tra parentesi. L’indicazione di Basaglia ci consentirà di mettere, anche noi, adesso la malattia mentale tra parentesi. Se essa è infatti l’ostacolo che non consente agli operatori di raggiungere la persona con la sua sofferenza, allora diventa improvvisamente vero che, una volta messa tra parentesi la malattia mentale come già detto, sarà possibile scorgere le angosce, le paure, le insicurezze del medico, dell’infermiere o degli altri operatori davanti alla riscoperta del dolore. Il “malato mentale” è diventato lo specchio del nostro mondo interno. Jung, nel suo testo La realtà dell’anima scrive: “Ho sempre provato un’estrema difficoltà a comunicare al mio pubblico, nella sfera della psicologia, cose comprensibili per tutti. Cominciai a imbattermi in questa difficoltà quando ero ancora medico nella clinica psichiatrica. Ogni psichiatra deve infatti fare da sé la strabiliante scoperta che egli non è affatto competente a decidere sulla sanità mentale o sulle malattie delle persone, ma l’egregio pubblico ne sa assai più di lui. L’ammalato non si arrampica sui muri, sa dov’è, riconosce i parenti, non ha mai dimenticato il proprio nome: dunque non è per nulla malato, ma solo un tantino triste, o un tantino esaltato; e il parere dello psichiatra che egli soffra di una malattia o di un’altra, è completamente sbagliato”. E’ possibile qui cogliere l’occasione per dare forza ad un fondamento visibile, reale, che esiste una soggettività che non può essere eliminata, né ridefinita in ambiti diagnostici o categorie tipologiche. Jung continua: “Ma questa esperienza comune tocca già il campo della psicologia dove la situazione è anche peggiore. Anzitutto, ognuno pensa di conoscere perfettamente la psicologia; e “psicologia” è sempre la sua psicologia; e soltanto lui la conosce; ma nello stesso tempo la sua psicologia è la psicologia in generale. Si suppone istintivamente che la propria costituzione psichica sia comune a tutti; che cioè tutti gli uomini siano essenzialmente fatti allo stesso modo, ossia come se stessi … Certo si ammette in genere la varietà delle anime umane ma si torna a dimenticare in pratica che l’altro è effettivamente un altro, che sente e pensa e vede e vuole delle cose diverse da noi stessi. Abbiamo ora visto che vi sono anche teorie scientifiche fondate sul principio che una sola scarpa debba adattarsi a tutti i piedi. Ma … Vi sono molte altre dottrine che postulano l’uniformità, con assai più gravi conseguenze sociali scordando del tutto l’esistenza dell’anima singola”. Jung sta sostenendo che lo spirito oggettivo coincide con lo spirito del tempo. La realtà è che questa rigida tendenza è quella che, impedendo il contatto umano, finirà col sostenere la psichiatrizzazione della sofferenza.

A suo avviso che apporto possono dare l’attuale psichiatria e le attuali psicoterapie nella cura delle malattie mentali?

Voglio chiarire che io non faccio lo psichiatra ma le mie conoscenze riguardano la psicologia e la psicoterapia e la mia pratica è stata sempre circoscritta alla circostanza e alle possibilità limitate di intervento. Ma l’esperienza di Basaglia ha chiarito qualcosa che va molto oltre le dispute sulla malattia mentale nel momento in cui è entrata in relazione con la questione della diversità. Non tutti i cosiddetti malati di mente sono pericolosi socialmente e è molto difficile sapere in che misura la violenza non si scateni da condizioni di vita di emarginazione e degrado istituzionale. Basaglia chiarisce ai suoi collaboratori che il problema non è quello di rimuovere, cioè eliminare dalla coscienza i sentimenti di angoscia e di paura, bensì assumerne la piena responsabilità utilizzandoli come il fondamento della cura stessa. Sarà proprio la condivisione di questi sentimenti a creare quel contatto necessario che romperà l’isolamento riducendo le distanze tra medico e paziente e li comprenderà entrambi nella condivisione degli eventi e del dolore che ne deriva. Dunque non è importante quello che un medico o uno psicologo sentono, quanto cosa ne faranno di quello che sentono; potranno utilizzarlo aumentando la distanza con l’altro e trasformando così la stessa vita affettiva in un’altalena tra transfert e controtransfert. L’altra possibilità sarà quella di assumere la responsabilità di creare una relazione reale nel presente, fatta di quello che ognuno sente e avverte, trasformando la staticità dei ruoli in un fluire della coscienza. L’ignoto può, dunque, diventare esplorabile e non più territorio dell’altro. La cura della “malattia mentale” può diventare, allora, in una prospettiva radicalmente diversa, la possibilità di un incontro memorabile, ricco di potenzialità evolutive, mentre il tentativo di utilizzare un modello biomedico proprio l’ostacolo che si frappone a questa opportunità. Tra le tante scene che la fiction offre, significativa è quella nella quale Basaglia, preoccupato e solo davanti alle responsabilità che si è assunto, si accorge che Boris (quel bestione imprigionato dalla paura) è diventato un essere umano. E’ avvenuto un meraviglioso role playing: il malato è diventato medico ed il medico malato. I ruoli si sono invertiti segnalando la flessibilità del gioco delle parti. Una volta ridotto l’uso del pensiero logico, il più profondo delirio acquista improvvisamente significato e si esprime attraverso un linguaggio che non può essere pensato, bensì intuito. Questo linguaggio simbolico racconta di una sofferenza antica troppo spesso legata a relazioni sociali fondate su povertà, prevaricazione e violenza; di un abbandono ad una solitudine senza speranza; di una fuga in luoghi sconosciuti e spaventosi dell’anima nel tentativo di salvare la propria integrità. Come abbiamo visto, lo spirito del tempo ispirato all’oggettività fino al punto che la parola scienza si confonderà con quella di conoscenza, non riesce a spiegare l’uomo nella sua interezza e nella sua complessità, e la cosiddetta malattia mentale è quella che più di tutte le altre mette in crisi il paradigma scientifico dominante perché è un ardito e violento richiamo alla soggettività. La comunità che con la sua intolleranza ha emarginato la diversità dalla quale si sente minacciata, può sollecitare una violenza irrazionale che svolge la funzione di rassicurare i cosiddetti “sani” che restano arroccati su un concetto di sanità oggettiva; quella stessa che favorisce l’isolamento nei ghetti allo scopo di preservare l’idea rassicurante dell’esistenza di una cosiddetta normalità. Diversità, pazzia, pericolo diventano sinonimi ed il pensiero creativo fortemente penalizzato è relegato nella “anomalia” degli artisti ai quali si attribuisce rilevanza solo se rientrano nel novero dei falsi valori, tra i quali spicca il successo allo scopo di confermare in maniera conformistica le relazioni sociali esistenti. La penalizzazione del pensiero creativo fondato sull’intuizione impedisce, dunque, la capacità soggettiva di rappresentare il mondo.


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