PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2005, 99: 55-61

Amore tra paziente e terapeuta
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Cosa succede se paziente e terapeuta si innamorano, o se si sentono attratti e iniziano una relazione? Questo argomento non è dei più semplici, anche perché è facile scivolare in moralismi (del tipo "questa cosa non va fatta e basta, lo dicono le regole"), supportati peraltro dal codice deontologico. Ma l'atteggiamento psicoanalitico è altra cosa dal seguire delle regole imposte esternamente, è un comportamento interiorizzato, dotato di un senso preciso e seguìto senza conflitti interni o il bisogno di regole esterne (o almeno così dovrebbe essere).

Vorrei fare alcune riflessioni su questo problema, senza pretendere certo di dire l'ultima parola su un tema che è già molto dibattuto (si pensi solo al libro di Gabbard & Lester del 1995 Violazioni del setting [Milano: Cortina, 1999]). L'occasione mi è venuta circa un anno fa, quando ad una rubrica del portale Internet Vertici, chiamata "Chiedi all'esperto", si rivolse una donna chiedendo consigli su come comportarsi dopo che si era coinvolta in un rapporto affettivo col suo terapeuta. La redazione di quella rubrica mi chiese se ero disposto a risponderle, e io accettai. Riporterò qui questa mia risposta, e ringrazio per il permesso di ripubblicarla. Come si vedrà, non risposi direttamente (mi sembrava meno interessante, o riduttivo), ma cercai per così dire di aggirare il problema, esaminando le implicazioni di determinati comportamenti. Ho mantenuto cioè un atteggiamento che si può definire psicoanalitico, nel senso che ho cercato solo di riflettere senza necessariamente prendere una posizione precisa (in questo modo, a mio parere, si lascia maggiore spazio e autonomia alle varie soluzioni possibili).

Ma per prima cosa sentiamo cosa disse quella donna, in che modo formulò la sua domanda: 

"Da circa un anno e mezzo frequento uno psichiatra psicoterapeuta. Sono andata da lui per problemi definiti dai medici di somatizzazione (avevo sintomi non riconducibili a nessuna patologia). Il mio percorso terapeutico è stato molto graduale, questa persona ha saputo conquistare la mia fiducia, mi ha aiutata tantissimo, posso dire che da quando lo frequento la mia vita è cambiata decisamente in meglio. Al rientro dalle vacanze estive, dopo un lungo intervallo, ci siamo scambiati delle tenerezze, abbracci e baci. Molto bello sia per lui che per me, anche se estremamente difficile, sia per la situazione nostra personale (entrambi abbiamo famiglia e figli) sia perché assolutamente vietato all'interno del rapporto medico-paziente. Adesso ogni volta che ci vediamo non riusciamo a stare lontani, è come se fossimo calamitati. La domanda è: possiamo continuare a fare terapia in questo modo? Possiamo rinunciare a quello che proviamo e andare avanti come se niente fosse? Che lui scompaia dalla mia esistenza o che sia sostituito da un altro medico al momento mi sembra difficile, ho avuto tante resistenze alla terapia e adesso che ho una persona di riferimento mi sembra impossibile rinunciarvi. Non so che fare, anche per tutelare la mia vita. Un consiglio, grazie". 

Io risposi nel modo seguente. Data la intimità del rapporto paziente-terapeuta è quasi la norma (anzi, è auspicabile) che vengano stimolati dei sentimenti: ad esempio da parte del paziente possono venir stimolati attaccamento o dipendenza (che possono anche essere o non essere "transferali", ammesso che si possa fare una differenza), e da pare del terapeuta accudimento e protezione (naturalmente, anch'essi possono essere "controtransferali" in senso lato). Tra questi sentimenti vi possono essere ovviamente desideri affettivi e sessuali da parte di entrambi i partners. Raramente però vengono agiti (o è raro che vengano raccontati, infatti vi sono ricerche che avrebbero dimostrato che non sono poi così rari). I motivi per cui non vengono agiti sono innanzitutto deontologici: essi sono proibiti, ed esistono precise sanzioni per chi infrange il codice deontologico della professione. Ma questi motivi non sono gli unici, anzi sono quelli che a noi qui interessano meno, dato che sono scontati: in ogni contesto civile esistono delle regole, e chi le infrange se ne assume le responsabilità e i rischi.

L'aspetto molto più interessante di questa problematica riguarda i motivi per cui sarebbero proibiti, anche perché sappiamo bene che esiste una differenza tra morale ed etica. In altre parole, determinate leggi, in determinati periodi storici o contesti culturali e geografici, possono essere considerate "sbagliate" da un singolo individuo, per cui, appunto per precisi suoi motivi "etici" cioè per motivi "di coscienza", le infrange e se ne assume la responsabilità, pagando a volte di persona un caro prezzo. Gli esempi sono innumerevoli, si pensi agli obiettori di coscienza, o a anche coloro che vanno contro la legge per motivi altruistici, ecc. Anche la storia che lei ci riferisce potrebbe rientrare in uno di questi casi, ma lei mi sembra un po' incerta, perplessa, per cui forse non ha ancora fatto una scelta di cui è pienamente convinta, sta ancora riflettendo su quello che le sta accadendo.

Per quale motivo quindi, secondo una nostra etica o convinzione personale, andrebbero evitati i contatti sessuali tra terapeuta e paziente? Va precisato a questo proposito che è sempre difficile stabilire delle regole a priori, perché a volte queste regole non comprendono tutte le possibilità del reale, e va deciso caso per caso. Quella che è importante è la logica che dovrebbe guidare il nostro comportamento, ed è di questo che è interessante parlare qui, anche perché ci aiuta poi molto di più a capire come comportarci.

Innanzitutto, dopo aver letto la breve descrizione della sua esperienza, sorge una domanda: questo terapeuta, dopo che avete cambiato la vostra modalità di rapporto, cioè dopo che avete incominciato a scambiarvi affettuosi abbracci, carezze, baci, ecc., continua a farsi pagare? Non solo, ma mi chiedo anche: continuate a vedervi in modo regolare come prima, rispettando i giorni e gli orari fissi delle sedute? Se sì, dovremmo chiederci perché è così, cosa questo significhi, e penso sarebbe interessante analizzarlo da parte vostra (tra parentesi, è curioso il modo con cui lei si è espressa: "Da circa un anno e mezzo frequento uno psichiatra psicoterapeuta…" – l'uso del verbo "frequentare" sembra qui un lapsus!). Se il suo terapeuta è, come lei dice, un bravo terapeuta, sono sicuro che starà analizzando questo fatto e che la starà coinvolgendo nella riflessione su quello che vi succede. Può non essere chiaro a prima vista il motivo di farsi pagare per compiere una attività piacevole e condivisa a cui immagino il terapeuta tenga molto (escludo infatti che lui si comporti in modo affettuoso per finta, sarebbe orribile, questo sì che non sarebbe etico per chiunque). A questa domanda è collegata un'altra: dato che il suo terapeuta è uno del mestiere come lo è chi in questo momento le sta rispondendo dopo che lei si è rivolta a questo servizio di consultazione, come mai non ha cercato di fare le stesse domande a lui, del quale tra l'altro, come lei dice, ha la massima fiducia? Probabilmente lo ha già fatto e lo continua a fare, però desumo che il suo terapeuta non è stato capace, almeno finora, di rassicurarla pienamente, di spiegarle in modo soddisfacente quello che sta succedendo tra voi così da evitare che lei sentisse il bisogno di rivolgersi ad un consulente (sul problema della crisi di fiducia che può insorgere verso il proprio terapeuta, può anche guardare un'altra mia risposta in questa stessa rubrica, dal titolo "E se cambiassi analista?"). La eventuale sfiducia nel proprio terapeuta però è un altro problema, a sé stante, che ha una sua importanza in quanto tale e va affrontato. Tra l'altro, se vi è una diminuzione di fiducia nel suo terapeuta, ciò sembra a prima vista paradossale, perché nello stesso tempo lei pare abbia una grande fiducia in lui, tanto che si è lasciata andare a una apertura affettiva e sessuale in un modo che in genere consideriamo il più intimo, quello che riserviamo a coloro di cui ci fidiamo di più.

Giunti a questo punto di queste riflessioni, sembrerebbe che c'è già fin troppa carne al fuoco, fin troppo materiale che io mi permetterei di consigliarle di discutere col suo terapeuta-amico. Ma continuiamo in questa discussione, e facciamo alcune ipotesi. Supponiamo che, da quando nel vostro rapporto è avvenuto il viraggio sentimentale-sessuale di cui lei parla, il suo terapeuta abbia deciso di non chiederle più una remunerazione, perché semplicemente non se la sentiva, la trovava contraddittoria dato il clima paritetico che si era venuto a creare che invalidava il contratto che vi eravate dati all'inizio della terapia. A questo punto quindi voi sareste due persone fortunate che, per i sentimenti che sono sbocciati, si incontrano per il piacere di stare insieme, di godere di questi sentimenti. Però, per la verità, sareste "amanti", avendo ciascuno di voi, come lei dice, una famiglia (i rispettivi coniugi se ho ben capito sono ignari di questa vostra relazione). In questo caso, la vostra storia rientrerebbe nella stessa categoria di quelle infinite altre storie di "amanti", di "tradimenti", ecc., che sono sempre esistite da che mondo è mondo. E perché allora, essendo voi due amanti, continuereste a incontrarvi in giorni e orari fissi? Semplice: essendo appunto amanti, e quindi clandestini, dovete per forza incontrarvi così, non normalmente come fanno le comuni coppie che si incontrano quando a loro piace, cioè nelle case dell'uno e dell'altra, al ristorante, al cinema, a passeggiare nelle strade o nei parchi cittadini. Incontrandovi nello studio come facevate prima, i rispettivi coniugi non sospettano niente, e la vostra storia può continuare.

Sia ben chiaro, non è che io voglia liquidare il problema così, nel senso che si potrebbe parlare a lungo della psicodinamica degli amanti, delle eventuali problematiche connesse, ecc., ma sarebbe un'altra cosa e occuperebbe troppo spazio qui (a proposito, mi viene in mente che, volendo, può leggere un'altra mia risposta in questa rubrica, su un argomento diverso dove però alla fine faccio anche considerazioni sul problema degli amanti: "Dipendenza dalle chat, amore su Internet, e altri strani fenomeni", che ho pubblicato anche nella mia rubrica del n. 100/2005 - ho saputo che questa mia risposta è stata ripubblicata a pp. 160-163 del libro a cura di Rolando Ciofi & Dario Graziano Giochi pericolosi? Perché i giovani passano ore tra videogiochi online e comunità virtuali. Milano: FrancoAngeli, 2003). Una persona sposata che abbia la sfortuna (o la fortuna, dipende dai punti di vista e da vari fattori) di innamorarsi di un un'altra persona deve necessariamente affrontare una serie di problemi e porsi alcune domande: come mai è successo? E' un caso, cioè ho incontrato una persona particolare che è stata capace di smuovere determinate cose in me? (un terapeuta potrebbe ben esserlo). E' un segno di crisi o di aggressività verso l'attuale coniuge? Devo separarmi ed iniziare una nuova vita? Come faccio a capire quale è la cosa giusta per me? Ecc. A volte questo "sintomo" può essere un evento fortunato perché permette di capire determinate cose della propria vita di coppia che poi, superato questo "incidente", procede verso un netto miglioramento. In genere, se si è così fortunati di avere come coniuge una persona matura con cui abbiamo un rapporto vero, cioè di stima e di fiducia reciproca, l'ideale sarebbe parlargliene subito, cercare di capire insieme cosa è successo (l'ideale, quindi, sarebbe che lei parlasse subito con suo marito di questa svolta nella sua psicoterapia). In certi casi, al contrario, il bisogno immediato di confessarsi col partner può significare solo una incapacità di tenere una cosa dentro, di assumersi una responsabilità, il bisogno di buttare addosso a qualcun altro un peso, senza altro motivo che il non saper tollerare una angoscia di colpa. Insomma, le possibilità sono innumerevoli.

Ma torniamo più specificamente alla sua situazione, paradigmatica, quella in cui i due partners di una relazione terapeutica sentono il bisogno di avvicinarsi affettivamente e sessualmente. Cosa devono fare? Come ho detto, una possibilità è che cambino immediatamente registro, cioè terminino la psicoterapia e si mettano insieme. Potrebbero anche fidanzarsi, sposarsi e "vivere felici e contenti". Questa però rischia di essere una lettura semplicistica e ingenua della situazione. La psicoterapia infatti è un luogo dove, per definizione, si fa innanzitutto un lavoro in cui si riflette sul comportamento, invece di agirlo. Se togliamo questa caratteristica alla psicoterapia, essa diventa uguale alla vita stessa, per cui, ripeto, c'è da chiedersi allora perché rimane il pagamento e si mantengono certi ruoli. Certamente, il confine tra il riflettere e l'agire può essere sottile e a volte incerto, soprattutto perché noi mettiamo sempre in atto dei comportamenti (soprattutto quando magari crediamo di non farlo!). Ad esempio, un terapeuta ingenuo o inesperto può essere molto seduttivo già solo con le parole, o addirittura può essere molto più scorretto e "abusante" verso una paziente anche se mantiene una distanza fisica da lei. Quello che è importante però è che noi sappiamo tenere aperto il problema, sappiamo domandarci costantemente quali sono le implicazioni dei nostri interventi o comportamenti.

Ma veniamo alla possibilità che una paziente si innamori del proprio terapeuta (tralascio, per brevità, di esaminare la possibilità speculare, cioè che un terapeuta si innamori di una sua paziente, ma le dinamiche sono identiche [si vedano a questo proposito i due scritti di Searles sull'innamoramento del terapeuta nel libricino I sentimenti del terapeuta, pubblicato nella collana "L'osservazione psicoanalitica" della Bollati Boringhieri nel 1992]; ovviamente non fa differenza se il paziente è un uomo e la terapeuta una donna). Questa quasi sempre è una evenienza molto bella, benvenuta, che va accolta bene e favorita. Mai una paziente deve essere respinta. C'è sempre un motivo per cui una paziente (o, se è per questo, qualunque persona) si innamora di qualcuno, e questo motivo va capito. Una paziente può sentirsi molto ferita da un terapeuta che vive male il suo amore per lui. Magari lei è riuscita ad innamorarsi adesso per la prima volta, e ha bisogno di vivere questa esperienza nel modo migliore e più completo possibile. Alcuni terapeuti in supervisione a volte mi hanno raccontato che si sentivano a disagio, se non addirittura spaventati, dal pressante amore manifestato da certe loro pazienti, perché era intransigente, troppo richiedente, e temevano di non saperlo gestire (questo loro vissuto di paura era probabilmente l'effetto di una identificazione proiettiva della paziente, cioè di una proiezione che non era stata ben metabolizzata dal terapeuta, per cui c'era il rischio che venisse ributtata tale e quale addosso alla paziente, col risultato di convincerla ulteriormente che amare qualcuno è pericoloso o che si viene sempre respinti [per il concetto di identificazione proiettiva, rimando al mio articolo nel n. 49/1988]). Nella mia esperienza ho notato che se un terapeuta non sapeva accogliere bene l'amore di una paziente, questo amore poteva crescere in modo patologico e diventare proprio quello che quei terapeuti temevano, cioè ossessivo, intransigente, ecc., mentre se sapevano riconoscerlo senza paura e parlarne, poco per volta le pazienti accettavano di non poter essere ricambiate, e quel tipo di innamoramento passava, come se il loro bisogno di amore fosse stato soddisfatto in modo più profondo così da non aver più bisogno di essere ricambiati in modo concreto a tutti i costi. Questo ci insegna che il bisogno di amore risponde a una esigenza complessa, profonda, non facilmente riducibile a un comportamento manifesto.

Allo stesso modo, sempre per mostrare la complessità delle implicazioni sottostanti a questa problematica, tutti i terapeuti avranno notato quei casi in cui una paziente ci chiede amore con pressione, urgenza, bisogno disperato, e ci fa sentire in colpa perché non le corrispondiamo, mentre lei ci accusa di essere ingrati e così via. Ebbene, può accadere che dopo una escalation di varie sedute o settimane, quando veramente la paziente si convince che non cediamo alle sue seduzioni, ma che tuttavia siamo molto interessati a lei e capisce che il nostro modo di "amarla veramente" è quello di essere dei bravi terapeuti, tutto a un tratto esclama: "Adesso finalmente posso fidarmi di lei!". E comincia ad aprirsi molto di più, a entrare in una fase nuova della terapia come se l'analisi stesse incominciando proprio in quel momento. Evidentemente era in atto un test inconscio sulla figura transferale. Non raramente queste sono pazienti che in passato hanno subìto violenze o abusi sessuali, poi agiti nel transfert, e che vanno inconsciamente alla ricerca di persone (ad esempio un terapeuta) che non le deluda, che le sappia rispettare, che sia veramente interessato a loro come persone e non solo come oggetti sessuali. Viceversa, a proposito di test inconsci, vi sono molte ricerche che hanno ben documentato quanti e quali danni abbiano provocato alle pazienti quei terapeuti che con varie razionalizzazioni hanno scelto di avere contatti sessuali, provocando riedizioni traumatiche di abusi sessuali infantili. E molte volte quelle pazienti che per tanto tempo avevano cercato di avvicinarsi sessualmente al terapeuta e finalmente riescono nel loro intento, rimangono profondamente deluse, si sentono tradite, come se inconsciamente lo avessero messo alla prova e lui avesse fallito un importante test. Il setting della  psicoterapia è anche una grande metafora pregna di significati simbolici, in cui può accadere che una infrazione alle regole che ci si è dati abbia un potente significato inconscio, ad esempio di tipo incestuoso (per i significati simbolici del mantenimento delle regole del setting, rimando ai tanti lavori di Langs degli anni 1980, vedi ad esempio il libro del 1985 Follia e cura [Bollati Boringhieri, 1988] – ho accennato a Langs nella mia rubrica del n. 45/1987).

Quello che intendo dire è che la psicoterapia è una situazione molto complessa, in cui un grosso pericolo è la banalizzazione, la perdita di possibilità terapeutiche. E l'agito sessuale tra paziente e terapeuta può essere uno di questi casi: la infinita ricchezza in termini emotivi e psicologici di un rapporto analitico può non reggere al confronto con un rapporto sessuale, quest'ultimo essendo, in fondo, spesso una cosa che tanti sanno fare: ben difficile invece è avere un vero e profondo rapporto affettivo, questo lo sanno fare in pochi, e la psicoterapia può ben fornire una grande possibilità maturativa in questo senso. Non solo, ma la psicoterapia è un valore importante per i pazienti, e socializzare col paziente porta inevitabilmente anche a una perdita di quel valore, perché implica necessariamente la interruzione della psicoterapia: e questo è già di per se un danno molto grave che può essere arrecato a un paziente.

Non so se ho risposto alla sua domanda, la cui risposta so bene che è complessa e difficile. Mi sono limitato a fare alcune riflessioni generali, che non si riferiscono necessariamente al suo caso specifico, del quale mi sono servito per prendere spunto. La ringrazio per la sua domanda, e non esiti a contattarmi per un eventuale approfondimento.

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

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