PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2004, 95: 123-125

A testa alta
Recensione del libro di Bianca Stancanelli A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario (Torino: Einaudi, 2003)
 

Marzio Dazzi & Paolo Migone

 

"Qué importa nuestra codardía si hay en la tierra un solo hombre valiente...": questa è l’epigrafe, tratta da Jorge Luis Borges, che Bianca Stancanelli ha scelto per il suo bellissimo libro A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario, nel quale racconta la storia di Padre Pino Puglisi, prete-coraggio che cercò tenacemente agli inizi degli anni 1990, insieme ad uno sparuto numero di "amici", di far conoscere e provare alla gente del rione Brancaccio, alle porte di Palermo, cosa potesse voler dire vivere nel rispetto delle regole e delle libertà di ogni essere umano. Rimase solo in questa sua battaglia, e fu ucciso. Non possono qui non tornarci ancora una volta alla mente, purtroppo, le terribili parole di Giovanni Falcone: "Si muore perché si è soli… Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere".

Fin dalle prime pagine dell’appassionante e coinvolgente libro della Stancanelli, il lettore si rende conto di trovarsi di fronte veramente ad una persona non comune, un uomo di fede, solo, che chiarì subito con fermezza al gruppo di giovani che gli erano vicini e che gli chiedevano di essere un prete di sinistra, di fare politica come il suo predecessore, che lui non voleva avere nulla a che fare con la politica. O forse sapeva troppo bene che facilmente l’avrebbero tacciato di essere un "comunista", mentre lui voleva aprire anche altre contraddizioni, provocare quell’ambiente in un modo più difficilmente liquidabile. Ma ben presto la delusione di quei ragazzi svanì perché impararono a conoscere, giorno dopo giorno, l’uomo Puglisi. Fecero esperienza del suo coraggio mai domo nella propria lotta contro i boss di Cosa Nostra e poterono sperimentare quanto fossero rivoluzionari il suo pensiero e le sue azioni a Brancaccio.

Il primo, assillante desiderio di Padre Puglisi fu allora quello di "parlare" ai bambini, a quei bambini che a Brancaccio vivevano tutto il giorno per le strade senza una meta precisa perché i genitori non si preoccupavano che frequentassero la scuola. Qualche lavoro in nero nei bar o in qualche negozio, ma poi per molti il futuro voleva dire compiere piccoli furti, e in seguito spacciare droga o eseguire altri servizi per conto dei mafiosi. Partì dai bambini Padre Pino Puglisi, si rivolse a loro semplicemente trattandoli bene, mostrando loro nei fatti che era possibile un tipo di esperienza di relazione che non avevano potuto provare nelle loro famiglie, dove spesso erano stati cresciuti con poco rispetto, umiliati, come accade in certe culture dove i minori vengono considerati come oggetti. Come è ben noto, in determinate sottoculture, ad esempio del Sud, i giovani acquistano rispetto e dignità di uomini solo quando si sposano o lavorano, non prima, e questo è fondamentale per comprendere la mentalità, tutta difensiva, del "rispetto" e dell’"onore" (nel senso che è proprio la continua enfasi in questi valori quella che ne dimostra l’assenza, il continuo timore di non meritare rispetto né onore). Insegnò a questi bambini a stare lontano dalla strada, propose loro valori e regole utilizzando il gioco, perché nemmeno erano capaci di correre e divertirsi insieme con una palla sopra un prato. Li educò a non invidiare e a non identificarsi più con quegli uomini "d’onore" che in città camminavano "a testa alta", potendo solo loro guardare negli occhi gli altri, perché il  rispetto lo ottenevano con la violenza, la sopraffazione e seminando paura. Fece comprendere loro che, viceversa, sono l’osservare le regole, l’impegno personale quotidiano, il riconoscere l’altro ed il rispettarlo che ci conferiscono la forza di camminare a testa alta ed il diritto di fare valere le nostre opinioni e ragioni. Particolarmente significativo, a questo proposito, ci sembra il titolo di questo libro, A testa alta, che allude simultaneamente alla cultura mafiosa (basata sulla propria umiliazione rimossa e proiettata negli altri, cioè sulla cultura della sopraffazione sistematica), e alla nuova cultura di cui Padre Puglisi voleva invece farsi portatore, basata sulla vera dignità e sul coraggio, coraggio che lo faceva camminare - lui sì - a testa alta per le vie di Brancaccio, senza timore di nessuno.

Provò quindi a spezzare quella tremenda catena, quella nemesi che lega a vita gli umiliati, gli offesi, coloro che hanno una bassa autostima: se si viene maltrattati, si avrà un giorno un bisogno profondo di maltrattare gli altri, di rifarsi con crudeltà. Una verità questa, come sappiamo, ben documentata da infinite ricerche sociologiche e psicoanalitiche: la violenza nasce da un profondo bisogno di rifarsi, di far provare agli altri quello che abbiamo noi stessi provato, di sbarazzarsi di una dolorosa umiliazione che ancora proviamo, anche se inconsciamente, e convincerci che sono gli altri che la provano, mentre noi abbiamo un forte bisogno di essere considerati uomini "d’onore" e di camminare "a testa alta" per del vie del quartiere.

Ecco dunque chi era Padre Pino Puglisi: un uomo diverso, lontano da quella cultura e veramente libero. E la mafia capì presto che questo "uomo minuto, esile, allegro, dall’apparenza ingannevolmente fragile" stava riuscendo a portarle via i figli, le sottraeva i giovani. Con una amara ironia, Padre Puglisi fu accusato di "traviare" i ragazzi di Brancaccio, di distoglierli dalla "retta via", quella decisa per loro dalla mafia. Li allontanava dal controllo mafioso e rendeva meno naturale per loro fare la solita vita perché aveva mostrato ed insegnato che era possibile un’esistenza diversa. I giovani non avevano più bisogno di sopraffare gli altri, mostravano una certa resistenza quando i mafiosi chiedevano loro di compiere qualche pestaggio, di raccogliere il pizzo, oppure magari di incendiare un negozio. La loro cultura, la loro sensibilità erano cambiate, erano naturalmente meno motivati a umiliare gli altri, dato che loro stessi non erano più stati umiliati. Il pericolo era troppo grande, questo uomo con il suo coraggio ed i suoi valori stava minando nelle fondamenta il potere mafioso del quartiere, ed allora non rimase altra soluzione che la sua eliminazione. Sappiamo che la mafia non uccide mai se non è veramente costretta, e in questo caso il barbaro assassinio di Padre Pino Puglisi fu considerato inevitabile. Era la prima volta che la mafia uccideva un sacerdote. Lo aspettarono sotto casa in quattro la sera del suo cinquantaseiesimo compleanno, il 15 settembre 1993, ed uno solo gli sparò alla nuca. Prima di ucciderlo lo chiamarono "Padre", e, come per mancanza di coraggio, dissero "questa è una rapina". Lui capì subito, guardò calmo i suoi assassini e pronunciò soltanto tre parole: "Me lo aspettavo". Da tempo infatti riceveva lettere anonime di minaccia esplicita e non ne aveva mai fatto parola con nessuno, continuando per la sua strada.

Ce lo immaginiamo mentre sorrideva, con uno sguardo ancor più sognante e felice mentre guardava l’orizzonte, soddisfatto di se stesso. Si rendeva ben conto che il progetto che si era proposto di portare avanti nella sua vita terrena non poteva essergli riuscito meglio. Pino Puglisi, tanto, non aveva alcuna paura di morire, la posta in gioco per lui era ben altra.

*** A testa alta. Don Giuseppe Puglisi: storia di un eroe solitario, di Bianca Stancanelli, Torino: Einaudi, 2003, pp. 157, € 12,50

[Marzio Dazzi, Via delle Rimembranze 15, 43100 Parma, tel. 0521-962405, E-Mail <marziodazzi@alice.it>]
[Paolo Migone, Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>]
 

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