PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2011, 118: 53-62

Sull'appartenenza alle società psicoanalitiche
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Giorni fa ho ricevuto una e-mail da un collega che mi chiedeva informazioni sull'American Academy of Psychoanalysis, un'associazione psicoanalitica americana a cui appartenevo, perché era stato invitato a tenere una relazione a un convegno di questa associazione e in seguito gli avevano proposto di farne parte. Volentieri gli ho risposto raccontandogli quello che sapevo di questa associazione, e come spesso mi accade mi sono lasciato andare a parlare di varie altre cose, divagando su argomenti più o meno collegati alla questione delle associazioni psicoanalitiche. A un certo punto mi sono reso conto che la mia e-mail era diventata molto lunga, e dato anche che dovevo preparare la mia rubrica per il Ruolo Terapeutico mi è venuta l'idea di pubblicarla qui, perché forse può interessare anche altri. Quella che segue quindi è la e-mail che ho mandato a quel collega, con minime variazioni.

L'American Academy of Psychoanalysis è un'associazione di psicoanalisti che non fanno parte dell'American Psychoanalytic Association o di altre associazioni affiliate all'International Psychoanalytic Association (IPA) (in realtà vi sono casi di analisti con doppia membership, cioè affiliati all'IPA che hanno scelto di aderire anche all'Academy, e alcuni di essi sono stati presidenti dell'Academy, come Franz Alexander, Judd Marmor, ecc., ma in genere sono pochi casi; anche Emilio Servadio, che è stato uno dei maggiori rappresentanti della psicoanalisi italiana, era membro dell'Academy). Negli Stati Uniti mi sono diplomato in un Istituto psicoanalitico che aveva stretti rapporti con l'Academy, quindi dopo il diploma sono stato nominato Fellow dell'American Academy of Psychoanalysis. L'Academy è una grossa associazione, e come tutte le associazioni ha pregi e difetti, dato che è ovvio che non esistono al mondo associazioni psicoanalitiche perfette o "ideali" (mi viene in mente il titolo di un vecchio articolo di Anna Freud, "The ideal psychoanalytic institute: A utopia" [1966]). Sono stato Fellow dell'Academy per una quindicina d'anni, sono andato a vari congressi ecc., e una decina di anni fa ho deciso di dimettermi è perché in sostanza non mi serviva rimanere socio, l'iscrizione era abbastanza costosa (anche i membri stranieri pagavano quanto quelli americani, senza però avere i fringe benefits che loro avevano), e non sentivo in particolar modo il bisogno di appartenenza a una associazione psicoanalitica. Avevo rapporti anche con altre associazioni pur non facendone parte, andavo ai loro congressi, leggevo riviste diverse (di altre associazioni o indipendenti), ecc., mi piaceva insomma sentirmi libero, svincolato da ogni associazione psicoanalitica. Ho sempre avuto un po' l'idea che il forte bisogno di appartenenza a un'associazione psicoanalitica in alcuni casi possa anche indicare una insicurezza, una identità professionale non molto forte, come se si avesse bisogno di essere legittimati. Ho sentito questa esigenza di non appartenere ad alcuna associazione psicoanalitica ancor di più dopo che sono diventato condirettore di Psicoterapia e Scienze Umane, che è una rivista indipendente, non legata ad alcuna scuola o istituzione, e ritengo che sia importante che il direttore responsabile di una rivista si mantenga equidistante da tutte le associazioni professionali, anche per non subire condizionamenti di alcun tipo. Inoltre andavo sempre meno ai congressi annuali dell'Academy, perché mi capitava, come mi capita spesso in molti congressi (non solo quelli dell'Academy), di annoiarmi un po', e preferivo convegni più specialistici, ristretti o su certi temi. Ad esempio da più di vent'anni vado regolarmente agli incontri annuali del Rapaport-Klein Study Group all'Austen Riggs Center di Stockbridge, nel Massachusetts, che trovo sempre stimolanti; mi piacevano abbastanza anche i convegni di associazioni trasversali ai vari indirizzi o non organizzati da associazioni di categoria, come quelli sulla ricerca in psicoterapia (cioè della Society for Psychotherapy Research [SPR], di cui peraltro ho fondato la sezione italiana), oppure sulla integrazione in psicoterapia (cioè della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration [SEPI]), tutte organizzazioni che non hanno interessi legati a una particolari categoria professionale, ma solo il piacere di confrontarsi su certi problemi.

Quindi era da un po' di tempo che meditavo di dimettermi, e la spinta decisiva mi venne quando negli anni 1990 fu fatto un referendum tra i membri dell'Academy riguardo alla accettazione o meno degli psicologi, e la maggioranza decise che l'Academy doveva rimanere riservata ai medici. Pochi anni prima, nel 1989, si era conclusa la causa legale intentata dagli psicologi contro l'American Psychoanalytic Association, l'IPA e due istituti psicoanalitici di New York per ottenere l'accesso al training da parte degli psicologi. Questa causa legale era stata vinta dagli psicologi, che finalmente avevano ottenuto libertà di training al pari dei medici (ho raccontato in dettaglio questa causa legale nelle mie rubriche dei numeri 53 e 54 del 1990: vedi la pagina Internet www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt53-54.htm). La maggioranza dei membri dell'Academy decise quindi in controtendenza rispetto a quello che stava avvenendo nella comunità psicoanalitica in generale (in seguito l'Academy, per ribadire la sua identità medica, cambiò anche nome e divenne American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry, come pure cambiò il nome della rivista che divenne Journal of the American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry). La cosa curiosa è che l'Academy storicamente era considerata più progressista e a livello teorico più aperta dell'American Psychoanalytic Association, che invece era più tradizionalista: l'Academy fu fondata nel 1956 come uno degli effetti della importante scissione avvenuta negli anni 1940 quando Karen Horney e altri uscirono dall'American Psychoanalytic Association per divergenze teoriche (ad esempio davano molta importanza anche ai fattori culturali e non solo biologici nella formazione della personalità). E quando l'American Psychoanalytic Association si aprì agli psicologi (scelta peraltro fatta non spontaneamente ma costretta dall'accordo legale), paradossalmente l'Academy diventò quella più tradizionalista in quanto mantenne la scelta di non accettare gli psicologi.

Io ero contrario a questa decisione, ed ebbi la sensazione che era dettata da motivi non tanto "scientifici" ma corporativi o economici (ad esempio per motivi legati alle case assicuratrici, o per il bisogno di avere maggiore "rispettabilità" di fronte alla psichiatria - l'Academy ad esempio si è affiliata all'American Psychiatric Association, e i congressi annuali delle due associazioni vengono tenuti nelle stesse città, l'uno di sèguito all'altro). Non sto dicendo che la psicoanalisi non sia una scienza naturale o non sia radicata nella biologia, tutt'altro, ma come è noto Freud pur essendo medico era apertamente contrario alla limitazione della psicoanalisi ai medici, era in favore della "analisi laica", per cui questa scelta andava anche contro gli insegnamenti freudiani. Non sento insomma il bisogno di rimarcare questa identità medica o biologica della psicoanalisi, anzi, mi sembra quasi che possa addirittura essere un segno di debolezza, come se vi sia la paura che la psicoanalisi non abbia una sua identità e debba prenderla a prestito dalla medicina. Tra coloro che hanno dato importanti contributi alla psicoanalisi vi sono stati psicologi come Anna Freud, Melanie Klein, Eric Fromm, Bruno Bettelheim, Ernst Kris, David Rapaport, George Klein, Roy Schafer, Robert Holt, Morris Eagle, ecc., e l'esclusione di tanti psicologi dal training ha molto danneggiato lo sviluppo della psicoanalisi e il suo insegnamento (come emerge dagli atti processuali della causa legale a cui accennavo prima, le ragioni per cui gli psicoanalisti medici per tanti anni hanno escluso gli psicologi erano dovute, per loro stessa ammissione, al timore della competizione, cioè per tenere alte le tariffe, anche se questo comportava il fatto che in molte aree degli Stati Uniti lo sviluppo della psicoanalisi fosse stato letteralmente strozzato, con danno a molti potenziali pazienti). Ricordo che mi tornò in mente anche che Merton Gill, a cui ero stato tanto legato e che era deceduto pochi anni prima, una volta mi disse che aveva deciso di dimettersi da tutte le associazioni che non accettassero gli psicologi (Gill era uno dei pochi medici all'interno del gruppo di Rapaport)

Non me la sentii quindi di rimanere dentro all'Academy, e rassegnai le mie dimissioni, che furono accolte con dispiacere. Io conoscevo bene vari presidenti e officers dell'Academy perché alcuni erano  stati miei colleghi e amici a New York (molti provenivano proprio dal mio istituto psicoanalitico). Insistettero per tenermi, e per qualche anno continuarono a mandarmi la rivista, sperando che io tornassi sulle mie decisioni.

Non ritengo comunque che la mia non affiliation a una associazione psicoanalitica limiti molto la mia partecipazione alla comunità psicoanalitica (frequentazione a convegni, pubblicazione su riviste, ecc.). Sono stato invitato a convegni dell'Academy e immagino che, se volessi, potrei ancora presentare delle relazioni, così come si fa per qualunque congresso scientifico. Penso che se si hanno delle cose da dire e si vuole intervenire a convegni o pubblicare articoli, tutti possono farlo, sia in contesti collegati all'Academy, oppure all'IPA, o altrove. Io ad esempio, pur non appartenendo dell'IPA, ho pubblicato più volte sull'International Journal of Psychoanalysis (una volta anche con un target paper, cioè pubblicato come primo articolo del numero e sottoposto a dibattito internazionale), sono stato invitato a parlare a un congresso dell'IPA (quello a San Francisco del 1995), e così via. E' vero, essere soci di una associazione può comportare dei vantaggi in termini di pubblicazioni su certe riviste o di inviti a convegni, perché esistono sempre delle logiche di appartenenza che purtroppo frenano lo sviluppo di una disciplina in senso scientifico, inibendo una vera competizione e un confronto di idee. Però esistono anche delle riviste indipendenti che sono soggette a minori condizionamenti (una di queste è The Psychoanalytic Quarterly), e soprattutto dà maggiore soddisfazione pensare che se si hanno dei  riconoscimenti essi derivano dal proprio merito, non da criteri di appartenenza.

Mi vengono in mente, per la verità, degli episodi che fanno pensare che criteri non scientifici, almeno nella nostra disciplina, a volte hanno un certo peso. Ad esempio ho saputo che dopo che fui invitato a parlare al congresso dell'IPA di San Francisco del 1995 vi erano state lamentele da parte di alcuni membri della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), poiché quell'anno nessun italiano della SPI era stato invitato. Mi fu riferito che qualcuno pensò addirittura che io "dovevo per forza avere degli appoggi", quando invece io sapevo soltanto che ero stato invitato da un collega che aveva letto delle cose che avevo scritto. Anni dopo ricevetti un altro invito a un congresso dell'IPA (il Quarantatreesimo Congresso, del 2003) per intervenire a un simposio organizzato da un collega americano che io non conoscevo e che aveva letto dei miei lavori, ma alcune settimane dopo mi scrisse una lettera, scusandosi, e dicendo che doveva ritirare l'invito perché era stato posto il veto dal comitato organizzatore del congresso. Non mi fu detto il motivo, ma certamente mi tornarono in mente le lamentele che vi erano state l'altra volta, e non esclusi l'ipotesi che i criteri di appartenenza avessero prevalso, nel senso che forse vi era il timore di creare scontento presso i membri dell'IPA che si sentivano esclusi o meno preferiti.

Sono convinto che anche l'International Journal of Psychoanalysis senta l'influenza di logiche politiche, cioè che non sia totalmente libero. Deve infatti barcamenarsi in delicati equilibri tra associazioni e nazioni diverse, e il "peso" di un determinato articolo non è sempre quello scientifico (ammesso che vi sia un criterio chiaro per stabilirlo) ma quello determinato dalle forze che vi stanno dietro, da chi rappresenta, da quale paese o comunità psicoanalitica è espressione. Queste componenti dell'associazione potrebbero operare ritorsioni e danneggiare in qualche modo la rivista, soprattutto se si considera che l'International Journal, anche se tradizionalmente è considerato la voce dell'IPA, non è l'organo dell'IPA ma dell'Istituto di psicoanalisi di Londra, e per continuare a fungere de facto da rivista dell'IPA deve stare molto attento a rispettare certi equilibri. Ad esempio da vario tempo uno dei due editor è un nordamericano, appunto per garantire una maggiore rappresentatività internazionale. In teoria l'IPA infatti potrebbe fondare una propria rivista, e ciò significherebbe la fine per l'International Journal (o, chissà, forse la sua salvezza da un punto di vista di credibilità e rigore scientifico). Ritengo inoltre che gli articoli pubblicati sull'International Journal non siano sempre di buona qualità, appunto perché segue anche criteri di rappresentatività geografica e politica. Riceve poi un così altro numero di articoli, essendo la più nota e diffusa rivista psicoanalitica del mondo, per cui fa fatica ad esaminarli tutti attentamente. E' impossibile che gli editors vedano tutti gli articoli, per cui devono necessariamente basarsi su centinaia di referee, non tutti ovviamente all'altezza o esperti in determinati argomenti, per cui l'accettazione di un articolo è anche una questione di fortuna (mi viene in mente che recentemente ho inviato all'International Journal un articolo che avevo letto al Rapaport-Klein Study Group, dove era stato molto apprezzato, e i giudizi dei referee dell'International Journal sono stati estremamente imbarazzanti, almeno a mio modo di vedere: non avevano assolutamente capito quello che cercavo di dire, sembravano impermeabili a qualunque riflessione teorica o pensiero astratto, e insistevano a chiedere degli esempi clinici come se nel corso della loro formazione non fossero mai stati esposti al ragionamento teorico).

A proposito dell'International Journal sono testimone di un episodio curioso che vorrei raccontare. Quando alcuni anni fa con Vittorio Gallese e Morris Eagle scrivemmo un articolo sulle implicazioni dei neuroni specchio per la psicoanalisi, lo mandammo all'International Journal che lo respinse per motivi che a noi non risultarono chiarissimi (ci sembrava infatti un buon articolo, tanto è vero che poi lo mandammo al Journal of the American Psychoanalytic Assciation, una rivista a mio parere di livello qualitativo superiore, che subito lo accettò). Il tema dell'articolo era estremamente attuale e importante, e uno degli autori - Gallese - addirittura apparteneva al team che aveva fatto la scoperta dei neuroni specchio. Però nessuno di noi tre autori era membro del'IPA, e curiosamente un mese dopo nell'International Journal fu pubblicato un articolo di un membro dell'IPA sullo stesso argomento. Ovviamente è pura illazione dire che fu preferito quello perché l'autore era membro dell'IPA, però questo pensiero mi ha attraversato la mente, anche perché poco tempo dopo si è verificato un episodio curioso. Gallese fu invitato a tenere una relazione principale a un congresso nazionale della SPI, dove fu molto ben accolta, e nella prima diapositiva aveva mostrato l'articolo che avevamo pubblicato assieme nel n. 3/2006 di Psicoterapia e Scienze Umane, appunto sui neuroni specchio. Dopo fu avvicinato da un collega italiano, membro dell'editorial board europeo dell'International Journal, il quale gli chiese come mai aveva mandato l'articolo a Psicoterapia e Scienze Umane e non a una rivista di una società dell'IPA, cosa che secondo lui era preferibile. Gallese rispose che certamente avrebbe voluto pubblicarlo su una rivista dell’IPA, ad esempio sull'International Journal, e che infatti ci avevamo provato, ma l'articolo era stato rifiutato. Quel collega allora disse che avrebbe dovuto mandarlo a lui, non direttamente a Londra come avevamo fatto noi. Questo episodio è abbastanza sconcertante perché mostra che gli equilibri politici sono ben più importanti dei meriti scientifici, dato che in teoria un articolo dovrebbe essere valutato in doppio cieco da referee anonimi (altrimenti non si capisce cosa ci stiano a fare).

A questo proposito mi viene in mente un altro episodio che mi ha colpito, che riguarda la Rivista di Psicoanalisi, organo della SPI. Tempo fa un collega che conosco ha mandato un articolo alla Rivista di Psicoanalisi per una possibile pubblicazione. Questo mio collega è molto preparato, ha pubblicato su riviste importanti, per cui presumo che fosse un buon articolo. Ebbene, il suo articolo fu respinto, ma non perché valutato dai referee o giudicato un articolo non buono, anzi, non fu messa in dubbio la sua validità. Fu respinto perché lui non era un membro della SPI, e questo gli fu esplicitamente dichiarato, nero su bianco, in una email scritta dal direttore della rivista. Quando me lo disse io stentai a credere che fosse possibile una cosa del genere, e volli vedere quella email, che lui mi mostrò. E' fin troppo evidente che questa politica della SPI è autodistruttiva perché abbassa il livello qualitativo della sua rivista riducendola a un bollettino per i soci, molto meno interessante in quanto vengono esclusi articoli potenzialmente validi in favore di un criterio non scientifico ma meramente di appartenenza istituzionale (alcuni articoli di non soci SPI a volte vengono pubblicati, ma si tratta di autori di altri campi, ad esempio vi ha pubblicato Gallese che è un neurofisiologo, e la SPI gli assegnò anche il premio Musatti). Volli immediatamente scrivere una email al direttore della Rivista di Psicoanalisi, che conosco e stimo, per chiedergli spiegazioni su questa regola, e per vedere se era consapevole dei danni che può provocare alla sua rivista, e lo feci appunto nel suo interesse perché ovviamente le altre riviste (tra cui la mia, Psicoterapia e Scienze Umane) hanno tutto il vantaggio dato che hanno più facilità a guadagnare fette di mercato se si abbassa di qualità della Rivista di Psicoanalisi. Inoltre vi è un grosso rischio: se le banche dati internazionali che indicizzano la Rivista di Psicoanalisi vengono a conoscenza di una regola che vieta la pubblicazione ai non soci di una associazione (una regola cioè dettata non da motivi scientifici ma istituzionali), immediatamente cancellano la Rivista di Psicoanalisi, con un danno enorme, sia scientifico che di immagine. Lui, che aveva da poco assunto la direzione, mi rispose che questa regola c'era, però non era scritta, era una regola implicita, e che esisteva anche quando vi era il direttore precedente (non si capisce, tra l'altro, come mai c'è bisogno di nascondere questa regola, dato che c'è di fatto, come se vi sia la consapevolezza che va tenuta nascosta). Gli risposi subito mostrandogli la mia preoccupazione e spiegandogli i motivi per cui secondo me era una regola controproducente per la rivista stessa. Lui non rispose alla mia seconda email, suppongo perché non voleva esporsi troppo per motivi di opportunità politica. Scrissi allora al direttore precedente, un altro collega che conosco e stimo, il quale non mi rispose, e questo mi sorprese perché tra noi c'era sempre stato un buon rapporto. Non insistetti, perché pensai che evidentemente nelle società psicoanalitiche le pressioni dovute a logiche politico-istituzionali sono forti, e colleghi anche più seri (e a volte sensibili e impegnati culturalmente) possono soccombere. Inoltre pensai che, di fatto, vi sono anche potenti ragioni economiche che fanno soccombere la buona volontà di questi colleghi: la Rivista di Psicoanalisi (e in questo non è diversa dalla maggior parte delle riviste) non è una rivista indipendente, ma è l'organo di una associazione, la quale la finanzia. Senza questa associazione alle spalle farebbe fatica a reggere alla competizione del mercato dove quello che conta è la qualità, non l'appartenenza istituzionale (come sappiamo, quasi tutte riviste - tranne pochissime eccezioni, Psicoterapia e Scienze Umane è una di queste - sopravvivono non perché riescono a rimanere sul mercato, ma solo perché c'è una associazione o una scuola di psicoterapia che le finanzia e che le usa anche come strumento di visibilità, e se fossero indipendenti cesserebbero immediatamente le pubblicazioni). Se dunque una rivista esiste per fare gli interessi di una associazione, quali sono questi interessi? Verosimilmente sono gli interessi dei suoi membri. E cosa vogliono i suoi membri? Ad esempio possono, appunto, voler pubblicare soprattutto loro sulla rivista, mentre l'interesse che la propria rivista sia di buona qualità può essere un interesse secondario, di minore importanza. La direzione della rivista può non avere la forza di sostenere altri valori (ad esempio di tipo scientifico), e può colludere con questi interessi particulari dei soci della associazione da cui dipende, per cui di fatto la rivista diventa il bollettino di una associazione con, tendenzialmente, un progressivo degrado del livello culturale. Ho voluto accennare a questo episodio perché, in fondo, riguarda anch'esso il funzionamento delle associazioni psicoanalitiche.

Mi viene anche in mente che tempo fa mi giunse una e-mail in cui si diceva che era iniziata la ricerca di un nuovo editor per l'International Journal, e che chi era interessato poteva mandare la sua domanda col curriculum vitae a un comitato e così via; ebbene, venivano elencati i requisiti che doveva possedere il candidato editor, e tra questi vi era, con mia sorpresa, il fatto che fosse membro dell'IPA! Nessuno sembrava cogliere che questo requisito era del tutto contraddittorio per una rivista scientifica, perché metteva in primo piano non determinati meriti intrinseci ma la mera appartenenza, cioè criteri politici (che poi peraltro possono condizionare anche le scelte editoriali). Sembra quindi scontato che a certi livelli i criteri politici siano più importanti di quelli scientifici, al punto che nessuno se ne meraviglia, o manco se ne accorge.

Ma chiudo questa parentesi e torno alla questione dell'appartenenza alle associazioni professionali. Il motivo quindi per cui non faccio più parte dell'Academy è perché non sentivo la necessità di una membership, inoltre non condividevo la scelta di escludere gli psicologi, pur essendo amico e stimando molti dei colleghi e rappresentanti di quella associazione. Da un po' di anni l'Academy tiene in Italia dei Joint Meeting, cioè convegni congiunti, con l'OPIFER (la Organizzazione degli Psicoanalisti Italiani - Federazione e Registro), e non faccio parte neppure dell'OPIFER. Quando a metà degli anni 1990 Marco Bacciagaluppi ebbe l'idea di fondare l'OPIFER, mi telefonò per propormi di fondarla insieme, e io, pur stimando molto Bacciagaluppi, ebbi inizialmente una reazione di perplessità di fronte all'idea di selezionare gli "psicoanalisti italiani" e farne addirittura un "registro". Non mi era chiaro cioè quali potevano essere i criteri di inclusione e di esclusione, cioè non è facile capire chi è "psicoanalista" e chi non lo è, come si possa escludere determinati colleghi rispetto ad altri. In realtà l'idea di Bacciagaluppi era meritevole e aveva aspetti estremamente positivi: non solo poteva servire a dimostrare nei fatti che la "psicoanalisi" non è rappresentata unicamente dalla SPI o dalle associazioni affiliate all'IPA (molti hanno ancora questa idea ingenua, che tra l'altro rappresenta una illegalità, e inoltre equiparare la identità professionale a una membership incrina lo statuto scientifico di una disciplina); ma anche mirava a superare le divisioni e costituire una federazione dei vari gruppi italiani di psicoanalisti per coordinarli, ad esempio nel caso di iniziative comuni (per organizzare dei seminari di un relatore straniero in varie città e così via). Da notare che questa federazione voleva e vuole essere aperta a tutti i gruppi italiani, anche quelli affiliati all'IPA, come la SPI e l'AIPsi (l'AIPsi è la Associazione Italiana di Psicoanalisi, un secondo gruppo italiano affiliato all'IPA, sorto più di recente, nel 1992, a causa di una scissione avvenuta all'interno della SPI).

Anche riguardo all'OPIFER vi sono stati episodi molto interessanti in termini di psicologia sociale e di dinamiche di gruppo. Ricordo che una volta l'esponente di un piccola associazione psicoanalitica indipendente - non faccio il nome perché non ha alcuna importanza, quello a cui tengo è solo mettere in luce una dinamica che peraltro può essere diffusa in molti ambienti - mi disse che si guardava bene dall'entrare nell'OPIFER in quanto non voleva mescolarsi con le altre associazioni affiliate poiché riteneva che la sua associazione fosse in un qualche modo superiore o migliore delle altre, quindi, anche come immagine, voleva restarne fuori. Trovo questo modo di ragionare estremamente interessante perché rivela come questo collega, senza alcuna consapevolezza, imitasse pari pari quei comportamenti elitari e di esclusione, ad esempio della SPI, che in passato venivano tanto criticati proprio dalla sua stessa piccola associazione!

A proposito di questo episodio me ne viene in mente un altro, che riguarda però una diversa federazione di associazione psicoanalitiche, la International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS) che organizza periodicamente dei Forum internazionali di psicoanalisi, cioè dei congressi in vari paesi del mondo, e che ha anche una rivista, l'International Forum of Psychoanalysis (io non faccio parte neppure dell'IFPS, anche perché non accetta singoli membri ma solo associazioni). Si può dire che così come l'OPIFER sia una federazione che riunisce gruppi italiani che non fanno parte dell'IPA (attualmente sono una decina), la IFPS è una federazione che raccoglie società psicoanalitiche nel mondo che non fanno parte dell'IPA (attualmente sono una trentina distribuite in vari paesi del mondo). La IFPS nacque tanti anni fa, nel 1962, proprio con questo intento, per fornire un collegamento a quelle molte associazioni che non erano accolte dall'IPA, e una delle esigenze più sentite era quella di includere il gruppo tedesco che non era stato accettato dall'IPA a causa degli strascichi della guerra e dei sospetti di collusione col nazismo (si ricorderà che in Germania vi sono due gruppi, la "Società psicoanalitica tedesca" [Deutschen Psychoanalytischen Gesellschaft (DPG)] che è la più antica, accusata di essersi resa bene accetta al regime nazista e quindi non riconosciuta dall'IPA, e la "Associazione psicoanalitica tedesca" [Deutschen Psychoanalytischen Vereinigung (DPV)] fondata nel 1950 e affiliata all'IPA nel 1951). Ebbene, io vissi da vicino la nascita del IFPS in Italia, quando cioè i primi gruppi chiesero l'accreditamento all'IFPS (con apposite visite in situ) per poi partecipare ai congressi internazionali. Dato che conoscevo alcuni dei rappresentai internazionali della IFPS, potei assistere a dei momenti di incontro su questo tema (ricordo che inizialmente furono accettati nell'IFPS tre gruppi italiani). L'episodio che voglio raccontare, che mi colpì molto, è il seguente. A una cena l'esponente di un associazione psicoanalitica che era stata accettata nell'IFPS, quando si parlò del possibile ingresso di un altro gruppo italiano, disse che era contrario per le seguenti ragioni (le riassumo liberamente): "Meno siamo meglio è. E quel nuovo gruppo che vorrebbe entrare è fatto da gente brava, sono seri e preparati, per cui è meglio che restino fuori altrimenti noi perderemmo importanza. Non dimentichiamoci che dobbiamo proteggere l'interesse dei nostri allievi!". Anche questa affermazione, simile a quella che ho citato prima, per me è di straordinario interesse psicosociologico perché rivela, anche per la spudoratezza con cui era stata fatta in pubblico, la totale mancanza di consapevolezza che hanno certi colleghi nel ricadere pari pari nelle stesse dinamiche gruppali che in passato avevano violentemente criticato in altri gruppi più forti.

Ma non posso terminare senza raccontare un altro aneddoto di questo tipo, sempre riguardo ai gruppi italiani affiliati alla IFPS. Devo però prima fare una premessa. Negli ultimi anni sempre più gruppi indipendenti nel mondo hanno fatto domanda di affiliazione all'IPA, e alcuni sono stati accettati. Uno di questi è stato proprio il secondo gruppo tedesco, la DPG: ormai erano passati tanti anni dalla guerra, certi sentimenti legati ai lutti e alla tragicità di quegli eventi potevano essere superati, c'erano stati ricambi generazionali, ecc., per cui - come ben aveva previsto la IFPS - poteva essere accettato nella comunità psicoanalitica. Il merito di questo processo di inclusione va soprattutto a Kernberg, che quando era presidente dell'IPA fece il possibile, come è noto, per democratizzare la struttura dell'IPA, migliorare certi difetti del training, ecc. Ricordo che una volta mi chiese un incontro a New York per dirmi di spargere la voce in Italia, presso i gruppi psicoanalitici più qualificati, affinché facessero domanda di affiliazione all'IPA, perché se meritavano era giusto che non fossero esclusi. Questa operazione ovviamente aveva due facce: una era quella di una maggiore liberalizzazione dell'IPA, una minore chiusura, ecc; l'altra era quella di un tentativo di cooptazione di forze esterne nella misura in cui una loro eccessiva crescita (in termini di cultura, formazione, influenza culturale, pubblicazioni, ecc.) poteva indebolire l'IPA stessa che si era troppo irrigidita. Kernberg era anche contrario al fatto che in certe nazioni vi fossero poche società affiliate al'IPA, o addirittura una sola (come è stato per tanti anni in Italia, dove c'era solo la SPI), perché questo comporta un rischio di monopolio e la diminuzione di una sana competizione tra gruppi. Kernberg però mi chiese di non dire a nessuno che era lui a farmi questa richiesta, perché temeva che, se si fosse saputo che lui portava avanti in modo chiaro questa linea, ciò poteva danneggiare gli sforzi che lui allora stava facendo per fare entrare nell'IPA il secondo gruppo tedesco (la DPG). Avrei potuto dirlo solo dopo il 42° congresso dell'IPA di Nizza del 2001, quando terminava il suo mandato di presidente e veniva votata la accettazione del gruppo tedesco (ecco perché quindi ora posso dirlo, essendo passati dieci anni). Ebbene, l'aneddoto che volevo raccontare - un aneddoto questa volta che ha anche aspetti di comicità - è il seguente: quando si seppe che quel gruppo tedesco, che era nell'IFPS, era entrato nell'IPA, e che altri gruppi dell'IFPS stavano cercando di fare la stessa cosa, durante una cena all'esponente di un'associazione psicoanalitica italiana che faceva parte dell'IFPS scappò questa affermazione: "E no, non è giusto! Se uno dopo l'altro vari gruppi dell'IFPS entrano nell'IPA, noi allora cosa ci stiamo a fare?".

L'esclamazione di questo collega mi risultò veramente comica, pur essendo nel contempo triste perché rivelava in modo drammatico una importante dinamica di certe associazioni psicoanalitiche: non quella di favorire la diffusione della cultura psicoanalitica secondo i propositi sbandierati nei loro statuti, ma quella di sopravvivere come istituzione in quanto tale, secondo quindi la perversa logica della "istituzionalizzazione" che, come ben sappiamo, si infiltra in misura maggiore o minore in tutte le nostre istituzioni psicoterapeutiche. 

 

Riassunto. Vengono discusse varie dinamiche di gruppo e problematiche sociologiche della appartenenza alle associazioni psicoanalitiche e del loro funzionamento. In particolare si accenna alla American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry (AAPDP), per poi parlare, molto liberamente e raccontando alcuni aneddoti significativi, della Organizzazione degli Psicoanalisti Italiani - Federazione e Registro (OPIFER) e della International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS). Vengono anche discusse alcune dinamiche dovute ai condizionamenti che subiscono certe riviste psicoanalitiche (come ad esempio l'International Journal of Psychoanalysis) per il fatto che devono restare in equilibrio tra logiche politiche e di appartenenza, con un danno per la loro qualità scientifica. [Parole chiave: appartenenza, società psicoanalitiche, identità professionale, riviste di psicoanalisi, dinamiche di gruppo]

Abstract. On membership in psychoanalytic associations. Various group dynamics and socio-analytic issues related to membership in psychoanalytic organizations and their functioning are discussed. In particular, the American Academy of Psychoanalysis and Dynamic Psychiatry (AAPDP) is mentioned, and some reference is made to the Organizzazione degli Psicoanalisti Italiani - Federazione e Registro (OPIFER) ["Organization of Italian Psychoanalysts - Federation and Roster"] and to the International Federation of Psychoanalytic Societies (IFPS). The functioning of psychoanalytic journals is also discussed, especially regarding the delicate balance between scientific standards and political pressures coming from various needs and components of the associations. Political issues in different countries may negatively interfere with the quality of a journal, and it is argued that at times this may be the case for The International Journal of Psychoanalysis. Some relevant anecdotes are also described. [Key words: membership, psychoanalytic organizations, professional identity, psychoanalytic journals, group dynamics]

 

Paolo Migonee
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43123 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

 

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