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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Modelli e Tecniche in Psicoterapia


Premesse alla Giornate di Pontignano

di Isabella D'Amore

(per gentile concessione della Rivista Tecniche Conversazionali,
nel cui numero di Maggio 1999 l'articolo è stato pubblicato)

(si veda il Programma delle Giornate nell'Area Congressi di PM)


Uno dei principali problemi della comunicazione, soprattutto nel mondo della salute mentale, e in particolare in Italia, è che chi scrive tende a dare, nei propri lavori, particolare risalto più all'esperienza personale che agli standard di riferimento. Questo spiccato individualismo porta spesso ad avere un linguaggio esoterico che può tuttavia mascherare altro; se infatti è vero che non tutti i discorsi oscuri sono necessariamente vacui, è molto probabile che i discorsi vacui, desiderosi di farsi accettare per discorsi di valore, siano oscuri. A giustificazione di questo c'è, particolarmente in Italia, una certa base culturale; non a caso famosi psichiatri dell'altra generazione ritenevano che un'opera scientifica "dovesse essere sempre difficile, complessa, ardua ad ogni lettura perché solo coloro che sono in grado di superare tale prova sono degni di accedere al mondo della scienza". È evidente che oggi tale visione si è semplicemente rovesciata poiché non esiste contenuto scientifico che, se chiaro al comunicante, non possa essere trasmesso in modo facile e accessibile a qualsiasi lettore di medio grado. Probabilmente alla base di queste difficoltà vi è anche, nel nostro paese, una totale assenza di preparazione o addestramento specifico alla comunicazione scritta se pure, quasi a contraddire quanto detto, gli italiani sono scrittori prolifici anche se, ahimè, poco letti oltralpe. Vediamo a questo riguardo qualche dato italiano e non. Ogni giorno, compresi il sabato e la domenica, sono 120 i nuovi libri pubblicati in Italia, quindi un totale di 43.757 libri l'anno per un corrispettivo di 4,45 libri pro capite; di questi ben 1.804 hanno come argomento la salute, ed in particolare ben 200 appartengono al mondo della salute mentale. Per quanto riguarda riviste, newsletter e bollettini specializzati in aree psichiatriche, psicologiche e psicoterapeutiche essi sono ben 65 (secondo il censimento dell'Unione Stampa Periodica), ovviamente solo in Italia. Questa produzione è per lo più espressione del mondo universitario anche se non manca una buona rappresentanza delle numerose Scuole attive nel nostro paese. A livello internazionale il problema non muta: sulla stampa biomedica sono più di 2 milioni gli articoli pubblicati annualmente, pari a 6 mila articoli giornalieri.

È impossibile, di fronte a questi dati, non chiedersi il loro senso, il 'come mai' e il 'per chi' noi scriviamo così tanto. E ancora: abbiamo davvero qualcosa di nuovo da dire? e perché? e a chi lo stiamo dicendo? e dove finiscono i nostri scritti? e a chi appartengono i risultati e le idee che pubblichiamo? e come mai, ponendomi questi quesiti, non riesco a trovare una bibliografia specifica da consultare? possibile che scrivendo tanto ci si chieda così poco il perché lo facciamo?
Certamente una evidente motivazione è legata alle pressioni 'pubbliche'. Il numero dei lavori scientifici è infatti un elemento critico per una carriera accademica o anche per avere contributi finanziari; altro elemento è la gratificazione personale, non solo per i giovani ricercatori ma anche per i personaggi più illustri che spesso perpetuano la loro fama attraverso una continua promozione di se stessi. D'altra parte è certo che questo meccanismo è fonte di notevoli rischi: la frequente duplicazione e ridondanza delle pubblicazioni, con importanti disagi per i lettori che inevitabilmente si sperdono in selve bibliografiche per lo più inutili; l'impossibilità di potersi mantenere realmente aggiornati, se è vero, come afferma un'indagine americana, che un professionista non dedica alla lettura più di 3 ore settimanali; il difficile problema dell'attendibilità dei dati che, se non comprovata, li rende inutili. Risulta infatti, dall'analisi di un noto periodico (British Journal of Psychiatry) che, in dodici mesi, dei 168 articoli editi 139 riportavano dei dati numerici, di questi 63 (45%) contenevano errori statistici tali da condurre a deduzioni in realtà non suffragate dai dati, 47 (34%) contenevano errori gravi, cioè tali da invalidare le conclusioni. La proporzione degli errori rivelata sul British Medical Journal ha portato ad un identico risultato (il 53% degli articoli presentava errori statistici medio-gravi). Ed infine il non meno grave problema relativo alla fonte dei dati di cui usufruiamo; uno studio apparso su American Scientist ha rivelato che, da una ricerca condotta su 2.600 studiosi, risulta che l'8% dei docenti e un numero variabile tra il 19 e il 33% dei giovani ricercatori commette plagio rispetto ai colleghi, mentre il 6-8% dei professori e il 13-16% dei ricercatori falsificano o non citano i dati sperimentali non convenienti ai loro scopi.

Oltre a tutto questo le possibilità di scrittura e di diffusione sono moltissime; si va dal libro al trattato, dal manuale alla monografia, al saggio, fino ai tascabili più o meno di rapido utilizzo, poi abbiamo le riviste, l'articolo originale, le rassegne, gli editoriali, le consensus conference e le recensioni, per non parlare del variegato mondo congressuale, con i poster, le comunicazioni brevi, le presentazioni più lunghe ed i workshop e in tutto questo non posso non citare l'esistenza del mondo multimediale che pure, io credo, appartiene a un capitolo tutto a sé stante.
A questo punto credo che sia veramente importante parlare del nostro scrivere, comprendere come e perché noi scriviamo e questo anche in funzione dei nostri pazienti che non solo sono, o dovrebbero essere, i soggetti delle nostre opere ma soprattutto perché, alla fine, sono proprio loro i veri fruitori del nostro sapere. Scrivere quindi non per sete di affermazione o potere né per puro narcisismo - sebbene un poco non guasta come motivazione - ma soprattutto scrivere per descrivere e condividere ciò che ci pare di aver compreso o visto 'diverso' o 'cambiato'.

"Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo.. dato in blocco, senza un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita.. L'inizio è il momento del distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l'allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e rendere raccontabile la singola storia che ha deciso di raccontare..." (Calvino 1988, p. 39).

Credo si possa definire il processo terapeutico attraverso tre elementi: l'incontro, il racconto e il commiato. Vediamoli. L''incontro' è inteso come possibilità di accogliere ed elaborare le comunicazioni psichiche del paziente, quindi come capacità di fare spazio ai sentimenti del paziente; è importante che egli sappia che i suoi sentimenti, per lui non sostenibili, possono essere tollerati e trattati dal terapeuta. Il 'racconto' è la fase della conversazione condivisa, la costruzione comune di una doppia descrizione ri-narrante. Ciò avviene solo se si crea un'intensa relazione affettiva. Il racconto contiene la storia, le storie, la relazione, la differenza, ma non è, a sua volta, contenuto in ciascuno di questi elementi. Il cambiamento della storia - all'interno della relazione - non sarà mai violento e questo perché la storia narrata non deve subire lacerazioni ma accogliere le storie 'non narrabili' o 'non pensabili'. Accadrà così che muterà l'esperienza stessa del narratore; la storia ri-visitata prenderà le mosse da quella vecchia ma, nel contempo, saranno introdotte 'differenze' veicolate dal terapeuta. Si creerà così un'armonia di somiglianze e differenze, un necessario equilibrio creativo fra il vecchio e il nuovo, tra ripetizione e differenze, e la calibrazione di tutto questo passerà, come sempre, attraverso la relazione terapeutica. Infine il 'commiato', che seguirà naturale, e nondimeno doloroso, attraverso le nuove strutture di funzionamento mentale che aiuteranno a condividere la decisione della fine.

Nella stanza dell'analisi, dove tutto questo avviene, il linguaggio assume allora un'importanza fondamentale, nel senso più ampio, cioè sia come concatenazione dei significati - sia affettivi che logici - sia come rappresentazione del pensiero. L'ascoltare diventa una doppia attitudine verso il discorso, in senso formale, e verso la mappa dei sentimenti del paziente, quindi l'ascolto della sua particolare narrazione, del suo racconto. C'è poi il momento delle parole del terapeuta, il dialogo che 'ri-conosce' la narrazione e muove verso operazioni trasformative. Se il primo momento, per il terapeuta, è quello di 'ri-conoscere' quel racconto, seguono poi le sue traduzioni che inevitabilmente passano attraverso la ricerca di sé o della veridicità delle proprie conoscenze. Nascono così - in questo dialogo - 'nuove' parole o vocaboli che acquistano significato dal legame della relazione. Parole che sono ponti che collegano mondi diversi o vie sinaptiche mai battute. Saranno infatti queste - le parole della relazione - a scrivere la 'storia' rivisitata del paziente.

Scrivere e/o sviluppare questa 'nuova' storia significa, inevitabilmente, operare continue scelte tra storie diverse, fino a privilegiarne una a detrimento di altre; questa sarà il nuovo racconto che in qualche modo, attraverso le concatenazioni dei successivi elementi, sarà 'elevato' fino a raggiungere il vertice della sua propria narrazione, fino a diventare rappresentazione. Esiste un inscindibile rapporto tra rappresentazione e storia personale e, di conseguenza, tra rappresentazione e narrazione, anche se rimane aperta la questione "se la narrazione si caratterizzi come rappresentazione di una verità storica oppure prescinda da questa in quanto è un atto creativo dell'ermeneutica" (Genovese, 1991).
Possiamo così dire che viene naturale pensare, riferendosi alla terapia e al processo terapeutico, al modello narrativo: dal paziente con il suo testo, alla compatibilità del nuovo racconto, all'introduzione di nuovi elementi nella trama, fino alla 'trasformazione' emotiva dei personaggi che la compongono e alla metamorfosi della storia in un nuovo racconto che implica la ri-sistemazione dell'intero narrato, quindi un nuovo impianto epistemologico.

Il pensiero narrante non è solo di chi scrive ma anche di chi legge o ascolta. Ponendo nella memoria le vicende lette ed udite poi si ricorda, una volta, molte volte, e ogni volta il racconto è ri-narrato in modo diverso, con mille piccole deformazioni tanto che alla fine nasce un nuovo racconto. E siamo noi, terapeuti, ad offrire - attraverso l'esperienza della relazione terapeutica - questo nuovo testo, che se da un lato è la traduzione (l'interpretazione) del racconto del paziente, dall'altro nasce da noi stessi come nostra creazione. Possiamo così chiederci, forse banalmente: le ri-narrazioni cliniche esprimono il pensiero del paziente o, più probabilmente, la 'verità' del terapeuta? e come cambierebbe la narrazione del paziente con un altro terapeuta, o anche con lo stesso ma in tempi diversi?
Se, per esempio, andiamo a leggere le narrazioni dei pazienti sulla relazione terapeutica (vedi l'esperienza del libro Scrittori e psicoterapia) ci accorgiamo di quanto diverso è il loro racconto dal nostro e diventiamo più consapevoli che entrambi - paziente e terapeuta - trasformiamo in rappresentazione il nostro vissuto.
Possiamo così dire che non esiste una sola storia, esattamente come non esiste una sola rappresentazione di sé, ma un insieme di storie che racconta e si racconta.

Le narrazioni dei pazienti avvengono sempre in un contesto relazionale e si modificano progressivamente all'interno della cornice della relazione: ogni storia vuole un narratore ed un ascoltatore in un rapporto circolare tra testo e contesto. I racconti relativi al passato si riutilizzano nella storia attuale, vissuta con il terapeuta, che si va scrivendo durante il processo, promuovendo ritrascrizioni di categorie affettive in una progressiva integrazione che pone le basi per una rinarrazione trasformativa. In questo processo non vi è il tentativo di cambiare gli elementi del passato o l'attuale mondo, ma di avere un nuovo modo di sentire le vecchie cose tale da renderle comprensibili ed elaborabili in modo da aprirsi a livelli di lettura diversi e nuovi.
All'interno di ogni disciplina c'è un particolare modo di scrivere, spesso anche all'interno di una singola scuola si notano differenze e questo, probabilmente, va un po' superato ponendoci in modo più critico, a volte più ironico, davanti allo scrivere, magari in un modo che sia più trans-disciplinare e che crei un'alleanza interdisciplinare, una cooperazione e magari anche una critica, ma che comunque ci porti oltre i confini disciplinari.

In queste Giornate, discutendo su ciò che fa il terapeuta scrivendo, tenteremo di reinterpretare il passato culturale e riflettere sulle prospettive future di questo aspetto della nostra disciplina. Certamente oggi la scrittura non è più - o molto poco - quella dimensione occulta di un tempo, poiché è diventata un momento centrale del nostro essere. Diversi e variegati sono i procedimenti letterari, che vanno dalle metafore ai racconti, ai linguaggi figurati e a molti altri; e tutti questi modi hanno significati diversi soprattutto in funzione del diversa struttura che possono assumere.

Siamo proprio sicuri che il linguaggio letterario sia sempre da condannare come linguaggio scientifico, per la sua mancanza di 'univocità', quasi che il discorso della letteratura e della narrativa fosse solo o necessariamente instabile, basato sulla stratificazione del significato, narrante sempre cose per poi poterne dire altre? La parola, com'è comunemente usata nella recente teoria testuale, ha perso la sua connotazione di falsità o di qualcosa che si oppone alla verità; indica invece la parzialità delle verità culturali e storiche, i modi in cui esse sono sistematiche ed esclusive. Le opere psicologiche si possono correttamente chiamare finzioni nel senso di qualcosa che è stato 'fabbricato' - nucleo della radice latina della parola fingere - ma insieme al significato di 'fare' ci deve essere anche quello di 'inventare', creare cose che non possono propriamente essere vere.
La filosofia ermeneutica, nelle sue varie versioni, da Wilhelm Dilthey e Paul Ricoeur a Heidegger, ci rammenta che i più semplici resoconti culturali sono creazioni intenzionali, e proprio coloro che interpretano, mentre studiano gli altri costruiscono se stessi. È curioso, per esempio, l'uso dei sensi nelle diverse culture, quasi ci fosse un ordine gerarchico a secondo del periodo storico e della specifica cultura. Ong (1986) sostiene che la verità della vista, nelle culture occidentali e letterate, ha prevalso sul suono, il dialogo, il tatto, l'olfatto e il gusto. Le metafore prevalenti nella ricerca - raccolta dati, descrizioni culturali - presuppongono sempre un punto di vista che osserva dall'esterno oggettivando o da vicino 'leggendo' una data realtà.

Negli anni '60 le convinzioni che erano alla base dell'equilibrio fra soggettività e oggettività si sono incrinate. Prima di quest'epoca le esperienze personali del terapeuta, specialmente quelle della partecipazione e dell'empatia, venivano riconosciute come centrali nel processo di ricerca, ma erano anche severamente inibite dai criteri impersonali dell'osservazione e della presa di distanza 'oggettiva'. Se la voce dell'autore era sempre presente è anche vero che era vietato un collegamento troppo intimo tra lo stile dell'autore e la realtà rappresentata. La soggettività dell'autore era così separata dal referente oggettivo del testo e la sua voce era udita più come uno stile, nel senso però debole del termine: quasi un tono. Situazioni di grande incertezza, sentimenti, atti violenti, censure, fallimenti, mutamenti di rotta, soddisfazioni straordinarie, erano così escluse da ogni resoconto pubblicato. Poi, quest'equilibrio tra soggettività e oggettività si ruppe e un implicito punto interrogativo venne posto accanto a qualsiasi eccessiva sicurezza o coerenza, tanto che oggi, che ben sappiamo non solo come sia impossibile conoscere tutta la verità ma spesso anche solamente avvicinarsi ad essa, ci si chiede: come viene costruita 'testualmente' l'oggettività? Il discorso dell'analista - culturale o psicologico - non può più essere semplicemente quello dell'osservatore 'esperto' che descrive e interpreta l'altro; l'altro c'è, è nella relazione, e da questo insieme nascono nuovi significati. Il terapeuta così non detiene più i diritti assoluti sul sapere dell'altro.

Del resto siamo proprio sicuri che la relazione analitica si basa sull'autorevolezza dell'analista? cioè che la relazione analitica è asimmetrica e il paziente dipende dall'analista? Potremmo assumere - come dice Migone in Scrittori e psicoterapia (1998) - che l'analisi non sia altro che una normale conversazione tra due partner alla pari. Se le osservazioni dell'analista sono corrette, la loro forza sarà basata sulla loro intrinseca verità o capacità di persuasione, e non c'è allora bisogno che egli si ponga come figura autorevole (p. 191); e qualora il paziente non le accetti allora dobbiamo chiederci se è lui a difendersi o se è l'analista ad aver torto. Il paziente non è passivamente dipendente dal terapeuta e le loro prospettive sono uguali perché entrambi hanno una visione plausibile della realtà secondo il loro schema cognitivo. La realtà è sempre 'creata' cioè filtrata dagli schemi correggibili interni, i quali, tramite accomodamento o assimilazione, producono quell'unica realtà che possiamo conoscere: la nostra. Concepire il ruolo dell'analista come necessariamente diverso da quello del paziente è - continua Migone - una operazione non psicoanalitica, che blocca il processo privandolo di parte del materiale. Concepire l'asimmetria vuol dire attribuire un significato aprioristico al paziente senza domandarsi se potrebbe essere altrimenti. La conseguenza di questo, che è quella tipica dei pregiudizi, non porta mai ad alcuna vera scoperta, se non di ciò che già si sapeva. E del resto è proprio così interessante per il processo sapere chi ha ragione? o non è forse più interessante avere la possibilità di discuterne senza dar nulla per scontato? e ancora, a questo punto possiamo veramente considerare il terapeuta come l'unico autore dei nostri scritti?

Ciò che noi agiamo, scrivendo dei nostri pazienti, è quindi un discorso personale o una descrizione impersonale? non vi è forse sempre un sofferto e confuso groviglio di contraddizioni e incertezze nel nostro scrivere? non è forse vero che i rapporti tra l'esperienza personale, lo scientismo e il professionalismo sono, nello scrivere, sempre in conflitto? L'autorevolezza di cui noi ci appropriamo da cosa è mai determinata? forse dal solo aver vissuto insieme al paziente l'esperienza così come se l'assume l'antropologo scrivendo di culture diverse? l'autorevolezza di un testo, quindi, è direttamente determinata dal carattere personale dell'esperienza dell'autore? Non credo che sia impossibile creare una mediazione tra l'autorità personale e l'autorità scientifica, poiché senza dubbio non dobbiamo scordare che il testo, in quanto prodotto dall'incontro col paziente, e perciò personale, deve nondimeno conformarsi alla norma del discorso scientifico.
La consapevolezza della parzialità dell'autore mi porta a chiedermi quali sono i pregiudizi che egli espone nello scrivere, e chi mai potrà riconoscere questi pregiudizi? mi chiedo, ad esempio, i limiti di una visione o femminista o maschilista di fronte ad alcune tematiche. E da chi, e come, e quando, verrà percepita una lacuna del sapere? E ovviamente una lacuna non è solo (o semplicemente) la constatazione di un errore o di un'omissione. È probabile che certe raffigurazioni ci appaiano oggi più limitate di quanto magari sembrassero un tempo poiché non possiamo più definire la lettura 'neutrale' così come le persone non sono mai 'oggetti' scientifici - ammesso che esistano scienze naturali - oggetti da poter usare per generalizzazioni che rispondono all'immagine di un ideale rigoroso. Sarà proprio nella percezione delle nostre lacune e nel tentativo di colmarle che si avranno sia i progressi sia la coscienza di altre lacune prima non viste.

Non si può - nello scrivere psicoterapia - ignorare né il potere linguistico e della retorica né, d'altro lato, le forze della storia e di chi detiene il potere. Ma chi può valutare le verità degli scritti? e perché lo può? chi detiene l'autorità di separare la scienza dall'arte? il realismo dalla fantasia? il sapere dall'ideologia? Né, del resto, possiamo far finta che queste distinzioni non ci siano, e che nel tempo esse stesse mutino.
Il testo, io credo, dovrebbe - soprattutto nella nostra disciplina - mediare e combinare in qualche modo pratiche oggettive con pratiche soggettive, creare quindi uno spazio, un punto o un posto, che si trovi nel mezzo di queste due diverse visioni. Tradurre un lavoro che non può non essere soggettivo attraverso strumenti che non possono non essere scientifici. Del resto questa pratica di combinare racconto personale e descrizione oggettiva non è solo prerogativa della psicoterapia, o delle scienze della mente, ma anche di altre discipline quali l'antropologia o l'etnografia. È vero però che ogni traduzione (come scrive Walter Benjamin, 1962) "è solo un modo sempre provvisorio di fare i conti con l'estraneità della lingua", quindi un modo provvisorio per entrare in relazione con l'estraneità dell'altro, della sua cultura e del suo essere; quasi che il terapeuta fosse un messaggero che, provvisto delle sue tecniche e metodologie, potesse svelare ciò che è occulto, latente, inconscio. Egli, come un mago, un ermeneuta, rende l'estraneo familiare, dà significato all'insignificante, decodifica un messaggio, lo interpreta. Certo, sono interpretazioni provvisorie fino a quando, diventando testo, prendono corpo, spazio, tempo, quindi definitività, spesso presunzione di verità. E per far questo - per persuadere il lettore (e a volte anche se stesso) - l'autore usa tutti i mezzi a sua disposizione, tutti i trucchi anche linguistici che possano dare forza alla sua tesi per lui definitiva e vera. Ecco che allora l'uso della retorica si impone, per dare affidabilità al testo e autorità all'autore. Così troviamo il 'distacco', la 'neutralità', la presunta 'obiettività', immaginata oggettività, tutte strategie finalizzate a costruire la propria autorità. La scelta di una figura retorica dominante o di un modo narrativo è sempre il tentativo di imporre una certa lettura o una certa gamma di letture ad un processo interpretativo che in sé è aperto, ma che via via determina una serie di 'significati', anche se non necessariamente definisce un limite.

A volte mi chiedo se, in queste occasioni, i pazienti non siano altro che dei pretesti per delle riflessioni che però, in fondo, riguardano solo l'autore e i suoi lettori, l'oratore e la platea, un po' come succede a volte a qualche antropologo. Mi viene in mente la critica fatta a uno dei più conosciuti del nostro tempo, Geertz, che nello scrivere Il gioco profondo non avrebbe fatto alcun tentativo di capire i nativi dal loro punto di vista, né avrebbe portato alcuna prova accertabile per sostenere le sue affermazioni, tanto che alla fine le sue costruzioni sembrerebbero essere poco più che proiezioni. In questo modo si rischierebbe di perdere il senso stesso, lo scopo, del nostro lavoro poiché la relazione svanirebbe e l'autore - con la voce dell'autorità - parlerebbe (come direbbe Remotti) non attraverso un 'io-tu' ma un 'io-loro', una diade in cui ogni tipo di dialogo è sfumato.
I nostri testi sono sempre a più voci: quella dell'autore (autobiografia), quella del paziente con la sua esperienza, quella dialogica della relazione ed infine, ma certo non ultima, la voce di chi legge o ascolta. Vi è quindi un intrecciarsi, un coro, un incontro, che certo non può essere raccontato attraverso la dicotomia, più scientifica, soggetto-oggetto. Vi è (o dovrebbe esserci) una continua ricerca che darà un racconto congiunto, una produzione comune che mostrerà gli aspetti più intersoggettivi. Il nostro scrivere è un modo di trasformare l'esperienza in un discorso; il testo in qualche modo cristallizza l'evento e, insieme, ne amplifica il significato. Se pensiamo a Socrate e al suo rifiuto di scrivere, non possiamo non vedere quanto in realtà tutto questo sia comunque passato e diventato efficace solo nel momento in cui è stato 'trasformato' attraverso ciò che Platone ha scritto. Il passaggio dalla tradizione orale a quella scritta è, soprattutto in Occidente, caratterizzato da storie di potere, di perdita e di guadagno, perché la scrittura è comunque un veicolo di forza, inteso come effettivo strumento di storicizzazione e manipolazione della conoscenza.
Il nostro scrivere è comunque 'imperfetto' e non può essere considerato come un comporre un sapere universale; esso non è cioè né auto-perfezionante come il discorso scientifico né totalizzante come il discorso politico, né è definito dalla forma o dalla relazione con l'oggetto esterno, ma probabilmente è sostanzialmente evocativo poiché rende concepibile ciò che non è materializzabile.

Il pensiero scientifico oggi ha perso molta della sua forza, perché ha violato la prima regola della cultura: "Più l'uomo controlla qualche cosa, più l'uomo e quella cosa diventano incontrollabili". La scienza ha preteso di essere la giustificazione di se stessa per controllare e rendere autonomo il proprio discorso, eppure più assoggetta il suo discorso all'onere della prova più il suo progetto - l'unità del sapere - diventa frammentario e incontrollabile. L'utopica ricerca di unità della scienza ha portato da un lato alla sua chiusura o irrigidimento, dall'altro alla perdita della realtà pratica, del dialogo e quindi della capacità di dire al mondo. L'autore non può controllare - mai - i propri lettori. E, forse estremizzando una visione un po' pessimistica, possiamo dire che il testo sarà sempre frainteso perché non può eliminare l'ambiguità e la soggettività di autori e lettori, tanto che - come dice Bloom - si potrebbe dire che "il significato del testo è la somma dei suoi fraintendimenti". Per questo dobbiamo abbandonare la pretesa del modello scientifico, di tipo cartesiano, che le idee possano essere enunciate in modo chiaro, oggettivo, logico. Dobbiamo così accettare e centrare le nostre energie nella creazione soggettiva di oggettività ambigue, consapevoli che ogni testo, ogni descrizione della realtà, non è altro che una imitazione della realtà stessa, illusione di realtà, mimesi che crea solo apparenze di realtà così come spesso accade nella scienza. È il prezzo da pagare nel far fare al linguaggio scritto il lavoro degli occhi. Ma in fondo non è forse anche vero che ciò che crediamo di vedere non sempre è ciò che vediamo, o che quando vediamo due volte lo stesso oggetto esso ci appare sempre diverso? Nessuna cosa è sempre la stessa, nemmeno il nostro testo che, apparentemente sempre uguale a sé, è invece schiavo dell'egemonia della nostra percezione di lettori, e perciò anch'esso mutevole.

L'immagine della scienza è profondamente cambiata nel corso di questi ultimi anni; da un sistema conoscitivo neutro si è passati ad un modello che si potrebbe definire più del 'quotidiano'. Dobbiamo ricordare come il principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria della relatività e la stessa psicoanalisi hanno pesantemente indebolito la fiducia in una conoscenza 'oggettiva'. L'analisi sulla 'condizione post-moderna' e sul 'pensiero debole' (Vattimo) avvenuta fra il '70 e l'80 affrontava proprio il modo di concepire la mente, dopo che la storia (con Marx, Heidegger, Freud) ne aveva mostrato tutti i limiti. Cadute le illusioni cartesiane ed idealistiche di una ragione che domina la realtà e di un uomo iperpotenziato, l'individuo, ben rappresentato dall'Uomo senza qualità di Musil, non è più così in grado di conoscere il mondo esterno, né 'la cosa in sé', né la verità. Le scienze sono ormai arrivate a guardare le cose 'sotto un certo punto di vista', punto di vista che lo scienziato assume scegliendo le sue teorie ed i suoi specifici metodi, che comunque dipendono da credenze personali e connotazioni ideologiche.

Secondo le teorie coerentiste, per le quali siamo in una fase post-empirista, la veridicità sta nella coerenza interna di una teoria, mentre per quelle corrispondentiste la realtà deve corrispondere, almeno per una certa misura, al modello creato dallo scienziato. In entrambi i casi, comunque, e proprio per mancanza di una significazione univoca, è il linguaggio a fare da referente, ovvero sono le regole del linguaggio a stabilire il modo in cui viene costruito il mondo oggettivo. Per i decostruzionisti il significato di un testo è determinato non tanto da quello che l'autore gli attribuisce quanto da ciò che il lettore vi leggerà in funzione delle sue aspettative, capacità e disposizione. La conoscenza diventa così un processo di attribuzioni di significato ed il problema della realtà esterna viene messo fra parentesi. L'incertezza nasce dal rapporto tra l'osservatore e il suo sistema. Se l'oggetto assume significato a partire da uno specifico punto di vista con il quale viene conosciuto, allora osservatore ed oggetto vengono a far parte dello stesso sistema di interazione. Ciò significa che anche l'osservatore è dentro il sistema così come interni saranno i suoi strumenti. Non ci sarà quindi un livello più alto da cui poter guardare gli oggetti, un vertice oggettivo, poiché esso sarà comunque e sempre un polo della relazione del sistema. Allora "l'unico sistema per far procedere la conoscenza sarà così la cooperazione dei vari osservatori, non per rendere omogenee le differenze ma per arrivare a comprendere la relatività dei singoli punti di vista e le loro interconnessioni, non per arrivare a una convalida definitiva dei risultati ma per comprendere il valore dei molteplici aspetti del sapere e dei differenti oggetti" (Smorti, Tani, 1988). Ma è poco probabile che un rapporto di cooperazione sia intrapreso senza la presenza di una certa dose di competizione tra coloro che cercano di convincere la comunità di essere più vicini degli altri alla verità. Ecco allora l'importanza del linguaggio. E in esso tre aspetti si delineano come i più importanti: quello semantico, che studia l'attribuzione di significato alla realtà e la sua costruzione, quello sintattico che si occupa della coerenza interna dello scienziato con la teoria, e quello pragmatico che vede il processo di accordo intersoggettivo tra i vari ricercatori, con i suoi aspetti di pubblicazione dei risultati, ripetibilità delle esperienze e convenzionalità di definizioni e strumenti.

Questi problemi sono stati sviluppati da Pera (1991). Egli afferma che il modello di mente che aveva Bacone, centrato sulla partita a due fra mente e natura gestita attraverso delle regole e un arbitro esterno denominato metodologia, è ormai superato poiché è venuta meno la fiducia nelle regole. Senza le regole l'esito del gioco non è più garantito tanto che oggi il gioco che rappresenta la conoscenza scientifica è, per necessità, cambiato e viene giocato a tre: la mente, la natura e la comunità.
Vi sono così molte incertezze e difficoltà nel cercare di separare scienza da non scienza. Ma in che cosa si distingue la scienza dall'arte? che rapporto c'è tra il ragionamento scientifico e quello quotidiano? Abbattute le tradizionali divisioni tra scienza della natura e scienza dell'uomo, scoperte le affinità tra l'arte, la matematica e le scienze, sbiadite le differenze che separano la logica scientifica dalle illusorie costruzioni del pensiero, anche quello patologico; insomma, abbattuti i confini tra i diversi livelli dell'agire e del conoscere, sembra oggi necessario comprendere meglio le diverse ramificazioni delle discipline altrui per dar vita a nuove modalità di conoscenza. Appaiono ormai illusorie le descrizioni obiettive della cultura e ciò che resta è comunque solo un racconto: un racconto scritto che il più delle volte risulta essere molto vicino ad una autobiografia poiché, come abbiamo detto, nasce dall'esperienza di chi conosce ed osserva che, come abbiamo detto, si trova sempre all'interno del sistema.

Freud oscillava tra una visione scientifica della psicoanalisi quale scienza dei fatti reali e una visione più vicina al romanzo storico nel quale lo scopo è di raggiungere il senso della realtà attraverso la costruzione di una racconto il più verosimile possibile. La logica della spiegazione analitica si risolve così nella logica della narrativa psicoanalitica che - come un puzzle - ricompone i vari pezzi del comportamento del paziente in un tutto significativo. Essa si avvicina così ad essere una scienza ermeneutica in quanto scienza che interpreta il testo ed esige un continuo trasferimento di significati verso contesti sempre più ampi. Schafer (1976, 1980, 1991) e Spence (1982, 1986) portano il modello della psicoanalisi come narrazione fino alle estreme conseguenze attraverso l'analisi del dialogo psicoanalitico e orientandosi non tanto verso la veridicità storica del racconto del paziente quanto verso gli aspetti persuasivi ed estetici della verità narrativa. Questo stesso tipo di discorso viene affrontato anche da diversi organicistici e non possiamo scordare fra questi prima Alexander Lurija, poi Oliver Sacks.

Con l'avvento dell'era dei computer accanto al modello della mente come costruttrice di significati si affiancò quello della mente come elaboratrice di informazioni. A queste due posizioni (la prima di tipo razionale, che considera la realtà esterna come prodotto della mente che costruisce, la seconda più vicina alla tradizione empiristica, che considera la realtà come preesistente e la mente come centro istruito dagli stimoli e adibito alla loro elaborazione) si affiancò l'idea che la conoscenza avviene in funzione degli scopi specifici e delle caratteristiche del contesto. Se l'accento viene messo sul contesto, il sistema e l'ambiente, ciò significa che non esiste un soggetto conoscente assoluto né un oggetto indipendente da esso, ma un processo di interazione fra loro, e quindi ogni processo interattivo non avviene tra due polarità in sé separate perché si verifica all'interno dello stesso contesto. Ciò porta a dire che l'interazione è una costruzione che avviene nella storia, una storia che agisce nel tentativo di far rivivere eventi del passato, tutti collegati fra loro, e agiti da attori protesi a raggiungere propri bisogni e scopi che pure, inevitabilmente, mutano nel tempo. Tutto questo mondo di attori, scopi mutevoli, viene ricostruito dalla storia in un insieme che è un atto narrativo. Il dibattito fra scienza e narrazione, tra spiegazione e comprensione, tra epistemologia ed ermeneutica diventa così anche un problema psicologico poiché investe la natura stessa del pensiero e del linguaggio.
La narrazione - la storia - non è un semplice contenitore di eventi; essa ha una sua organizzazione interna e gli eventi si susseguiranno secondo una sequenza temporale che è fortemente legata dal punto di vista di chi costruisce la storia o di chi l'ascolta. Quindi in una storia ci sono sempre due elementi: la struttura interna (il punto di vista) e la relazione. Il significato di questi due aspetti e la natura dei loro rapporti è sicuramente un problema complesso.

Scienziati e letterati, ovvero scienza della natura e scienza dello spirito, sono veramente coppie di opposti che poi, in definitiva, hanno creato ulteriori dicotomie? ed è possibile una comunicazione tra loro una volta accettata la liceità dei rispettivi punti di vista? in realtà non possiamo non riconoscere che questi due tipi di conoscenze sono fortemente intrecciate fra loro e che solo attraverso complicati artefici retorici possiamo distinguerle. Inoltre questi due tipi di pensiero non esistono veramente 'nella realtà' ma piuttosto sono due costrutti - anche se elaborati - tesi a comprendere l'essere umano; sono solo due aspetti diversi. Parlare di pensiero logico e narrativo non vuol dire, necessariamente, proporre una bipartizione; essi non devono essere letti come due opposti escludentisi, ma semplicemente due pensieri diversi in cui elementi dell'uno sono contenuti nelle caratteristiche dell'altro.
L'ascolto di una narrazione presuppone che possa essere momentaneamente sospeso il valore convenzionale della realtà di ciò che viene raccontato, in modo che si possa creare una nuova prospettiva. "Nella nuova e più potente logica, di una prospettiva non ci si chiede se sia vera o falsa, bensì in che tipo di mondo possibile essa è vera. Qualora, poi, fosse possibile dimostrare che essa è vera in tutti i mondi possibili allora, quasi certamente, si tratterebbe di una verità derivante non dal mondo, bensì dalla natura del linguaggio" (Bruner, 1986).

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