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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: EMOZIONE E LINGUAGGIO NELLE NARRATIVE
Area: Emozioni e Linguaggio nelle Narrative

Gli aspetti linguistici dell'interazione

di Cristina Francios e Andrea Seganti



1. Gli atti linguistici nel dialogo psicoanalitico: le considerazioni di Thomä e Kächele

Thomä e Kächele (1985,1988), ricercatori in psicoterapia ed esperti nell'analisi del linguaggio, sono direttori del Laboratorio di Ulm (in Germania) per la ricerca empirica in psicoanalisi.
Si dedicano allo studio del dialogo psicoanalitico collocandosi su una posizione non ermeneutica, dove il linguaggio viene considerato all'interno di un progetto più ambizioso, o comunque diverso, e segnatamente nello spirito scientifico freudiano, nel quale il linguaggio è un aspetto di un oggetto di studio più vasto per il quale si possono applicare anche gli strumenti di ricerca scientifica delle scienze naturali. Al linguaggio corrisponde, o esso è collegato, una struttura sottostante, e preesistente, anche se si modifica con esso o che da esso è modificata. la ricerca in psicoterapia si rivolge anche allo studio di questa struttura sottostante . E' questa quindi una precisa impostazione scientifica nella quale «vissuto, insight, interpretazione e relazione, aspetti verbali e non verbali del dialogo sono in costante interazione» (Thomä, 1983), e diventano modalità di espressione e conoscenza. Vengono misurate le variazioni diacroniche del linguaggio , ma anche altri aspetti del processo analitico, correlandoli tra loro, e con il risultato della psicoterapia.

Come sappiamo, Thomä e Kächele adottano ampiamente, assieme ad altri metodi di ricerca , la registrazione audio delle sedute, strumento utile per la trascrizione dei dialoghi psicoanalitici. Il contenuto delle registrazioni viene successivamente trascritto e lo studio dettagliato dei protocolli integrali si rivela utile, secondo gli autori, sia nel campo della formazione sia per «l'analista curante che potrà farsi un'idea realistica del suo concreto operare terapeutico, il che è solo in parte possibile se ci si serve di protocolli redatti dopo le sedute, per motivi che dipendono dalla psicologia della memoria». (Thomä e Kächele,1988,p.43).
In certi ambienti in passato vi sono state delle obiezioni sulla legittimità dell'uso del registratore all'interno delle sedute psicoanalitiche, per i significati che esso assume per il paziente e per il terapeuta e per le alterazioni del cosiddetto setting classico. Thomä e Kächele in risposta alla critica rispetto a questa metodologia sottolineano come, in base alla loro esperienza «il decorso del processo psicoanalitico in genere è tale che la registrazione finisce per diventare un elemento di routine che solo occasionalmente ha un significato inconscio, esattamente come lo stendersi sul lettino» e sottolineano l'importanza della registrazione come strumento di indagine che permette di possedere dati attendibili sullo scambio verbale e che consente dunque all'analista di verificare le sue osservazioni (Thomä e Kächele,1988, pp.44-45).
Una volta stabilito l'interesse per la registrazione come strumento d'indagine, gli autori si interrogano su cosa avviene realmente durante il trattamento psicoanalitico e in particolar modo sulle regole che orientano il dialogo tra paziente e analista. Thomä e Kächele fanno riferimento in particolare alle regole del discorso rispetto alle quali devono trovare un'intesa almeno parziale (tacita) , se realmente desiderano portare avanti un dialogo che abbia qualche senso:
Il paziente che non ha ancora familiarità con la situazione analitica si aspetterà che la conversazione con l'analista segua le regole della comunicazione quotidiana.Se le domande restano senza risposta,per esempio, egli può interpretarlo come un segnale che l'analista non possa o non voglia rispondere, oppure entrambe le cose.La domanda è quindi un mezzo con il quale una persona può indurre un'altra a uno scambio verbale , a un dialogo. Dal momento che la terapia psicoanalitica vive di "conversazione, di scambio di parole"(Freud, 1915-1917) è molto importante che cosa e come l'analista risponde ( Thomä e Kächele,1985,pp.317-318).

Una regola tecnica, che si è irrigidita in uno stereotipo frequentemente riscontrabile, ci dicono gli autori, sembra essere quello di rispondere a uno domanda del paziente con una contro domanda.«Sulla base dello studio della letteratura e dell'esperienza personale siamo giunti alla conclusione che la regola della contro domanda non assicura in alcun modo la profondità della conoscenza di sé , bensì la disturba e talora può distruggere la vera base della conoscenza di sé , vale a dire il dialogo psicoanalitico»

L'analista deve allora astenersi dalla rigida osservanza da una regola che non si può conciliare con la teoria bipersonale del processo psicoanalitico e con l'esperienza della pratica psicoanalitica:
Così come lo sviluppo del Sé o dell'Io risulta legato al processo dialogico, anche il cambiamento terapeutico dell'Io e della scoperta del sé sono legati alla risposta del nuovo oggetto.(...).Dal momento che nel trattamento psicoanalitico tutti gli oggetti si costruiscono grazie alla comunicazione verbale con un soggetto che fa uso del mezzo linguistico, possiamo chiarire perché è necessario modificare una regola , ormai invecchiata , per rendere più fruttuoso il dialogo psicoanalitico (Thomä e Kächele,1985, p.319).

Ferenczi (1919) , che fu il primo a formulare la regola di non rispondere mai alle domande dei pazienti, credeva di essere in grado di arrivare rapidamente alle determinanti inconsce , al significato latente delle domande, tramite la contro domanda. Quando formulò la regola della contro domanda egli si ispirava certamente al modello della scarica, e consigliava di forzare le fantasie, o aumentare la tensione, nell'ambito della tecnica attiva da poco inaugurata. uando formulò questa regola si ispirava certanmte al modello della scarica e consigliava di forzar C'è una discreta probabilità, pensano gli autori, che una rigida applicazione di questa regola dissuada completamente il paziente dal porre ancora domande, portandolo a nascondere non solo le domande ma anche i pensieri a esse connessi senza che ciò diventi chiaro all'analista. Thomä e Kächele ci riportano la loro esperienza che infatti si muove in direzione opposta:
risposte ben meditate secondo le regole, che si possono formulare nella conversazione ordinaria aiutarono un paziente a parlare dei sentimenti di rifiuto che aveva provato come conseguenza di un'applicazione troppo rigida della regola della contro domanda.(...) la regola della contro domanda ha lo scopo di trasformare in soliloquio un comportamento verbale che il paziente iniziò come colloquio (Thomä e Kächele,1985 pp.321 e sg).

Per riuscire a mettere in atto un dialogo significativo, ciascun interlocutore deve essere disposto ( e deve supporre che anche l'altro lo sia) a riconoscere le regole valide per quella data situazione sociale e entrambi devono sforzarsi di portare il loro contributo alla conversazione osservando queste regole. Per poter afferrare gli effetti di una deviazione dalle regole quotidiane della conversazione, è necessario, dunque, dare un'occhiata a queste regole del discorso e della cooperazione, che costituiscono l'orizzonte dell'esperienza e dell'aspettative di ogni essere umano.
Austin (1962), per esempio, nella sua teoria degli atti linguistici, parte dall'osservazione che «con le parole vengono fatte delle cose». Ma affinché il linguaggio diventi un mezzo di azione efficace bisognerà considerare l'esistenza di obblighi interpersonali, che si possono formulare come regole del discorso. Queste regole dipendono in parte dal contesto sociale di un comportamento verbale e, viceversa, una data situazione viene determinata in parte dal valore di particolari regole del discorso.Se si applica quest'ultima osservazione al campo psicoanalitico, si potrebbe dire che non solo la situazione sociale manifesta, ma anche il campo relazionale latente del transfert e del controtransfert vengono determinati dalle regole implicite ed esplicite del discorso.
Se il discorso viene disturbato a causa di fraintendimenti o di infrazioni alle regole, deve essere possibile una metacomunicazione sul discorso, capace di rimuovere l'interferenza; per esempio , ci può essere uno dei due partecipanti che insiste sul rispetto nei confronti di una particolare regola (quello che le ho detto era una domanda , ma lei non mi ha risposto).
In una tale metacomunicazione, le regole infrante, prima implicite, possono diventare esplicite e cogliere la possibilità di essere ridefinite; il contesto sociale e, possiamo aggiungere , il campo del transfert e controtranstert, possono cambiare (Thomä e Kächele 1987,p.325).
Va riconosciuto che il paziente ha diritto a una spiegazione delle regole del discorso analitico per fare in modo che non si senta trattato in maniera arbitraria , cioè senza alcun rispetto del principio generale di cooperazione (Grice,1975).
Fanno parte di questo principio regole ulteriori e specifiche, come ad esempio distinguere domande da richieste o da accuse. Un altro caso è quello in cui, di fronte al silenzio dell'analista rispetto a una domanda posta dal paziente, quest'ultimo potrà credere che egli non voglia rispettare il principio generale di cooperazione o che voglia far comprendere , col il silenzio, che manca uno dei prerequisiti per fare della sua espressione una domanda. Qualunque sia il senso attribuito dal paziente a questo silenzio avrà ripercussioni sulla relazione di transfert che può anche sfociare in una interruzione del trattamento (Grice,1975, p.326).
Thomä e Kächele, non vogliono suggerire che l'analista debba comportarsi secondo le regole quotidiane del discorso, ma far riflettere sul fatto che le regole esplicite e implicite introdotte dall'analista, per via della sua tecnica, sono determinanti essenziali rispetto alla forma assunta dal transfert:
Le possibilità uniche del dialogo psicoanalitico si fondano sul fatto che le regole del discorso che gli sono proprie sono per certi aspetti di più ampio respiro rispetto a quelle del discorso quotidiano. Lo scopo di tale maggiore ampiezza di senso, con l'interpretazione come componente più importante, è quello di rendere conscio ciò che è inconscio.
Quindi l'analista non svolge correttamente il suo lavoro se risponde alle domande del paziente in un modo semplicemente convenzionale.
L'analista comincia una metacomunicazione con l'intenzione di chiarire gli aspetti inconsci che il paziente presenta nella relazione con lui attraverso l'interpretazione del transfert.Nella misura in cui il paziente si sente compreso dall'analista per via di questa interpretazione riceve qualcosa che lo aiuta a superare meglio i suoi conflitti. In tal senso,è più che ricompensato per quel poco di frustrazione, causata dal rifiuto dell'analista a rispondere in maniera diretta alla sua domanda cambiare (Thomä e Kächele 1987,p.329).
2. Sulla distinzione pragmatica tra frase e enunciato: l'approccio di Bachtin
L'uso moderno della parola pragmatica viene ricondotta al filosofo americano Charles Morris che, con la pubblicazione dei Fondamenti della teoria dei segni, nell'International Encyclopedia of Unified Science del 1938, si preoccupò di distinguere all'interno della teoria dei segni, o semiotica, tre indirizzi di ricerca: la sintassi, o studio delle relazioni formali di un segno con l'altro; riguarda quindi la struttura grammaticale della frase, la semantica, o studio delle relazioni dei segni con gli oggetti cui si applicano, si riferisce al significato delle singole parole, e infine la pragmatica, o studio delle relazione dei segni con gli interpretanti.
In questi senso la pragmatica si interroga sullo scopo dell'enunciato, il motivo per cui il parlante lo ha generato, che finalità aveva nei confronti dell'interlocutore. In particolare, la pragmatica esamina i rapporti che intercorrono tra un testo e il contesto in cui è manifestato. L'attenzione viene spostata dall'analisi della struttura del sistema di comunicazione all'atto concreto e contingente di comunicazione. In questo filone di pensiero è parso significativo prendere in considerazione il pensiero di Michail Bachtin.
Pensatore sovietico nel campo delle scienze umane, sosteneva che la stessa natura del linguaggio lungi dall'essere una realtà fortemente schematizzabile ed analizzabile, risente di tutti i fenomeni storici della comunità umana alla quale appartiene. Per questo egli , nelle sue riflessioni più specifiche sugli studi della lingua in generale e dei suoi rapporti con la letteratura, sostiene un punto di vista che vede nell'enunciato (Bachtin,1979) e non nella semplice proposizione, l'elemento di base per uno studio del linguaggio.
Egli si è dedicato ad approfondire la distinzione introdotta in pragmatica fra frase (in inglese sentence, intesa come espressione linguistica astratta , definita da una teoria della sintassi) ed enunciato (in inglese utterance, inteso come l'uso concreto della frase in un contesto reale, in occasioni particolari e per scopi specifici).
Bachtin formula la sua teoria dell'enunciato in due riprese: in alcuni testi della fine degli anni Venti, firmati quasi esclusivamente da Volo_inov (1926); e in alcuni scritti della fine degli anni Cinquanta.
Nelle prime formulazioni si parte da una constatazione: la materia linguistica costituisce solo una parte dell'enunciato, esiste anche un'altra parte, non verbale, che corrisponde al contesto di enunciazione. La situazione entra nell'enunciato come una componente necessaria della sua struttura semantica, per cui la comunicazione verbale non può mai essere compresa e spiegata fuori dalla connessione con la situazione concreta. L'enunciato, a differenza della frase è prodotto in un contesto che è sempre sociale, nel senso che l'enunciato è indirizzato a qualcuno e poi perché lo stesso parlante è un essere sociale (Bachtin, 1975).
L'enunciato non è un fatto che concerne solo il parlante , è il risultato della sua interazione con un ascoltatore di cui integra anticipatamente la reazione. Un altro punto essenziale della formulazione di Bachtin è la considerazione che non esistono enunciati isolati dagli altri enunciati e questa relazione è espressa con il termine dialogicità . Considerare anche la più primitiva delle espressioni umane prodotte dall'organismo individuale e, dal punto di vista del suo contenuto, della sua importanza , e del suo significato organizzata fuori dall'organismo , nelle condizioni extraorganiche dell'ambiente sociale, lo porta a considerare ogni enunciato come parte di un dialogo.
L'orientamento dialogico è un fenomeno proprio di ogni discorso è la tendenza naturale di ogni discorso vivo. In tutti i suoi cammini verso l'oggetto in tutte le direzioni il discorso si incontra con quello altrui e non può non entrare con esso in una viva interazione piena di tensione ( Todorov,1981)
Secondo la teoria del dialogismo, dunque, il significato di un testo, dal singolo enunciato a un intero romanzo non è determinato solo dal suo autore , bensì dalla relazione con il suo destinatario.Tra autore e destinatario si instaura un dialogo che rappresenta il luogo di elaborazione del significato.
L'espressione di enunciazione non può essere completamente compresa e capita se viene considerato solo il suo contenuto tematico. Un'enunciazione risponde sempre a qualcosa, in grado maggiore o minore e perciò esprime l'atteggiamento del parlante verso le enunciazioni degli altri e non solo il suo atteggiamento nei confronti dell'oggetto della sua proposizione. L' espressione può essere "monologica", ma per quanto possa concentrarsi sul relativo proprio oggetto, essa non può che essere, in una certa misura, una risposta a che cosa si è già detto circa il dato argomento, sul dato problema, anche se questa risposta non presuppone un'espressione esterna diretta e esplicita.
L'enunciazione è composta di tratti dialogici e questi devono essere considerati per capire completamente lo stile della stessa. Dopo tutto il nostro stesso pensiero nasce e si plasma in un processo interattivo ed in conflitto o in accordo con il pensiero altrui è modellato nel corso interazione e questo non può che essere riflesso nelle forme che esprimono verbalmente il nostro pensiero (Bachtin,1952-1953, traduzione mia).

Il discorso, infatti, può esistere nella realtà soltanto sotto forma di concrete enunciazioni di singole persone parlanti, di singoli soggetti del discorso. Il discorso assume sempre la forma di un'enunciazione appartenente ad un determinato soggetto del discorso, e fuori di questa forma non può esistere.Per cui, ogni enunciato è inserito all'interno di un sistema semantico composto dalla somma di tutte le enunciazioni con le quali quella presa in considerazione è in qualche modo collegata.
Qualunque enunciato dalla breve replica (di una sola parola) del dialogo quotidiano fino al grande romanzo o al trattato scientifico, non ha, per così dire, un inizio assoluto e una fine assoluta: prima del suo inizio ci sono le enunciazioni degli altri, dopo la sua fine ci sono le enunciazioni di risposta degli altri (Bachtin,1975 ,pp.257-258).

3. Il linguaggio nel contesto dell'azione: Austin e la pragmatica

Il punto di vista pragmatico pone in evidenza anzi tutto la comunicazione come azione e come fare. Se si riduce, infatti l'analisi della comunicazione soltanto allo studio dei suoi prodotti (il segno, il codice, i significati) si finisce per prendere in considerazione entità cristallizzate e statiche.
Per contro la comunicazione è processo, è azione tra due o più partecipanti. Il dire è fare diventa il motto della pragmatica, attenta a come si costruisce la cooperazione verbale fra le persone (Anolli,2002,p.10).
Il questa direzione John Langshaw Austin elabora una teoria della connessione diretta tra azione e linguaggio. Con lui il linguaggio cessa di dover optare per una via descrittiva o valutativa, ma si mostra per lo più come azione. Elabora una solida concezione pragmatica del linguaggio comune, la teoria degli atti linguistici, e una fenomenologia linguistica, cioè un attento inventario degli usi linguistici.
Negli anni '40 e50 Oxford e Cambridge rappresentavano il centro della filosofia nel mondo anglosassone; Austin, docente a Oxford, nel 1955 viene invitato negli Stati Uniti, a tenere le William James Lectures alla Harvard University, qui presenta e scrive le lezioni pubblicate postume con il titolo di How to do things with words . Il libro è divenuto un piccolo classico della filosofia del linguaggio, e punto di riferimento di moltissimi autori. Presentiamo dunque le linee generali del lavoro di Austin.


3.1 Performativi e Constativi
Austin, nel saggio Performatif-constatif (1962), inizia con una contrapposizione da lui elaborata negli anni precedenti tra enunciati constativi (o constatativi) e enunciati performativi.
I primi si limitano a descrivere i fatti, e possono essere veri o falsi. Austin a proposito di questa categoria di enunciati , nel saggio Performative Utterances (1956), notava come i filosofi spesso discutessero come se il linguaggio fosse composto quasi esclusivamente da enunciati constativi; per i seguaci di Frege e del primo Wittgenstein il significato di un enunciato era identificato con le sue condizioni di verità. Ciò comportava che ogni frase di cui non si potesse, almeno in linea di principio, stabilire la verità o falsità, era da considerare priva di senso da un punto di vista logico-filosofico rigoroso. Per Austin questa visione è del tutto riduttiva perché nel linguaggio comune troviamo enunciati che fanno ben di più che descrivere uno stato di cose: emettendoli noi eseguiamo certe azioni, con ben precise conseguenze.
Ne sono esempi:
- "battezzo questa nave Queen Mary" detto mentre si lancia la bottiglia per i battesimo della nave.
- "accetto di prendere in sposa la sig.na y", detto di fronte al sindaco o al prete.
-"prometto di aiutarti" proferito di fronte a un amico.
Pronunziare frasi di questo tipo, in circostanze idonee, non è né descrivere ciò che si sta facendo, né affermare che lo si sta facendo: è farlo.

Austin definisce questi enunciati enunciati performativi perché con essi si esegue (dal verbo inglese to perform) una certa azione: essi corrispondono a una esecuzione (una performance).
Di questi tipi di enunciati è difficile dire se siano veri o falsi; non è sensato parlare di "condizioni di verità", ma più generalmente, suggerisce Austin, di condizioni di felicità e infelicità (Austin,1962,p.56-57).
Austin elenca tre specie di infelicità collegabili con l'enunciato performativo.
Prima di tutto l'enunciato può essere «nullo e senza effetto» se l'autore non è in condizione di poter compiere l'atto in causa ( non posso battezzare la nave se non sono io la persona autorizzata a farlo). Una seconda condizione di infelicità deriva dal formulare l'enunciato senza sincerità ( prometto senza avere la minima intenzione di mantenere la promessa).
Infine, supponendo che l'atto sia stato effettuato, può verificarsi una «rottura di impegno» se l'evento che accadrà dopo il compimento dell'atto non sarà in regola (se dò il benvenuto a qualcuno non sarò in regola se tratterò la persona in questione come un nemico).
Per quanto riguarda i criteri per individuare un enunciato performativo, Austin mostra che non vi è un criterio grammaticale preciso per classificare gli enunciati performativi, nonostante la chiara differenza tra enunciati all'inizio dei quali si trova un verbo alla prima persona e da un uso del presente indicativo attivo, che risulta asimmetrico rispetto ad altre persone e tempi del modo indicativo dello stesso verbo, l'uso dei quali costituirebbe semplici descrizioni o resoconti.
I verbi che, alla prima persona del presente indicativo attivo, possono essere usati per formare enunciati performativi, vengono chiamati verbi performativi. ("ti obbligo a..." è un performativo; "egli promette che..." è una descrizione) .
Austin ipotizza comunque che si possa ridurre qualsiasi performativo a una forma canonica, del tipo "ti ordino di...". ma distingue tra due forme di performativi, quelli espliciti, come "ti ordino di aprire la porta", e quelli non espliciti, come "apri la porta" che, anche se non si esprime nelle forme da lui definite normali, non è meno performativo, non è meno atto di quanto non lo sia l'enunciato esplicito.
Dopo aver presentato la sua prima,grossolana, contrapposizione, Austin propone un raffinamento.
Ogni proferimento linguistico ("utterance") ha una componente di azione: anche i cosiddetti "enunciati constativi" consistono nell'eseguire un'azione, l'azione dell'asserire. Il contrasto iniziale tra performativi e constativi è di conseguenza illusorio, e ogni proferimento ha un aspetto performativo, compresa l'asserzione.

3.2 Atti locutori, illocutori e perlocutori
Lo sviluppo dell'analisi pragmatica del linguaggio porta Austin a proporre, nel suo saggio Come agire con le parole (Austin, 1962a), una seconda fondamentale tripartizione che, in un certo senso, ingloba la precedente.
Austin mostra quindi come gli elementi contestuali e quelli più strettamente linguistici si intreccino l'un l'altro , come ogni diversa sfumatura del parlare caratterizzi una situazione diversa, e come ogni diversa situazione richieda che si facciano linguisticamente in modi diversi le stesse azioni.
Distingue, quindi, nell'atto linguistico il livello locutorio, quello illocutorio e quello perlocutorio.
Intende per atti locutori azioni che si compiono per il fatto stesso di parlare e che comprendono gli atti fonetici (emissione di suoni), gli atti fatici (espressione di certe parole e di certi enunciati), gli atti retici (impiego di questi aspetti con un senso e con un determinato riferimento);
Gli atti illocutori sono, invece, atti nel dire qualcosa, sono atti che si compiono attraverso il parlare medesimo e che corrispondono alle intenzioni comunicative del parlante; per esempio l'esprimere un giudizio, l'esercitare un'autorità, il prendere un impegno.
L'atto perlocutorio è l'atto che compiamo con il dire qualcosa ,in quanto produce sempre effetti e conseguenze, come quando persuadiamo qualcuno dandogli un consiglio, o gli effetti non voluti o non previsti che il nostro aver detto qualcosa può avere.


Qualsiasi scambio comunicativo verbale, pertanto, non consiste nel produrre frasi isolate e astratte, ma nell'adoperare enunciati per realizzare un effetto intenzionale sull'interlocutore entro un definito contesto relazionale.
Un esempio:
Locutorio: il bambino dice alla mamma: "Non ho rubato io la marmellata"
Illocutorio: dichiarare la propria estraneità al fatto
Perlocutorio: convincere la mamma della propria innocenza
A questo proposito, Austin e successivamente Searle, procedono sul piano pragmatico alla distinzione tra atto e forza dell'atto medesimo (forza illocutoria).
Per esempio, una frase proferita da un parlante o scritta da un autore può avere la forza illocutoria di una promessa, di una minaccia o di una semplice affermazione.
Il destinatario riconosce la forza illocutoria di un atto linguistico per mezzo di indicatori contenuti nei discorsi orali o scritti (Sbisà,1989,pp. 136 e sg.). Per esempio, in un discorso orale è importante l'intonazione della voce, in un discorso scritto sono importanti i segni di interpunzione e l'ordine delle parole ed in entrambi i casi sono importanti indicatori di forza illocutoria i modi dei verbi.
Austin accentua questa prospettiva , distinguendo ulteriormente fra gli atti linguistici diretti e gli atti linguistici indiretti. Nei primi la forza illocutoria che il parlante intende attribuire all'enunciato è trasmessa in maniera conforme e corrispondente al significato letterale dell'enunciato medesimo.
Nei secondi la forza illocutoria deriva dai modi non verbali in cui è manifestato, come il tono e l'intensità della voce, il ritmo di emissione della voce ecc.
Gli atti locutori e illocutori sono essenzialmente convenzionali, e vengono agiti in uno spazio di conoscenza linguistica comune a parlante e interlocutore; quello perlocutorio è invece strettamente privato, e pertiene unicamente all'ascoltatore: avviene entro la sua mente, e il parlante non ha nessun modo diretto di scoprire se il perlocutorio è stato felice o meno. (La mamma può aver compreso l'asserzione ma non crederci).

3.3 Un'integrazione al pensiero di Austin: Zeno Vendler e i verbi di stato
Zeno Vendler, autore e linguista che si è occupato anche di filosofia analitica,scrive il saggio Di ciò che pensi nel 1970. Esso rappresenta un'opera che riprende e completa in maniera critica il pensiero di Austin.
A detta di Vendler , rifacendosi al pensiero Cartesiano secondo il quale la natura di un atto viene specificata dalla natura del suo oggetto ,Austin tralascia di considerare in modo dettagliato i vari tipi di oggetti che i verbi illocutori reggono .
Per Austin, la forma normale di dire qualcosa è il proferimento di un enunciato preceduto da un verbo illocutorio, tale verbo espresso alla prima persona singolare del presente indicativo, funge da contenitore nel quale l'argomento dell'enunciato viene offerto con una certa forza illocutoria.


In realtà, dice Vendler, l'uso del performativo è si il più importante, ma non l'unico modo per indicare la forza illocutoria, esistono intonazioni,situazioni, certe trasformazioni (come l'interrogativo,l'imperativo) in cui anche senza il verbo performativo si può rappresentare la forza illocutoria di un enunciato.
Gli strumenti grammaticali di cui Austin disponeva,sostiene Vendler, non gli consentironodi stabilire ,per i verbi allocutori, un criterio che fosse sufficientemente preciso che consentisse di escludere alcuni verbi «la cui appartenenza al dominio del pensare piuttosto che a quella del dire è fuori dubbio» (Vendler,p.144).
Vendler introduce quindi la classe dei verbi di pensiero suddividendoli tra verbi di compimento e verbi di stato (la maggior parte dei verbi di pensiero sono verbi di stato). Fanno parte della prima classe verbi come notare, apprendere, scoprire, accorgersi, mentre sono verbi di stato: pensare, credere, sospettare, presumere, supporre, anche se la linea di demarcazione tra le due categorie non è così netta . Quel che è cruciale è la possibilità di far coincidere la suddivisione dei performativi con quella dei verbi di stato e di compimento:
é importante che le stesse cose che si possono asserire, suggerire o negare a parole, possano essere intuite, capite, credute, sospettate o messe in dubbio nel pensiero; che cose considerate, interpretate e riconosciute come tali e tali altre nel pensiero, si possano giudicare e classificare, descrivere e definire a parole attraverso criteri analoghi; che quello che ci capita di decidere, volere, desiderare o avere intenzione di fare nel pensiero, possiamo anche promettere , giurare o assicurare di farlo a parole, che le cose che meritano approvazione o disapprovazione, risentimento o perdono nel pensiero, possano venire criticate o lodate, fatte oggetto di protesta o di scusa a parole; che, per finire, quel che ci si chiede nel pensiero lo si possa chiedere nel discorso (Vendler, 1970, p.155).
Per dirla in breve: è possibile dire tutti i tipi di cose che si è in grado di pensare , ed è possibile pensare quasi tutti i tipi di cose che si possono dire.
Secondo il pensiero di Vendler ,il problema non è se noi siamo in grado di esprimere a parole tutto ciò che pensiamo, ma ,piuttosto, si chiede se siamo in grado di pensare a tutto ciò che sappiamo dire. é una posizione che vede il linguaggio come fenomeno primario e il pensiero come derivato. Ma la sua considerazione può essere attenuata tenendo presente che egli si sta riferendo qui alla differenza tra pensare a... e pensare che....Pensare che è uno stato, che, ad esempio, anche gli animali possono provare,nel senso che anche essi hanno delle esperienze interiori in qualche modo simili a quelle umane. Il pensare a, invece, è un'azione che risponde alla domanda "a cosa stai pensando?", è un'attività che è una peculiare caratteristica del genere umano:
Nel pensare a qualcosa si passa attraverso una serie di atti mentali (...) così si può intuire o presumere,rendersi conto o concludere che le cose stanno in un certo modo, considerare, giudicare, interpretare una certa cosa in determinati modi; proporsi, progettare e decidere di fare una cosa oppure un'altra; chiedersi quali ne saranno le conseguenze; e via di seguito.
L'idea che si possa pensare a qualcosa senza compiere di questi o simili atti è altrettanto incomprensibile dell'idea di parlare di qualcosa senza dire assolutamente nulla (Vendler,1970, p.156).
Il pensiero, nel senso stretto del termine, è inconcepibile senza l'idea del linguaggio, e l'uso del linguaggio, nel senso pieno del termine rappresenta essenzialmente l'espressione del pensiero. Il motivo di ciò è che l'oggetto del pensiero e l'oggetto del linguaggio appartengono alla stessa categoria: quello che pensiamo e quello che diciamo sono cose dello stesso genere (Vendler,1970,p.143).

3.4 Classificazione degli atti linguistici
Austin, che per primo aveva proposto una classificazione illocutori sulla base dei verbi performativi distinse tra : atti verdittivi, esercitivi, commissivi, espositivi e comportativi.
1) Gli atti verdittivi esprimono in base a prove o ragioni un giudizio di valore o di fatto.
Verbi di questa categoria sono, per esempio, valutare, giudicare, descrivere, analizzare, ecc.
2) Gli atti esercitivi esprimono una decisione pro o contro una linea d'azione e tendono a dirigere il comportamento del destinatario.
é il caso di verbi come ordinare, comandare, dare istruzioni, vietare,ecc.
3) Gli atti commissivi impegnano il parlante ad una certa linea d'azione.
é il caso di verbi come promettere, giurare, garantire, ecc.
4) Gli atti espositivi servono ad esprimere i propri punti di vista, le proprie argomentazioni e a chiarificare l'uso o il riferimento delle parole.
é il caso di verbi come affermare, negare, accettare, classificare, ecc.
5) Gli atti comportativi esprimono le reazioni del parlante a comportamenti od atteggiamenti appena passati o immediatamente futuri degli altri.
é il caso di verbi come chiedere scusa, ringraziare, maledire, ecc.
Searle critica la tassonomia di Austin sostenendo che essa non è costruita in base a principi chiari, tanto che si fa confusione tra verbi illocutori e atti illocutori; (non tutti i verbi sono verbi illocutori) che vi sono sovrapposizione tra le classi di verbi e troppa eterogeneità al loro interno, molti dei verbi elencati in una categoria non soddisfano alla definizione che di essa si da, e non c'è alcun coerente principio di classificazione (Searle,1979).
Searle pone come criterio centrale della sua classificazione il concetto di scopo illocutorio.Lo scopo illocutorio è parte integrante della forza illocutoria, ma ne è distinto. Per esempio, richiesta e comando hanno lo stesso scopo illocutorio, cioè il far fare qualcosa al destinatario ma la loro forza è diversa.
Anche Searle propone cinque categorie di atti illocutori:
1) rappresentativi: caratterizzati dallo scopo illocutorio di impegnare il parlante alla verità della proposizione espressa (asserire, concludere, ecc.).
2) direttivi: il cui scopo illocutorio consiste nel far fare qualcosa all'interlocutore (richiedere, domandare, ecc.)
3) commissivi: come Austin, che impegnano il parlante a fare qualcosa nel futuro (promettre, minacciare, offrire, ecc. )
4) espressivi: il loro scopo illocutorio coincide con l'espressione dello stato psicologico relativo al contenuto proposizionale (scusarsi, ringraziare, ecc.)
5) dichiarativi: il loro contenuto proposizionale coincide con uno stato del mondo, questi verbi provocano cambiamenti immediati nello stato di cose istituzionale (scomunicare, battezzare, ecc.).
La tipologia searliana non è costruita sistematicamente, mancano infatti, altri tipi di atti linguistici: gli atti indiretti, ossia quelli in cui la forza illocutoria, lo scopo, non è esplicito, ma deve essere inferito dal contesto. Inoltre la teoria di Searle, focalizzando l'attenzione sulle intenzioni del parlante, non tiene conto delle interazioni tra parlante ed ascoltatore, accantonando quindi il processo di negoziazione tra parlante ed ascoltatore e rendendo passivo il ruolo dell'ascoltatore.
Fu Grice, con la sua teoria delle implicature conversazionali, a modificare i limiti della teoria searliana, affermando che è possibile trarre da un dato enunciato un certo numero di inferenze o implicature.

4. Grice : il principio di Cooperazione e le implicature conversazionali

Come Austin, anche H. Paul Grice ebbe l'onore di essere invitato, nel 1967, a tenere le William James Lectures. Pubblicate con il titolo "Logica e conversazione" nel 1975 esse furono ripubblicate assieme ad altri saggi di Grice nel volume Studies in the Ways of Words"(tradotto in italiano con il titolo delle lezioni, cioè Logica e conversazione).
Tali lezioni si situano all'interno di un intenso dibattito sulla logica. I connettivi della logica formale di cui hanno parlato Frege, Russell, Wittgenstein e i logici dopo di loro non corrispondono esattamente all'uso del linguaggio quotidiano.
I vari "o", "se...allora", "se e solo se", ecc. hanno un uso in logica determinato in modo del tutto rigoroso, che non sempre corrisponde all'uso comune.
La proposta di Grice è che le regole della logica sono corrette così come sono; solo che esse da sole non bastano a spiegare il funzionamento della conversazione, che segue regole di livello superiore.
Grice fa notare innanzitutto che ogni dialogo è frutto di un lavoro di collaborazione fra due persone che si sono date uno scopo comune. Ogni atto linguistico è generato da un soggetto con l'intenzione che il suo interlocutore gli riconosca la volontà di indurre in lui determinati effetti illocutori e se ci riesce perlocutori. Il dialogo presenta inoltre un'evoluzione mutualmente condivisa che rende certe mosse accettabili in certi stadi della comunicazione e non in altri.
In ogni scambio linguistico i partecipanti non intervengono casualmente, irrispettosi di qualsiasi connessione logica con quanto è stato precedentemente detto, ma sembrano seguire una serie di regole ben precise, volte a rispettare quello che Grice (1975) chiama principio di cooperazione (pdc): «il tuo contributo alla conversazione sia tale quale è richiesto, allo stadio in cui avviene, dallo scopo o orientamento accettato dallo scambio linguistico in cui sei impegnato».
Le motivazioni per cui le persone quando parlano insieme sembrano rispettare tali regole sono secondo Grice molteplici. La prima, e più banale, è che la nostra esperienza ci insegna che, effettivamente, tutti seguono queste regole quando sono impegnati in una conversazione.
Si tratta di una semplice osservazione del dato empirico,la gente ha imparato a fare così da bambini e non ne hanno perso l'abitudine; e , in effetti staccarsi radicalmente da tale abitudine comporterebbe uno sforzo enorme. Per esempio, è molto più facile dire la verità che inventare le bugie.
Un'altra possibilità è quella di vedere la conversazione come una dei tanti fatti quasi-contrattuali, con i quali il discorso condivide determinate caratteristiche fondamentali: i partecipanti hanno in comune qualche scopo immediato (anche se quelli ultimi possono essere divergenti), i loro contributi devono essere reciprocamente dipendenti, la transazione deve continuare in maniera appropriata fino a quando ambedue le parti sono disposte a porvi termine. Le regole conversazionali, dunque, dovrebbero essere le regole implicite di questo contratto.
Ma mentre una tale base quasi-contrattuale può essere adatta in certi casi, ci sono altri tipi di scambio come (litigare e scrivere lettere) ai quali non è possibile applicare tale base.
Grice, dunque, sembra preferire un'altra argomentazione: «da chiunque abbia a cuore i fini centrali della conversazione/comunicazione (ad esempio, dare e ricevere informazioni, influenzare gli altri ed esserne influenzati) ci si deve aspettare un interesse, in circostanze adatte, a partecipare a scambi linguistici; i quali però potranno essere considerati vantaggiosi soltanto in base all'assunto che siano condotti in generale conformità al pdc e alle sue massime» (Grice,1975,p.207-208).
Affrontato questo primo problema possiamo ora vedere quali siano effettivamente queste regole conversazionali. Grice individua quattro categorie (Quantità, Qualità, Relazione, Modo), contenenti a loro volta le massime indispensabili per il rispetto del pdc. Analizziamole:
Quantità: riguarda la quantità di informazione da fornire e comprende due massime:
1. Da' un contributo tanto informativo quanto è richiesto (per gli scopi accettati dello scambio linguistico in corso)
2. Non dare un contributo più informativo di quanto è richiesto
Sotto la categoria della Qualità "tenta di dare un contributo che sia vero", sono comprese due massime più specifiche:
1. Non dire ciò che credi essere falso
2. Non dire ciò per cui non hai prove adeguate
Sotto la categoria della Relazione Grice colloca una massima sola cioè: "Sii pertinente".

Infine sotto la categoria del Modo; "Sii perspicuo", in particolare :
1. Evita l'oscurità di espressione
2. Evita l'ambiguità
3. Sii breve (evita la prolissità non necessaria)
4. Sii ordinato nell'espressione
Esistono, ovviamente, altre regole che governano il discorso (di cortesia, sociali, o morali, estetiche), ma quelle conversazionali hanno un ruolo speciale nell'assicurare che lo scambio di informazioni sia quanto più possibile efficiente.
Prima di affrontare il problema delle implicature conversazionali, bisogna fornire dei chiarimenti terminologici. Quando Grice usa il verbo dire fa riferimento a "ciò che qualcuno ha detto come strettamente relato al significato convenzionale delle parole (l'enunciato) che ha proferito"; nel caso in cui si abbiano più significati convenzionali possibili, l'individuazione precisa di ciò che è stato detto si baserà su fattori quali il momento del proferimento, la particolare situazione, ecc.
Implicare, invece, si riferisce a ciò che non viene direttamente detto, ma che in qualche modo ciò che è detto contribuisce a determinare. A questo verbo si ricollegano i termini implicatura (l'implicare, il dare a intendere qualcosa) e implicito (ciò che si implica, ciò che si dà a intendere).
Ora, esistono diversi modi di mancare alle regole conversazionali di cui sopra:
1. Si possono violare, senza però mostrarlo e, quindi, in determinate situazioni, cercando di ingannare l'interlocutore.
2. Si può uscire dal pdc, mostrando chiaramente che non si ha l'intenzione di cooperare.
3. Si può avere un conflitto fra diverse massime, per cui per rispettarne una se ne deve infrangere un'altra.
4. Ci si può burlare di una massima, cioè ostentare la mancata soddisfazione di questa.
In quest'ultimo caso (burlarsi di una massima) nell'interlocutore si origina un determinato ragionamento. Se infatti si ritiene che chi parla non abbia mancato alla massima per uno dei primi tre motivi (cioè perché voleva ingannare, o voleva rifiutare la cooperazione o, ancora, si trovava in una situazione di conflitto), ciò significa che ha voluto sottintendere qualcosa che non poteva dire direttamente: ha cioè sfruttato la massima per dare origine ad una implicatura conversazionale. Essa costituisce un impegno semantico aggiuntivo per andare oltre al significato letterale di un enunciato, in modo da individuare e capire in modo appropriato l'intenzione comunicativa del parlante (Grice,1975).

4.1 La reciprocità intenzionale
Grice (1975,1989) ha basato la sua analisi del significato e della conversazione sul concetto di reciprocità intenzionale. L'obiettivo comunicativo del parlante è quello di modificare l'ambiente cognitivo del destinatario. Pertanto, per avere successo, lo scambio comunicativo deve essere caratterizzato non soltanto dalla manifestazione di un'intenzione comunicativa da parte del parlante (meaning-intention) ma anche dal suo riconoscimento da parte del destinatario.

L'atto di riconoscimento implica un'attività consapevole e reciproca nonché la partecipazione del ricevente nell'elaborazione del significato, in quanto il significato medesimo è definito soltanto nel momento in cui il destinatario è in grado di riconoscere l'intenzione comunicativa del parlante. Questa condizione pone in evidenza che l'intervento del destinatario è altrettanto importante come quello del parlante.
Come condizione fondamentale per raggiungere questo scopo è richiesto un ambiente cognitivo reciprocamente riconosciuto, nel quale ogni intenzione manifesta lo è ad entrambi i partecipanti.Questa condizione favorisce un grado attendibile ed efficace di coordinazione fra gli individui per comunicare tra loro. L'idea del riconoscimento come atto di individuazione dell'intenzione comunicativa del parlante rientra in una concezione bidirezionale della comunicazione. In questo senso il destinatario svolge un'attività di interpretazione semantica dell'intenzione del parlante. E' ovvio che in questo compito il destinatario può compiere errori di eccesso o di difetto di interpretazione , poiché egli può aggiungere o sottrarre parti di significato nel processo di riconoscimento dell'intenzione comunicativa del parlante. Questa oscillazione semantica nell'interpretazione del destinatario pone bene in evidenza l'esistenza di uno scarto sistematico e rilevante fra l'intenzione del parlante e il suo riconoscimento da parte del destinatario.Ogni lettura della mente è sempre è soltanto indiretta, mediata da un sistema complesso e frammentato di indizi e di dispositivi comunicativi sia linguistici che extralinguistici (Anolli,2001).

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