PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"

 

2018:
 
Un caso di paralisi isterica alle gambe trattato con ipnosi
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Più volte mi sono proposto di mettere per iscritto un breve caso clinico di tanti anni fa, che mi è capitato di raccontare alcune volte durante dei seminari, e ora mi decido a farlo. Penso infatti che possa essere di un certo interesse, se non altro perché casi di questo genere oggi sono molto rari mentre una volta erano frequenti, quando ad esempio, più o meno un secolo fa, l'isteria era epidemica. Si tratta di un caso di paralisi isterica alle gambe che mi capitò di trattare in modo molto improvvisato con una forma di ipnosi, anzi, tramite suggestione in stato di veglia perché il paziente non entrò mai in una trance ma rimase sempre vigile. Uso qui il termine "isteria" per convenzione, ben sapendo che può voler dire molte cose (e addirittura, come è noto, è stato eliminato dalla nomenclatura psichiatrica ufficiale col DSM-III del 1980; rimando a Migone, 1983). Qui mi riferisco semplicemente a una paralisi funzionale agli arti inferiori, in altre parole le gambe erano paralizzate e anche insensibili agli stimoli, senza però una causa organica (ad esempio senza la rottura del midollo spinale), quindi sine materia, come si suol dire, cioè senza una causa medica ma con una causa cosiddetta "psicologica". Fu Freud che, alla fine dell'Ottocento, trattava molti casi di questo tipo, allora estremamente comuni, e aveva coniato il termine "conversione somatica" poiché aveva ipotizzato che un conflitto psichico inconscio potesse convertirsi nel corpo, cioè in un sintomo somatico, che anche simbolicamente a volte era collegato al conflitto rimosso, come se il corpo in un certo qual modo "parlasse" tramite quel sintomo. Ma procediamo con ordine e vediamo il caso clinico, eventualmente inframmezzando il racconto con alcune riflessioni teoriche e anche con miei ricordi di quel periodo di tanti anni fa che mi viene voglia di raccontare.

Non ricordo esattamente che anno fosse, quasi sicuramente il 1980, quindi quasi quarant'anni fa. Allora lavoravo negli Stati Uniti, a New York, nel reparto di psichiatria di un grande ospedale pubblico, il Metropolitan Hospital, situato nell'Upper East Side di Manhattan (attorno alla 99a Strada, poco sopra al quartiere di Yorkville); questo ospedale serviva la popolazione di quello che veniva chiamato Spanish Harlem, o anche East Harlem, costituita prevalentemente da portoricani e anche da neri, confinando appunto con Harlem che iniziava poco più a nord, tradizionalmente attorno alle 125a Strada. In quel periodo ero in servizio in un reparto di Consultation-Liaison Psychiatry, che significa "psichiatria di consultazione", cioè il lavoro consisteva nel seguire i pazienti ricoverati non nell'ala dell'ospedale dove c'erano i nostri reparti di psichiatria (per i ricoveri acuti [in-patients], i pazienti ambulatoriali [out-patients e la walk-in clinic], tossicodipendenze, psichiatria infantile e dell'adolescenza etc.), ma nei vari raparti di medicina dell'ospedale generale (medicina interna, chirurgia, pediatria, e così via). Venivamo insomma chiamati dai medici dei vari reparti per fare dei consulti su pazienti che avevano problemi psicologici.

Quella volta la richiesta venne dal reparto di neurologia, e ricordo benissimo che arrivò un venerdì pomeriggio, mi sembra attorno alle 16. Il motivo per cui lo ricordo è perché ero stanchissimo e non vedevo l'ora di staccare e di andare a casa alla fine del turno di lavoro, che era alle 17, per rilassarmi durante il week-end. Ero reduce infatti da alcuni turni di guardia al pronto soccorso psichiatrico, che là erano particolarmente pesanti: la guardia andava dalle 9 del mattino alle 9 del giorno successivo, quindi 24 ore non-stop, e di notte non si dormiva mai dato che il nostro ospedale copriva quasi tutta Harlem e la parte nord di Manhattan. In sostanza, i pazienti arrivavano in continuazione, uno dietro l'altro, spesso portati dalla polizia e a volte legati perché erano in preda a forte agitazione e crisi pantoclastiche, e lo psichiatra di guardia doveva gestire tutto, certamente aiutato da infermieri e anche poliziotti, ma la responsabilità delle decisioni era sua. Si può facilmente immaginare poi la ressa nelle notti di venerdì e sabato, con tanti pazienti che venivano in stato psicotico e c'era bisogno di fare una rapida diagnosi differenziale tra psicosi, intossicazione da sostanze (allora ad esempio era molto diffuso il PCP, cioè la fenciclidina, che per fortuna non si diffuse molto in Europa), etc. Questa rapida diagnosi differenziale è il triage, un termine francese che indica "smistamento", originariamente utilizzato dai medici al fronte per distinguere rapidamente i soldati che dovevano essere curati da quelli che dovevano essere rimandati al fronte, oppure da quelli che avevano ferite fatali per cui non vi era neppure il tempo di curarli adeguatamente, e ora il termine triage viene utilizzato al Pronto Soccorso per smistare i pazienti e inviarli allo specialista opportuno. Certamente si imparava molto a fare questo lavoro (soprattutto negli ospedali pubblici cui afferiva ogni tipo di paziente, mentre negli ospedali privati il pronto soccorso era poco attivo per cui non vi erano molte occasioni di imparare), ma era estremamente faticoso, soprattutto perché alle 9 del mattino, senza recuperare il sonno, si doveva continuare con la nuova giornata di lavoro che finiva alle 17 (in Italia invece, dove vi sono garanzie sindacali, i medici di guardia dopo il turno vanno a riposare). Va detto anche che al primo anno della residency - come nel mio caso - le guardie notturne sono frequenti, anche una ogni 3-4 giorni, ma per fortuna diminuiscono negli anni successivi.

Mi sono un po' dilungato a parlare delle guardie perché avevo voglia di ricordare quel periodo, e anche per dare l'idea della mia stanchezza e della frustrazione che provai nel vedere la richiesta di consulto proprio al venerdì pomeriggio avanzato, quando già stavo pregustando il piacere di "fuggire" dall'ospedale e godermi il week-end (al sabato non si lavorava). Mi incamminai quindi di malumore verso il reparto di neurologia, un po' maledicendo la sfortuna e tremando all'idea di trovarmi di fronte un caso complicato che magari mi richiedeva di restare anche oltre l'orario di lavoro. Ancora non sapevo che mi sarei trovato di fronte a un quadro molto raro ed estremamente interessante, che pochi nella propria vita professionale possono dire di aver visto: un caso di paralisi isterica agli arti inferiori.

Racconto ora come andò il mio incontro col paziente e il trattamento che misi in atto. Quando entrai nel reparto di neurologia, andai dalla caposala che mi diede la cartella e mi guidò nella stanza del paziente. Era una stanza a quattro letti, ma gli altri pazienti erano fuori per cui lui era solo, ovviamente sdraiato sul suo letto. Dissi alla caposala che desideravo restare solo per un po' con lui per poter fare la visita, e che volevo che la porta fosse chiusa e che nessuno entrasse fino a quando lo dicevo io. Poi salutai il paziente sorridendogli gentilmente per metterlo a suo agio, e guardai la cartella. Subito lessi che si trattava di una paralisi alle gambe, apparentemente insorta dopo la caduta da una scala, e che il paziente era ricoverato da una settimana durante la quale erano stati fatti tutti gli esami possibili per indagare le cause di questa paralisi ma non era stato riscontrato niente di patologico. In altre parole, il paziente era del tutto sano dal punto di vista medico. Aveva 18 anni, era portoricano, un bel ragazzo muscoloso e sorridente.

Fin qui i dati oggettivi del caso, i primi che appresi. Ora dico quello che subito pensai tra me e me, perché mi sembra importante dato che quello che poi decisi di fare dipese da quello che avevo pensato. Immediatamente pensai che era certamente un caso di paralisi isterica. Il motivo per cui arrivai a questa conclusione era molto semplice: innanzitutto era estremamente improbabile che i neurologi avessero chiamato uno psichiatra se la paralisi fosse dovuta a una causa organica e, conoscendo come lavoravano in quell'ospedale, era altrettanto improbabile che non avessero fatto accuratamente gli esami neurologici necessari che li avevano portati a concludere che era sano come un pesce. Ma ricordo che ebbi un altro pensiero, che aumentava la probabilità che la mia ipotesi diagnostica fosse corretta: il ragazzo era di origini portoricane. Sapevo infatti che l'isteria era praticamente scomparsa nel mondo occidentale, ma era rimasta nelle culture meno industrializzate, più ai margini dello sviluppo economico. Ad esempio in Italia, seppur rara, è più frequente nel sud che nel nord, e nel nord è più frequente nei paesi della montagna, relativamente isolati, che nelle città. Sarebbe lungo parlare qui delle ipotesi che sono state avanzate per spiegare come mai l'isteria si presenta in genere solo nelle zone rimaste un po' ai margini dello sviluppo economico (come se qualcosa nel cosiddetto "progresso" - anche culturale - avesse estirpato certe modalità "primitive" di espressione dei conflitti psicologici), fatto sta che la epidemiologia dell'isteria è caratterizzata da questo dato, e che oggi nei Paesi industrializzati al posto dell'isteria vediamo quadri meno eclatanti, più subdoli, con una limitata sintomatologia somatica, con depressioni caratterologiche e disturbi di personalità che emergono in primo piano. Inoltre l'isteria è tradizionalmente più diffusa nelle donne che negli uomini, e anche questa differenza è dovuta a fattori culturali; tanto si è scritto su questo, ad esempio è stata vista anche come un modo per esprimere la sofferenza delle donne costrette a una condizione di sudditanza rispetto all'uomo e di repressione anche sessuale, quasi come se l'isteria possa essere una forma di ribellione, o di grido di aiuto - alcuni hanno anche ipotizzato che le convulsioni e il classico "arco isterico" potrebbero essere forme mascherate dell'orgasmo che mai le donne potevano avere data la insensibilità degli uomini del tempo.

Fatto sta che, a torto o a ragione, mi convinsi della mia ipotesi e che dovevo tentare di aiutare questo ragazzo, e nel più breve tempo possibile dato che volevo andare a casa. Decisi allora di ipnotizzarlo, o meglio, come dicevo, di tentare un approccio suggestivo, perché volevo verificare l'ipotesi dell'isteria di conversione. Da notare che non avevo alcuna esperienza di ipnosi, non l'avevo mai praticata, conoscevo solo alcune informazioni che più o meno hanno tutti. A parte alcune letture, e anche un breve seminario di mezza giornata cui avevo assistito tempo prima, ero dotato solo del mio buon senso e di una cultura generale. Decisi di "buttarmi", e di provare.

Mi avvicinai al letto, mi sedetti accanto a lui, e incominciai a parlargli del suo problema, chiacchierando anche del più e del meno. Mi feci raccontare qualcosa di lui, della sua famiglia, dell'incidente che apparentemente aveva causato la paralisi e così via. Appresi subito due informazioni di estremo interesse per me le quali, sempre a mio parere, convalidavano ancor di più la mia ipotesi diagnostica di isteria di conversione. La prima era che questo ragazzo era un maratoneta, cioè aveva l'hobby della corsa e aveva fatto anche gare importanti, una anche recentemente, poco prima dell'incidente (così si spiegavano le gambe muscolose), e la seconda era che aveva un fratello paralitico, in carrozzella. Immagino che sia chiaro a tutti come mai ritenni molto interessanti queste due informazioni, ad ogni modo riporto quello che pensai allora.

Per quanto riguarda il fatto che il ragazzo era un maratoneta, proprio come avveniva nei classici casi di isteria dell'Ottocento spesso l'organo colpito dalla paralisi non è casuale, ma è collegato con una funzione importante svolta dal soggetto nella sua vita; si pensi alle ballerine che avevano la paralisi isterica alle gambe proprio nei minuti procedenti alla prima teatrale di un'opera per la quale si erano preparate da mesi, o si pensi al famoso direttore d'orchestra Bruno Walter (1940) che ebbe una paralisi isterica al braccio che lui usava per tenere la bacchetta quando dirigeva l'orchestra, e che fu curato da Freud con sole sei sedute, e così via.

Per quanto riguarda il fatto che avesse un fratello in carrozzella, feci subito l'ipotesi che potesse esservi una conflittualità inconscia riguardo all'essere il più fortunato (lui maratoneta, il fratello "paralizzato alle gambe" in carrozzella), ad esempio poteva aver provato sensi di colpa (si pensi al noto quadro della "colpa del sopravvissuto" [survivor guilt], originariamente studiata nei sopravvissuti dai campi di concentramento e poi estesa a varie altre situazioni cliniche come quella dei fratelli più fortunati, etc.; rimando, tra i vari riferimenti, agli studi del San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss e Sampson, vedi ad esempio Migone, 1993, 2010 pp. 227-228). Mi colpiva che ora era lui, non il fratello (anzi, oltre al fratello, o come il fratello) a dover andare in carrozzella, e che proprio le sue gambe belle e muscolose, che tanto aveva esercitato, erano ora colpite da paralisi. Pensai insomma a tutta una serie di ipotesi (identificazione col fratello, cui lui voleva bene, etc.) senza però approfondirle molto, perché mi bastava, anche per la mancanza di tempo, che fosse maggiormente suffragata l'ipotesi di una conflittualità inconscia che avesse potuto essere responsabile del sintomo.

Mentre il ragazzo mi dava queste informazioni, io continuavo a parlargli con calma di varie cose, del più e del meno, cioè anche di cose che non avevano niente a che fare col suo problema. Ricordo che feci questo appositamente, per "distrarlo", per così dire, un po' seguendo la tecnica - ben nota agli ipnotisti, e più in generale agli ipnotisti neoericksoniani o "strategici" (per una critica alla terapia strategica, vedi Migone, 2011) - cosiddetta del Tenente Colombo, quel personaggio della nota serie televisiva che era abile a distrarre (o prendere per il naso, a volte sembrando anche poco intelligente) le persone che andava a trovare per interrogarle: nel bel mezzo di una interrogazione il Tenente Colombo cambiava discorso, diceva qualcosa di irrilevante, di sciocco, o di personale, ad esempio parlava di sua moglie che quella mattina lo aveva rimproverato per qualcosa e così via. L'interlocutore rimaneva spiazzato, non capiva, a volte si faceva l'idea che Colombo fosse un po' scemo, e sottilmente la conversazione cambiava di senso, i due venivano quasi trascinati in un'altra dimensione, non chiara ("liminale", potremmo dire) e un po' surreale, in cui tutto poteva accadere (in un certo senso, l'interlocutore era "ipnotizzato", sempre più sotto il potere dell'altro). E poteva succedere che anche l'interlocutore si lasciasse un po' andare, o che dicesse cose personali e di secondaria importanza, e che in una di queste cose di minore importanza si tradisse, dicendo qualcosa che altrimenti non avrebbe detto. E' noto infatti che "il diavolo si nasconde nei dettagli" (The devil is in the detail), cioè è dalle cose meno importanti che si capiscono quelle più importanti, proverbio questo che era alla base del metodo di un altro noto detective, Sherlock Holmes, quando ad esempio cercava di scoprire l'autore di un delitto, e che sta anche alla base della psicoanalisi (Ginzburg, 1980, 1986 pp. 97-98; Shepherd, 1985; Swales, 2002, p. 113 della I parte): Freud ne era ben consapevole, e ne aveva parlato anche a proposito dell'arte, ad esempio per scoprire se un dipinto è autentico non si deve guardare alla figura principale, come il volto ritratto, perché lì certamente il falsario presta la massima cura, ma nei particolari, ad esempio nel ricamo di un piccolo drappeggio all'angolo del quadro, dove è meno preciso nella imitazione e si tradisce. Nella psicoanalisi è la stessa cosa, ad esempio nelle associazioni libere è parlando delle cose meno importanti che a volte si arriva a quelle importanti che si voleva tenere sotto controllo, anche inconsapevolmente (cfr. Migone, 2008, p. 27).

Continuavo quindi a parlare con quel ragazzo con calma e di varie cose, quasi come per incantarlo. Ricordo ad esempio che feci allusioni alle infermiere, e gli dissi che alcune erano carine. Vidi che lui sorrise, per cui gli aveva fatto piacere questa mia complicità. Parlammo anche della sua paralisi alle gambe, e volli anche sincerarmi che proprio non le muoveva: gli chiesi di alzarne una, e lui non riuscì, e ovviamente non poteva scendere dal letto altrimenti cadeva a terra. Volli controllare anche se vi era la anestesia completa, come è tipico in questi casi, per cui gli diedi forti pizzicotti in varie parti delle gambe, e lui rimase indifferente. Per essere più sicuro, presi un ago e lo punsi in vari punti, in un modo che per chiunque sarebbe stato molto doloroso. Anche qui lui rimase indifferente. Provai anche a vedere dove arrivava l'assenza di percezione degli stimoli, e arrivai a pungerlo sempre più in alto, fino circa all'altezza dell'inguine, in cui lui cominciava sentire e gridò forte dal dolore. Constatai quindi che aveva quella che è ben nota come anestesia "a guanto", in cui la insensibilità (o analgesia) non segue le normali vie neurofisiologiche ma la rappresentazione mentale dell'arto. Ad esempio nella paralisi isterica della mano la analgesia segue perfettamente la circonferenza del polso, cioè cessa dove finirebbe un guanto immaginario, segno questo inequivocabile, quindi patognomonico, che si tratta di isteria e non di paralisi dovuta a cause neurologiche perché avrebbe confini del tutto diversi (esistono anche le anestesie "a stivale", "a calza" etc., a seconda di quale organo viene colpito). Mentre facevo queste operazioni, continuavo a parlare con lui, dicendogli che certamente aveva una vera e propria malattia, grave e ben conosciuta dalla medicina. Cercavo cioè di dare importanza al suo sintomo perché la psicodinamica di questi casi ci insegna che un paziente mostra questa malattia per motivi importanti che vanno rispettati, mai sottovalutati o definiti in modo svalutante "isterici". E' ovvio che a questo punto la diagnosi di paralisi isterica era certa.

Dopo un po', quando lentamente mi sentii pronto, decisi di entrare nel vivo del trattamento che mi ero proposto di fare. Gli dissi che mi avevano chiamato in quanto io, che venivo dall'Europa (lui già se ne era accorto dal mio accento), ero un esperto nel trattamento di queste gravi malattie, che ne avevo curate tante, e che ero sempre riuscito a guarire i miei pazienti. Ero noto per questo. Dissi questo con la massima serietà e sicurezza, e lui quindi non doveva preoccuparsi, perché da lì a una ventina di minuti avrebbe camminato senza problemi (in effetti il trattamento durerà solo una ventina di minuti). Lui rimase sorpreso, mi guardò e fece un grande sorriso. Mi disse: "Davvero?". E io risposti: "Certo, te lo assicuro, non devi preoccuparti, di casi come il tuo ne ho guariti parecchi". A proposito, mi ero dimenticato di dire che avevo notato un'altra cosa che deponeva sempre in favore dell'ipotesi dell'isteria: il ragazzo mi era sembrato un po' ingenuo, una personalità semplice, era anche giovane, e avevo pensato che questa sua tipologia di personalità era proprio quella che costituisce l'humus in cui si radica l'isteria. Non avevo notato però la classica "bella indifferenza" (belle indifférence) delle isteriche di cui avevano parlato Charcot e altri autori francesi, e cioè una indifferenza emotiva di fronte ai sintomi somatici più eclatanti, una sorta di dissociazione psichica, perché lui era molto dispiaciuto dal fatto che non poteva camminare e voleva guarire al più presto.

Andai alla finestra e abbassai leggermente le tapparelle, per dare un po' di penombra alla stanza affinché lui potesse rilassarsi meglio e non si distraesse, poi tornai da lui e continuai a parlare di varie cose. Nello stesso tempo cominciai a toccargli  in vari punti le gambe (che prima avevo scoperto, togliendo il lenzuolo), quasi a massaggiarlo, dicendogli che questo faceva parte del trattamento. Lo palpavo qua e là, a volte accarezzandolo, a volte massaggiandolo e per sentire la consistenza dei muscoli e vedere se si muovevano, in un modo che poteva sembrare anche sensuale, e sempre continuando a parlare per distrarlo, usando lo stesso tono di voce. Volevo quasi coinvolgerlo in una sorta di movimento o di danza con me: il parlare e il toccare erano due cose che andavano in parallelo, due canali di comunicazione, uno verbale e l'altro non verbale, con cui lo coinvolgevo. Ricordo benissimo le cose che gli dissi, e che per me erano importanti. Feci un miscuglio di interventi ipnotici e psicoanalitici, cioè interpretativi, ma in modo suggestivo perché non ero affatto sicuro di quello che dicevo, a me interessava soprattutto suggestionarlo, convincerlo di certe cose allo scopo di farlo camminare. Gli dissi che io, che ero un grande esperto di paralisi alle gambe, avevo capito molto bene come mai si era paralizzato. Il motivo era che lui aveva un fratello poliomielitico con le gambe paralizzate, e che si sentiva molto in colpa nei confronti del fratello. Questa colpa era forte, lo aveva perseguitato tutta la vita perché lui al fratello voleva molto bene, e sapeva quanto il fratello lo invidiava per vederlo non solo così sano, ma anche atletico e bravo nella corsa. Questo costituiva un suo grosso dolore, un conflitto interiore difficile da sopportare che si era acuito ancor di più nei giorni precedetti all'incidente perché lui era sempre più bravo nella corsa, e temeva che questo avrebbe fatto soffrire ancor di più il fratello che lo invidiava. Questo conflitto era anche peggiorato perché aveva vinto quella corsa proprio poco prima dell'incidente. Non solo, ma gli dissi che lui era molto contento di essere sano, e che si considerava fortunato, ma in colpa per questo suo desiderio di essere sempre più bravo nello sport della corsa. Gli spiegai anche che questo era normale, e che era comprensibile quello che provava e che non doveva sentirsi in colpa perché comunque voleva molto bene al fratello. Cercai insomma di rassicurarlo. Gli dissi infine che quando era caduto dalla scala in realtà non si era fatto niente, ma era rimasto paralizzato perché pensava che così nella fantasia poteva diventare come il fratello, andare in carrozzella come lui e togliersi tutto il senso di colpa che provava perché sarebbe diventato come lui. Il suo insomma era un gesto d'amore per il fratello, e che questo era un gesto molto bello, comprensibile, anzi encomiabile. Forse però poteva guarire da questa malattia grazie a me che lo curavo, poteva tollerare il senso di colpa, inoltre il fratello aveva bisogno che lui stesse bene magari anche per aiutarlo. E così via. Insomma, avevo cercato di offrirgli una interpretazione complessiva, e anche molto suggestiva, "ermeneutica", per dare una spiegazione convincente della sua malattia e nel contempo dando dignità al suo disturbo, e per motivarlo ora ad abbandonare il sintomo avendolo capito.

Durante questo dialogo continuavo a mantenere il tono di voce costante, ipnotico, quasi per farlo dormire, per così dire. A un certo punto, quando mi sembrava di aver detto tutto quello che potevo dire, decisi di passare all'azione, cioè di verificare in che misura lui era diventato dipendente dalle mie parole. Mi venne in mente di tentare un intervento manipolatorio, ingannevole, per vedere se ci cascava: mentre lo massaggiavo alle gambe, gli dissi che ormai, grazie al trattamento che gli avevo fatto, lui era capace di fare tutto quello che gli dicevo io, per cui era praticamente guarito e non doveva preoccuparsi più. Per dimostraglielo, gli dissi che io volevo fortemente che lui non muovesse le gambe, cioè gli ordinai di non muoverle perché non aveva forza. Lo sfidai quindi a muoverle, e vedendo che non ci riusciva gli dissi: "Vedi, ti ho detto di non muovere le gambe e infatti tu non le muovi". Insistetti: "Non mi credi? Allora prova a muoverle se ci riesci. Vedrai che non ci riesci, perché io ti ho ordinato di non muoverle". Ripetei questa operazione alcune volte, e lui si convinse ancora di più che avevo ragione, cioè che faceva quello che volevo io. Questa paradossale "prescrizione del sintomo" è un intervento molto noto nell'ambito della terapia strategica ed ericksoniana, e ha diversi significati e implicazioni a seconda di come viene fatto, in che contesto etc. Può essere anche pericoloso perché un paziente sofisticato può accorgersi di essere manipolato, ma può funzionare con pazienti un po' ingenui come immaginavo fosse questo ragazzo, che infatti non disse niente mentre gli dicevo queste cose, non si accorse che gli dicevo una cosa assurda a livello logico.

Rassicuratomi che il paziente mi seguiva, continuai, sempre improvvisando momento per momento. Mentre gli massaggiavo una gamba azzardai a dirgli: "Adesso ti dirò di muovere questa gamba, ma solo per un attimo, poi di nuovo dovrai non muoverla più. Sei pronto? Prova!". Questo mio intervento fu del tutto inefficace, ma io feci finta di niente e dissi "Bravo, hai fatto bene adesso a non muoverla, non era il momento, lo farai dopo", e continuai a massaggiarlo (in pratica, stavo "cavalcando" il sintomo). Provai a massaggiargli i piedi, e arrivai alle dita dei piedi, gliele presi con la mia mano, avvolgendole, muovendole avanti e indietro, come se fosse lui a muoverle ma in realtà ero io che gli muovevo le dita. Continuai a fare così per un po', dicendogli: "Vedi che adesso muovi un po' le dita dei piedi? Vanno avanti e indietro, si muovono bene, bravo". Lui stava sempre zitto, come incantato, e ascoltava quello che dicevo. Dopo un po' decisi di tornare all'attacco e di tentare ancora di ordinargli di muoversi, e precisamente di muovere le dita di un piede che stavo avvolgendo con le mie dita. Gli dissi, naturalmente con la massima sicurezza, e nascondendo del tutto la insicurezza che in realtà provavo, che adesso doveva muovere le dita del piede che stavo toccando, e precisamente gli dissi di piegarle, mentre io continuavo a tenerle strette tra le mie dita.

Ebbene, quello che accadde mi fece sobbalzare, quasi mi spaventai perché sapevo bene che stavo azzardando, e proprio non me lo aspettavo: sentivi un lieve fremito nelle sue dita del piede, cioè si era mosso autonomamente, anche se in modo quasi impercettibile, dopo una settimana di paralisi completa. Immediatamente capii che lo avevo in pugno, che era in mio potere. Cercai di rimanere calmo e di vivere quel suo movimento come molto normale, come qualcosa che mi aspettavo che facesse avendoglielo chiesto. Gli dissi che era stato bravo, ma senza troppa enfasi. Poi abbandonai quel piede e cominciai a fare la stessa cosa con l'altro. Di lì a pochi minuti ero riuscito a fargli muovere bene le dita di entrambi i piedi, con movimenti ampi in cui alzava le piegava le dita. Gli dissi anche che poteva muovere le dita senza che io glielo chiedessi, e lui lo fece, le mosse un po', prima quelli di un piede, poi quelli dell'altro, poi assieme, etc., contento di questa sua nuova abilità.

Poi passai a chiedergli di alzare lievemente un ginocchio, e lo fece. Poi di spostare una gamba di lato, e ancora riuscii. Insomma, ora si muoveva abbastanza bene. Però rimaneva coricato, non aveva ancora provato a camminare, e io ero ben consapevole che camminare era tutt'altra cosa perché aveva un significato simbolico preciso. Un conto è muovere un po' le dita dei piedi o alzare un po' una gamba stando a letto, una cosa totalmente diversa invece è scendere dal letto e camminare. Un isterico può benissimo muoversi su un letto e mostrare di avere forza nelle gambe, pur tuttavia non camminare se è questa la cosa che a livello inconscio non può fare. Io ero consapevole di questo, per cui riflettevo tra me e me su come a questo punto potevo procedere, perché ancora non potevo assolutamente cantare vittoria.

Non sapendo cos'altro fare, mi venne l'idea un po' buffa di fare come Gesù Cristo con Lazzaro, cioè mi distanziai un po' dal letto e con voce imperiosa, ben diversa dalla voce suffusa che fino ad allora avevo avuto con lui, alzai la mano e col dito puntato gridai: "Adesso te lo ordino: alzati e cammina!". La cosa incredibile fu che il paziente si mise a sedere, mise giù le gambe dal letto e si accinse a camminare.

Qui però venne il bello, perché io avevo fatto tutto questo rituale di trattamento credendoci a metà, un po' per azzardo, come avevo detto, e mentre mi accorgevo che invece ero riuscito a fare camminare il paziente ricordo benissimo che provai la buffa sensazione che, da quella posizione imperiosa in cui mi trovavo, in piedi e col dito puntato, mi mancassero le gambe, cioè che potevo io cadere a terra dall'emozione proprio mentre il paziente invece cominciava a camminare. La cosa divertente che pensai, in altre parole, era che mentre lui guariva potevo io cadere vittima di una paralisi isterica alle gambe... Naturalmente fu una sensazione fuggevole, dovuta alla mia forte emozione di sorpresa, perché non credevo ai miei occhi di essere stato così bravo, io giovane psichiatra alle prime armi, a risolvere questo caso di paralisi isterica.

Le cose comunque non erano finite lì, e iniziavano altri problemi. Infatti il paziente, una volta messi i piedi per terra, non riusciva a stare in piedi, non aveva la forza, prima barcollò poi cadde a terra (ovviamente senza farsi male, come è tipico degli isterici). Io, che ero dall'altra parte del letto, corsi subito accanto a lui per osservarlo meglio. Lui, non riuscendo a camminare, subito cercò di afferrare le stampelle per poter almeno camminare con quelle; infatti le infermiere nei giorni precedenti gli avevano procurato delle stampelle che avevano messo accanto al comodino. Per fortuna, proprio nell'attimo in cui mi accorsi che lui stava per afferrare le stampelle, mi venne in mente che vi sono degli isterici che usano le stampelle per tutta la vita pur essendo perfettamente sani, e che alcuni anche vanno sempre in carrozzella (questi sono quei casi di "paralitici" che guariscono a Lourdes, alzandosi in modo teatrale dalla carrozzella oppure gettando via le stampelle e gridando al miracolo). Io insomma ero ben consapevole dell'enorme pericolo che stavo facendo correre a quel mio paziente, quello di renderlo semiparalitico a vita, pur essendo sano. Allora io, rapidamente, d'istinto, con lo stesso tono imperioso con cui gli avevo ordinato di alzarsi e camminare gli gridai: "No, assolutamente, ti vieto di toccare quelle stampelle, tu quelle stampelle non le dovrai mai usare! Se tu non sei capace di camminare da solo, io ti ordino di tornare subito a letto e rimanere paralizzato come prima. O cammini senza stampelle o torni a letto, paralizzato per tutta la vita!". E presi in modo risoluto le stampelle e le misi ben lontane dal letto, di modo che se lui voleva prenderle doveva camminare. Il paziente allora un po' goffamente cercò di rialzarsi, aggrappandosi al letto, poi cercò di stare in piedi, vacillò, si appoggiò di nuovo al letto, poi barcollò, e mise la mano sul comodino. Io dissi: "Dai, forza, cammina, sei guarito!". Lui allora camminò sempre meglio, riuscì a uscire dalla stanza, camminò bene, e dopo pochi secondi si mise anche a correre nel corridoio, gridando: "Cammino! Io cammino!". Correva avanti e indietro come un matto, felice, mentre io stavo a guardarlo sbalordito. Gli infermieri, sentendo le sue grida, uscirono dalla guardiola, e vedendo la scena rimasero sbigottiti.

Il paziente camminava, era "guarito". Io con calma presi la cartella e scrissi il mio referto. Ricordo ancora bene cosa scrissi, poche parole: "Il paziente era affetto da paralisi isterica alle gambe. E' stata praticata l'ipnosi e ora cammina". Quando parlai con gli infermieri dissi che, se il medico di turno era d'accordo, il paziente poteva essere dimesso però a condizione che si impegnasse a tornare alle visite ambulatoriali, perché questi casi possono presentare recidive e in ogni caso occorreva che fosse seguito con una psicoterapia approfondita per stabilizzare il cambiamento. Il mio intervento era stato di tipo suggestivo, non curativo, e poteva aver risolto il disturbo solo temporaneamente (per questo prima ho scritto "guarito" tra virgolette). E suggerii di tenerlo almeno fino a lunedì per vedere come evolveva la situazione. Fatto questo, salutai il paziente e me ne andai a casa. Il tutto era durato meno di mezz'ora.

Il lunedì mattina tornai al reparto di neurologia per sapere di lui, e mi dissero che era appena stato dimesso. Le cose non erano andate veramente bene. Seppi che un infermiere lo aveva deriso per il fatto che aveva "finto" di essere paralizzato per una settimana, richiedendo inutilmente energie, lavoro ed esami strumentali. Lui aveva vissuto molto male queste critiche, che lo avevano colpevolizzato. Questo è stato un errore molto grosso da parte di quell'infermiere, che aveva rivelato una estrema ignoranza (probabilmente un errore così grossolano non sarebbe successo in un reperto di psichiatria, dove gli infermieri hanno un'altra formazione). Io infatti ero riuscito ad aiutarlo anche perché avevo dato importanza alla sua malattia, lo avevo "legittimato", infatti sappiamo che l'isteria è prima di tutto un modo per richiamare l'attenzione, per chiedere aiuto, e se noi svalutiamo la malattia il paziente può aumentare il sintomo, ovviamente sempre in modo del tutto inconscio. Infatti mi dissero che durante il week-end il paziente, pur continuando a camminare, aveva lamentato forti dolori alla schiena, di probabile natura isterica anche se a partenza dal dolore dovuto alle punture lombari che gli avevano fatto quando cercavano di diagnosticargli la paralisi.

Non seppi se venne alle visite ambulatoriali, io allora non avevo contatti col reparto di out-patients, cioè ambulatoriale. Purtroppo non seppi mai cosa accadde a questo paziente negli anni successivi.

Nei mesi seguenti mi capitò di praticare l'ipnosi anche altre volte. Ero diventato più sicuro di me nel tentare questo tipo di interventi suggestivi. Ricordo che una volta, quando ero di guardia al Pronto Soccorso, arrivò una donna, anche lei portoricana, con una paralisi alla mano che era rimasta contratta in una sorta di spasmo. Mi divertii a farglielo passare, anche qui prendendogliela tra le mie mani e sussurrandole alcune parole. Ma erano davvero "alcune parole", perché lei parlava solo spagnolo e io non conoscevo lo spagnolo se non quelle poche parole che riuscii a dirle, e alla fine fui capace lo stesso di farle aprire la mano.

Alcuni colleghi mi dicevano che ero un bravo ipnotista, però a dire la verità questa pratica non mi ha mai interessato molto, la trovavo poco stimolante, troppo semplice nelle sue coordinate teoriche e non l'ho mai più praticata, preferendo occuparmi di altre cose.

 

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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43123 Parma, tel. 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

 

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