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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICOTERAPIA
Area:Emozioni e Linguaggio nelle Narrative

Aspetti della ricerca sul dialogo in psicoanalisi (1)

di Francesco Carnaroli (2)



La psicoanalisi è una cura fatta di parole. Per un certo tempo, due persone si incontrano regolarmente, e fra di loro avviene un dialogo; proprio come avviene fra le persone nella vita quotidiana, le quali comunicano con se stesse e con gli altri attraverso la mediazione di segni: parole, discorsi. Se dunque vi è una specificità del dialogo psicoanalitico, essa si sviluppa come sofisticata specializzazione della forma ordinaria e tipicamente umana di comunicazione.
Indipendentemente dal fatto che l'analista sia coinvolto o distaccato, di poche o di molte parole, fra i due partner avviene un dialogo.
Questa è la più banale delle constatazioni: e tuttavia, se la psicoanalisi, che ha un secolo di vita, ha affrontato solo in tempi relativamente recenti la totalità del dialogo analitico come oggetto d'indagine, deve esserci stata, al riguardo, qualche difficoltà interna alla teoria psicoanalitica o al suo originario impianto epistemologico.
La differenza che, sul tema del dialogo analitico, si presenta fra tanta parte della psicoanalisi contemporanea e la posizione di Freud è sinteticamente espressa da Andreina Robutti nell'introdurre un volume collettivo del 1992: la psicoanalisi è intesa "come incontro fra due persone che si impegnano in una relazione dalla quale si attendono sviluppi creativi"; c'è "un rivolgere l'attenzione verso entrambi i membri della coppia, e la relazione che si svolge fra di loro diviene il vero 'oggetto' della comune ricerca". Questa impostazione si differenzia da quella di Freud secondo la quale l'analista "osserva il paziente e lo disvela a se stesso, combattendo a volte strenuamente contro le sue difese e resistenze"(3).

1. FREUD E IL DIALOGO ANALITICO
Freud costruisce ed usa clinicamente modelli teorici esplicativi dell'apparato psichico. Tuttavia, se il rapporto terapeutico è descritto aderendo all'esperienza fenomenica che se ne ha, esso è ben più complesso dell'asettica applicazione di modelli esplicativi. Le storie cliniche, quando vengono riformulate per comunicare con terzi, e cioè con la comunità scientifica, "si leggono - nota Freud - come novelle" e sono, "per così dire, prive dell'impronta rigorosa della scientificità". Freud riconosce che l'analista, nel comprendere il paziente (e nel descrivere questa comprensione a terzi), utilizza strumenti interpretativi di tipo misto: da un lato i materiali presentati dal paziente sono organizzati con "poche formule psicologiche" (fornite dall'impalcatura teorica dell'analista), dall'altro viene fornita "una rappresentazione particolareggiata dei processi psichici, quale in genere ci è data dagli scrittori"(4).
Ma il Freud scienziato e quello narratore sono in conflitto. L'analista-narratore sa che, nel rielaborare il discorso altrui, fa qualcosa su quel discorso, gli presta nuova vita, nuovo senso. Restituisce alla parola - dice Freud - "almeno una parte della sua primitiva forza magica"(5). E' consapevole che le parole si sviluppano sulla base della matrice originaria dell'azione, e sono esse stesse "azioni attenuate", costituendo "la via attraverso la quale possiamo influire sul nostro prossimo"(6).
D'altra parte, nella misura in cui Freud è impegnato a dare alla psicoanalisi "l'impronta rigorosa della scientificità", lo fa nel quadro dell'epistemologia positivista del suo tempo. Da tale punto di vista, perché la psicoanalisi possa definirsi come scienza sono indispensabili tre requisiti:
il primo, che nella stanza di analisi ci sia una netta distinzione fra soggetto osservatore e oggetto osservato. Freud pensa che perché vi sia indagine scientifica l'oggetto osservato non debba ricevere interferenze da parte del soggetto osservatore; perciò tale assenza di interferenze viene postulata.
Il primo requisito è funzionale a salvaguardare il secondo, che possiamo chiamare postulato della conoscenza oggettiva dell'inconscio, secondo il quale è possibile un accumulo progressivo di conoscenze scientifiche sull'Inconscio, inteso come oggetto con caratteristiche invarianti.
Infine il terzo requisito è costituito da una concezione del linguaggio anch'essa funzionale all'ipotesi della conoscibilità oggettiva dell'inconscio. Lo possiamo chiamare postulato della rappresentazione diretta: fra l'oggetto osservato e la rappresentazione di esso che si forma nella mente dell'osservatore non vi deve essere alcuna interferenza, alcuna mediazione. Data una rappresentazione, c'è poi una parola che ad essa si può aggiungere, come un'etichetta rispecchiante. Freud accetta cioè la teoria associazionistica del linguaggio. Essa garantisce la neutralità del linguaggio rispetto al rapporto fra le rappresentazioni e gli oggetti.

1a. L'OSSERVATORE NON INFLUENZA L'OGGETTO OSSERVATO
Cominciamo col prendere in considerazione il primo aspetto, considerando la caratterizzazione che Freud dà del dialogo analitico: in esso vi sono - egli dice - "due elementi completamente diversi", "due scenari separati". Da una parte c'è l'analizzato, che deve essere indotto a ricordare "qualcosa che egli stesso ha vissuto e rimosso; [...] le condizioni dinamiche di questo processo sono talmente interessanti che in compenso l'altra parte del lavoro, la prestazione dell'analista, è stata spinta in secondo piano". Il compito dell'analista è invece quello di "scoprire, o per essere più esatti costruire il materiale dimenticato a partire dalle tracce che di esso sono rimaste". Un po' come il lavoro di "ricostruzione" compiuto dall'"archeologo che dissotterra una città distrutta e sepolta o un antico edificio"(7).
Per separare nettamente osservatore e osservato, analista e paziente, Freud è costretto in un certo senso ha idealizzare il primo e a penalizzare il secondo.
Nell'analista viene riconosciuta la capacità di entrare in contatto con l'inconscio dell'altro mediante il proprio inconscio. Il proprio inconscio è un organo ricevente rivolto all'inconscio dell'altro al di là delle sue espressioni esplicite, manifeste(8). La mente dell'analista dovrà essere libera da conflitti, da resistenze, da "macchie cieche", cosicché la percezione inconscia dell'altro possa compiere l'intero suo cammino spontaneo verso la coscienza. "L'inconscio - dice Freud - è una fase normale e inevitabile nei processi che costituiscono il fondamento della nostra attività psichica; ogni atto psichico inizia come inconscio, e può o rimaner tale o procedere nel suo sviluppo fino alla coscienza; questo, a seconda ch'esso incontri o meno la resistenza. La distinzione tra attività preconscia e inconscia non è dunque primaria, ma si instaura soltanto dopo che è entrata in gioco la 'difesa'"(9). L'analista, dunque, dovrà continuamente operare perché la strada fra l'Inconscio e la coscienza sia libera, sviluppando la propria capacità di porgere attenzione ai segnali che emergono in quella zona di snodo che è l'attività preconscia. Questa capacità è favorita da un ascolto caratterizzato dall'attenzione fluttuante, dal non farsi ostruire la mente da ipotesi preconcette. Per leggere la mente dell'altro, l'analista deve essere in grado di leggere la propria mente, essere in grado di ascoltarsi, costantemente costruendo e allargando le vie di comunicazione col proprio inconscio.
Invece, quando Freud descrive le comunicazioni del paziente, le caratterizza, in modo unilaterale e direi penalizzante, come espressione di derivati sintomatici di contenuti inconsci rispetto ai quali sono all'opera meccanismi difensivi. Il che è vero, ma parziale. In sostanza, Freud non riconosce un aspetto simmetrico della relazione analitica, consistente nel fatto che, così come l'inconscio dell'analista è in contatto con quello del paziente, anche l'inconscio del paziente è in contatto con quello dell'analista.
Nella cornice epistemologica di Freud, il campo di indagine deve essere preservato dall'influenza dell'osservatore: quindi costituirebbe un problema il riconoscere che il paziente è "interprete dell'esperienza dell'analista"(10), e che quindi l'oggetto di indagine è costantemente influenzato dal proprio interpretare l'osservatore che lo interpreta. L'analista - secondo Freud - non deve essere una persona osservabile e interpretabile dal paziente: deve essere bensì una presenza invisibile, una funzione che nomina nodi psichici, sciogliendoli.

1b. POSTULATO DELLA CONOSCENZA OGGETTIVA DELL'INCONSCIO
Prendiamo ora in considerazione il postulato della conoscenza oggettiva dell'Inconscio, inteso come oggetto psicobiologico con sue caratteristiche strutturali fisse, indipendenti da ogni influsso storico. Tale oggetto riceverà una definizione scientifica progressivamente più completa, che deve essere considerata indenne dall'influenza del punto di vista dell'osservatore. Vi sono - afferma Freud nel Caso clinico dell'Uomo dei Lupi, degli "schemi filogenetici innati", simili alle categorie trascendentali kantiane, che "presiedono alla classificazione delle impressioni che derivano dall'esperienza"; il più noto di essi è il complesso edipico. Vi è dunque un "nucleo dell'inconscio, una sorta di attività mentale primitiva, che in seguito verrebbe detronizzata e sommersa dall'avvento della ragione umana, ma che assai spesso e forse sempre conserverebbe la forza di attrarre a sé processi psichici più elevati". Vi è insomma, anche nel caso dell'uomo, un'"analogia con l'esteso sapere istintivo degli animali"(11).
Nel paziente, fra le spinte dell'Inconscio e la loro rappresentazione cosciente si sono frapposti filtri deformanti difensivi. Lo psicoanalista è in grado - secondo Freud - di compiere il percorso inverso, interpretando a ritroso il collegamento fra le espressioni verbali del paziente e la rete delle sue rappresentazioni inconsce. La soluzione dei conflitti e il superamento delle resistenze del paziente "riesce - dice Freud - solo se gli sono state date quelle rappresentazioni anticipatorie che concordano con la realtà che è in lui"(12).
Attraverso l'analisi si rafforzano i processi secondari del paziente, egli diventa più in grado di legare i propri processi psichici nel pensare. Grazie a questa maggiore forza, l'Io va ora a sondare attivamente i processi psichici, per poter costruire le proprie azioni sulla base di una visione integrata di sé. Lo scopo dell'analista è - insomma - il ricostituire un'alleanza fra l'Io del paziente e i suoi processi inconsci, abbinata a un più maturo esame di realtà.
In Introduzione alla Psicoanalisi. Nuova serie di lezioni (1932) Freud dice che lo scopo degli sforzi terapeutici "è in definitiva di rafforzare l'Io [del paziente], di renderlo più indipendente dal Super-io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione, così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es, deve subentrare l'Io. E' un'opera di civiltà, come ad esempio il prosciugamento dello Zuiderzee"(13).
Va notato che, in questo passaggio, Freud afferma che vi è la possibilità non solo di aumentare la capacità ricettiva di dare una forma ai contenuti inconsci emergenti, ma addirittura di insediare l'Io cosciente dove era l'inconscio: laddove si prosciuga, il mare non c'è proprio più. Non è soltanto una metafora, e Freud sembra spesso credere alla fattibilità della conquista scientifica definitiva dell'Inconscio. Egli infatti afferma che il metodo dell'attenzione fluttuante e dell'abbandonarsi alla propria 'memoria inconscia', rimandando a un momento successivo la riflessione scientifica, "non avrebbe senso se fossimo già in possesso di tutte le cognizioni, o perlomeno di quelle essenziali, sulla psicologia dell'inconscio e sulla struttura delle nevrosi"(14). Vi sarebbe dunque una profonda realtà psicobiologica umana, che può essere progressivamente conosciuta dalla ricerca scientifica psicoanalitica. Tale realtà psichica inconscia sarebbe la stessa nella società contemporanea, nell'orda primitiva, ai tempi di Mosè, o fra gli spettatori della Grecia antica che assistevano alle rappresentazioni dell'Edipo Re(15).

1c. POSTULATO DELLA RAPPRESENTAZIONE DIRETTA
Veniamo ora a quello che ho chiamato il postulato della rappresentazione diretta. La teoria del linguaggio di Freud deve sostenere l'ipotesi che l'analista, con le sue interpretazioni, possa raffigurare, in modo neutrale e oggettivo, la realtà psichica del paziente. Le parole e i discorsi devono poter essere uno specchio neutrale, un'etichetta posta su oggetti mentali già formati, strutturati, precostituiti. Mi pare che sia proprio questa esigenza a far sì che Freud scelga, fra le varie teorie del linguaggio disponibili nella sua epoca, la teoria associazionistica del rapporto fra rappresentazione di parola e rappresentazione di cosa, formulata da John Stuart Mill(16). Il concetto di rappresentazione in Mill prosegue una tradizione di pensiero che parte da Cartesio e passa per Locke, secondo cui la rappresentazione è un'entità elementare che ha sede nella mente e che rappresenta l'oggetto corrispondente nel mondo reale(17). Le rappresentazioni sono già strutturate prima di essere nominate. Già nel Progetto, si vede come Freud intenda la percezione e il pensiero come se essi fossero strutturati allo stesso modo del linguaggio, e quest'ultimo non fosse che un calco. La percezione e poi il pensiero si organizzerebbero secondo strutture sintattiche, per cui i fasci percettivi sarebbero suddivisi in "cosa" (o soggetto) e predicati della cosa(18). I processi psichici sono di per sé inconsci, e possono diventare coscienti solo se vengono connessi con tracce di percezioni esterne. Infatti, a parte i sentimenti, solo le percezioni esterne sono coscienti(19). Le tracce mnestiche della percezione divengono così i segni, i rappresentanti dei processi psichici. Se un evento psichico è stato associato a una percezione, esso diventa preconscio, cioè suscettibile di essere recuperato dalla coscienza se ad esso si volge l'attenzione(20). Non c'è un'interazione, un processo bidirezionale, dai processi psichici ai segni che li rappresentano e viceversa. C'è invece un movimento unidirezionale, espressivo, un vero e proprio transfert(21). Il transfert espressivo può essere effettuato sulle tracce mnestiche di ogni modalità percettiva; per esempio possono essere usate tracce visive, immagini. Tuttavia le tracce acustiche costituiscono il mezzo espressivo privilegiato. "L'Io - dice Freud - porta un 'berretto auditivo', il quale, secondo quanto ci attesta l'anatomia del cervello, si trova da una parte soltanto"(22).
Il bambino ha una sensazione dolorosa e grida, e il proprio grido è una percezione esterna, acustica; il grido esprime il dolore, ed è associato ad esso. "Questa associazione è quindi un mezzo per rendere i ricordi che producono dispiacere coscienti e oggetto di attenzione: la prima categoria di ricordi coscienti è stata così creata"(23). Il bambino inoltre è impegnato a imitare le espressioni vocali di chi si prende cura di lui. Per questa via egli apprende la parola, che - dice Freud - "è essenzialmente il residuo mnestico di una parola udita"(24). Il linguaggio verbale è il più potente strumento di rappresentazione, per via della sua capacità di descrivere finemente la relazione fra i contenuti. Le parole sono associate - dice Freud - ai "rispettivi"(25) contenuti psichici, rendendoli disponibili per il pensiero cosciente.
Ciò che il collegamento con la parola aggiunge a tali contenuti è, dunque, che essi diventano preconsci anziché rimanere inconsci.

2. FORMAZIONE DELL'IO E RELAZIONI OGGETTUALI IN FREUD
Ogni eventuale opacità e deformazione nel rapporto fra la parola (o altro tipo di segno) e il contenuto scaturisce dal frapporsi di risposte difensive, che creano fratture e deviazioni nel percorso diretto, lineare e letterale dal contenuto al segno che lo esprime. Queste risposte difensive originano nell'Io, e costituiscono la sua reazione al contenuto, se esso gli provoca dolore, angoscia.
Ma come si caratterizza la genesi di questo Io che ha le parole per dire, ma ha anche la capacità di interdire? Chi è che parla, o tace? L'Io capace di coscienza attraverso il linguaggio da un lato è una funzione del cervello (vedi il riferimento al "berretto auditivo" collocabile nell'emisfero sinistro), dall'altro trae il materiale che utilizza per funzionare dalla realtà esterna (vedi il riferimento alla parola come residuo mnestico della parola udita).
Il primo nucleo dell'Io è costituito da un sentire, un percepire cosciente. In esso non ci sono ancora processi secondari che legano le energie, che sono in grado di inibire i processi primari, per cui esso è costituito da un'area di transito delle cariche energetiche sulla via dell'azione. Esso è coscienza, inerme e passiva, delle qualità psichiche (piacere e dolore). Le prime espressioni vocali del neonato sono i suoi urli e i suoi pianti, che sono - dice Freud - una "valvola di sicurezza", una "via di scarica" che gli permette di "regolare" le tensioni interne(26). Ecco, questo è per Freud il primo prototipo dei processi difensivi, il primo tipo di atto che viene compiuto per evitare il dolore. E' qualcosa che scaturisce autonomamente all'interno dell'apparato psichico, è insomma un fatto totalmente intrapsichico. C'è un percepire tensione dolorosa, e un liberarsi del contenuto che la provoca. Vi è un Io debole e immaturo che subisce l'assalto dei bisogni e delle pulsioni, che non è ancora preparato a gestire. L'Io sente dolore, e vi reagisce facendo qualcosa per non percepire più i contenuti che glielo provocano. Questa prima modalità difensiva, cioè il diminuire la tensione tramite la sua espulsione motoria, fonda la comunicazione intersoggettiva. Il neonato non sa di comunicare, è portato soltanto a scaricare la tensione; ma di fatto - dice Freud - la sua azione "acquista una funziona secondaria in quanto serve ad attirare l'attenzione della persona cooperatrice [...] sui desideri e il disagio del bambino; serve perciò allo scopo di condurre all'intendersi". Per questa via, la reazione motoria del bambino assume una nuova funzione: non più soltanto quella di scarica, ma anche - dice Freud - quella di "azione specifica" comunicativa(27). Il bambino riceve, in risposta, l'accudimento e i discorsi della madre.
La natura delle difese nei confronti dei contenuti psichici varia a seconda del livello di sviluppo dell'Io. In una fase successiva di sviluppo l'Io, ormai caratterizzato da processi secondari che investono stabilmente un'area di rappresentazioni coerenti e organizzate, è in grado di attuare sul contenuto psichico spiacevole la rimozione, e cioè un controinvestimento che trattiene il contenuto nell'Inconscio. La rimozione rende il contenuto invisibile, non percepibile da altre persone, se non attraverso le sue manifestazioni deformate. Queste ultime scaturiscono dal fatto che i contenuti rimossi mantengono comunque la loro carica energetica, e spingono verso l'espressione, trovandola in "rappresentazioni innocenti"(28), e cioè accettabili per l'Io.
Ma come è avvenuto lo sviluppo dei processi secondari? E' solo un fatto di maturazione, o è stimolato dalla relazione? Per quanto riguarda il gruppo di rappresentazioni coerenti e organizzate che compongono l'unità dell'Io, in che misura e a partire da quando sono influenzate dall'esterno? Il che ci porta a un'altra domanda: secondo Freud, quanto è in grado l'Io del neonato di percepire la madre, che gli risponde accudendolo e parlandogli?
Vanno qui distinte due questioni separate. Una è quanto il bambino è in grado di percepire la madre, interagire con lei, subirne l'influsso e rendersi conto del proprio potere di influenzarla (attraverso "azioni specifiche"). L'altra è quando il bambino arrivi a percepire se stesso come soggetto separato, con confini ben delimitati, e a percepire la madre come un altro soggetto.
E' chiaro che un soggetto può avere una intensa comunicazione con un altro, senza però avere una chiara percezione dei confini che li separano.
La posizione di Freud, al riguardo, sembra aperta, anche se la sua posizione - diciamo - canonica è che il neonato è chiuso autisticamente in un narcisismo primario, in cui tutto l'investimento libidico è sull'Io(29). Secondo tale punto di vista, l'interesse per l'altro emerge solo lentamente, per appoggio(30) sul bisogno, in quanto il bambino è costretto a riconoscere che il reale (non allucinatorio) soddisfacimento del bisogno proviene da una fonte che è esterna a lui. Questa è una posizione secondo cui inizialmente non solo non vi è coscienza dei confini che separano il proprio Io dall'altro, ma vi è anche disinteresse verso l'altro, non c'è investimento sulla percezione di esso, non c'è attenzione. Tuttavia nel pensiero di Freud, stimolato in particolare da domande intorno al processo di formazione dell'Io, vi è un progressivo spostamento in direzione di quella che sarà la teoria delle relazioni oggettuali. In Il Disagio della Civiltà (1929) Freud afferma che il "sentimento oceanico" - quel sentimento di indissolubile legame, di stretta appartenza al mondo esterno nel suo insieme, di cui aveva parlato Romain Rolland - "potrebbe dirsi volto alla restaurazione - dice Freud - di un illimitato narcisismo"(31). Ma qui il termine narcisismo ha evidentemente subìto, ormai, uno spostamento di significato, e si riferisce a una intensa relazione in cui non vi sono confini netti fra sé e l'altro. E' insomma l'inizio della moderna accezione delle relazioni narcisistiche come rapporti con oggetti-sé(32). Dice Freud: "Il nostro presente senso dell'Io - dice Freud - è [...] soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell'Io con l'ambiente"(33). Qui Freud sta di fatto descrivendo un noi primario, che precede la delimitazione del proprio Io dagli altri Io.
In questa comunione primaria, l'investimento oggettuale e l'identificazione - dice Freud - non sono distinguibili l'uno dall'altra(34). La forma più originaria di legame emotivo con un oggetto è, quindi, l'identificazione(35). L'Io introietta oggetti e comincia ad essere abitato da componenti, derivate dal rapporto coi genitori, che Freud chiama ideale dell'Io e Super-io. Ma d'altra parte Freud giunge anche a dire che queste componenti costituiscono il nucleo dell'Io stesso(36).
L'Io, allora, appena comincia a strutturarsi come organizzazione di rappresentazioni stabili governate dai primi abbozzi del processo secondario, è profondamente influenzato dalla relazione, nella quale i contenuti psichici hanno accesso e sono espressi in parole, o sono esplicitamente ripudiati, oppure sono semplicemente ignorati e rimangono muti. Il bambino non solo introietta la parola dell'altro che corrisponde al proprio contenuto psichico, ma introietta anche il punto di vista dell'altro, il rapporto che l'altro ha coi propri contenuti psichici. L'intera personalità dei genitori si insedia nell'Io del bambino, e la stessa cosa era accaduta all'Io dei genitori, quando erano bambini, rispetto alla personalità dei propri genitori. Osserva Freud: "Di solito i genitori e le autorità analoghe seguono, nell'educazione del bambino, i precetti del proprio Super-io. [...]. Così, in realtà, il Super-io del bambino non viene costruito secondo il modello dei genitori, ma su quello del loro Super-io; si riempie dello stesso contenuto, diventa il veicolo della tradizione, di tutti i giudizi di valore imperituri che per questa via si sono trasmessi di generazione in generazione. [...]. L'umanità non vive interamente nel presente: il passato, la tradizione della razza e quella del popolo, che solo lentamente cedono alle influenze del presente, a nuovi cambiamenti, sopravvivono nelle ideologie del Super-io e, finché agiscono per mezzo di esso, hanno nella vita umana una parte possente"(37).
La madre che osserva il bambino viene a fare parte degli stati psichici del bambino. Nelle risposte del bambino la madre potrebbe osservare - se fosse consapevole dell'intero campo - anche la presenza di se stessa. Ma non potrebbe comunque osservare l'intero campo, perché parte di ciò che gli ha trasmesso è inconscio anche per lei, non fa parte della sua coscienza discorsiva. E poiché la comunicazione e l'assimilazione di ampi brani di Io e di Super-io sono di fatto inconsce, ne consegue quanto Freud è arrivato a constatare, e cioè che buona parte dell'Io e del Super-io sono per lo più destinati a rimanere inconsci anche negli adulti(38).
Ci troviamo a parlare non di una situazione dove esiste un soggetto osservatore e un oggetto osservato, ma di un processo circolare, dove l'osservatore contribuisce letteralmente a costruire l'oggetto osservato. In questa prospettiva si muove la psicoanalisi contemporanea. Modell (1993) afferma che "il sé contiene, in se stesso, sia il soggetto [Io] che l'oggetto [Me]. [...]. Il comportamento del sé verso se stesso rispecchia in ogni modo concepibile le esperienze in cui il sé è un oggetto per gli altri"(39). Fonagy e Target (2001) affermano che "il bambino [...] identifica nella risposta del caregiver una rappresentazione del proprio stato mentale, che potrebbe interiorizzare e usare come parte di una strategia di livello superiore di regolazione degli stati emotivi"(40). In tal modo il bambino, interiorizzando la "funzione riflessiva" della madre, apprende a organizzare l'esperienza del proprio e altrui comportamento in termini di stati della mente(41).
Se questo è vero nel rapporto fra bambino e madre, è inevitabilmente vero anche nel rapporto fra paziente e analista. Questo, però, non è ammissibile dalla cornice epistemologica entro cui Freud effettua la sua costruzione scientifica.

3. FREUD E LIPPS SULL'EMPATIA
Un altro nucleo del pensiero di Freud a cui possiamo ricollegarci nel sostenere la concezione del costituirsi intersoggettivo dell'Io è costituito dal suo rilevare come l'empatia - ossia il contatto con l'inconscio dell'altro - sia all'origine dei legami di appartenenza gruppale. Abbiamo visto che Freud afferma che l'analista rivolge il proprio inconscio come un organo ricevente verso l'inconscio dell'altro. Ci sono due brani in cui Freud afferma chiaramente che questa è una capacità umana e non specificamente analitica; il primo è in Totem e tabù (1912-13): "La psicoanalisi ci ha [...] insegnato che ogni uomo possiede nella sua attività psichica inconscia un apparato che gli consente di interpretare le reazioni di altri uomini, ossia di far recedere le deformazioni che l'altro ha imposto all'espressione dei propri impulsi emotivi"(42). Il secondo brano si trova in Psicologia delle Masse e analisi dell'Io: qui Freud usa il termine 'empatia'(43) per riferirsi alla capacità che "ci permette di intendere l'Io estraneo di altre persone"(44): ad essa si giunge, dice Freud, attraverso l'identificazione, cioè l'introiezione dell'oggetto nell'Io, passando per l'imitazione. Freud nota due aspetti connessi alla percezione empatica: "una delle sue conseguenze è che l'aggressività nei confronti della persona con cui ci si è identificati soggiace a una limitazione e che tale persona viene risparmiata ed aiutata". Inoltre, queste identificazioni "stanno a fondamento dello spirito di clan"(45).
Il primo autore che ha studiato l'empatia dal punto di vista esperienziale/fenomenologico, è stato Theodor Lipps, la cui opera era conosciuta da Freud(46). Egli osservò che quanto più intensa è l'attenzione rivolta all'altro, quanto maggiore è la dedizione che gli dedichiamo, e tanto più potente è la risposta percettiva, emotiva e motoria che egli evoca in noi. Lipps distingueva fra un'empatia positiva e un'empatia negativa: la prima si avrebbe quando la risposta che sentiamo irrompere in noi ci dà un senso di vitalità perché corrisponde al nostro bisogno di autoesplicazione - insomma, come se contribuisse a un senso di pienezza vitale del sé; e allora si tende ad assecondare questa attività di risposta, senza interni ostacoli e frizioni. Per esempio, empatia positiva si ha nell'esperienza estetica, tutte le volte che una certa reazione che ci si impone, che fa irruzione in noi, è al tempo stesso gradevolmente accettata da noi, perché sentiamo che essa aumenta in noi un senso vitale di autoesplicazione - così lo chiama Lipps. Empatia negativa si avrebbe invece quando sentiamo, con dispiacere, una frizione, un conflitto, una discordanza fra l'attività evocata in noi e il nostro impulso all'autoesplicazione. In questo caso sentiamo che fa irruzione dentro di noi, con la forza, un'esigenza impostaci da qualcosa di nemico. In entrambi i casi, comunque, la nostra attività di risposta la percepiamo come un'attività che ci è richiesta dall'altro(47). Lipps descrive un fatto dell'interazione umana, in termini che potremmo definire etologici: "Noi non sappiamo come e perché accada che la vista di un volto ridente, ossia dei mutamenti nei tratti del volto, principalmente negli occhi e nella bocca, che chiamiamo con il termine di 'volto ridente', comporti la 'richiesta' e lo stimolo, per chi guarda, a sentirsi anche lui lieto e felice; ad assumere interiormente l'atteggiamento descritto in queste parole, o ad abbandonarsi con tutto il suo essere intimo a questo tipo di attività e di esplicazione di sé. Ma il fatto sussiste"(48).
Il processo che viene descritto è dunque il seguente: si ha la riproduzione imitativa delle manifestazioni corporee altrui; questo nostro comportamento suscita in noi le emozioni che solitamente ad esso si accompagnano: e in tal modo ci poniamo nello stato emotivo della persona cui quelle manifestazioni appartengono. Per questa via ci sarebbe data l'esperienza vissuta altrui.

4. NEURONI SPECCHIO
A questa capacità empatica, o di percepire l'altrui inconscio col proprio, è stato recentemente dato un fondamento biologico, da un'équipe di neurobiologi italiani guidata dal prof. Rizzolatti. Mi riferisco ai "neuroni specchio", che si trovano in una sezione della corteccia pre-motoria. Quando vediamo qualcuno che compie un'azione, vi è in noi un'attivazione dei circuiti neuronali motori che si attivano quando noi stessi attuiamo quella azione. Come ha notato Gallese - che è uno dei collaboratori di Rizzolatti - (2001): "L'azione osservata produce nella corteccia premotoria dell'osservatore un modello di attivazione somigliante a quello che avviene quando l'osservatore esegue attivamente la stessa azione. [...]. Anche se noi non riproduciamo di fatto l'azione osservata, tuttavia il nostro sistema motorio diviene attivo come se noi stessimo eseguendo esattamente quella stessa azione che stiamo osservando. [...] L'osservazione dell'azione implica la simulazione dell'azione"(49). L'attività dei neuroni specchio costruisce modelli senso-motori del comportamento altrui, che viene 'compreso' "come un'azione, con l'aiuto di un'equivalenza motoria fra ciò che gli altri fanno e ciò che l'osservatore fa"(50). Inoltre, il sistema neurale senso-motorio e quello emotivo sono fra di loro coordinati. Ad esempio, fenomeni "a specchio" avvengono nei neuroni connessi al dolore (nella corteccia cingolata): gli stessi neuroni infatti si attivano sia se il soggetto riceve uno stimolo doloroso sulla mano, sia se egli vede tale stimolo applicato sulla mano dell'esaminatore.
Viene in tal modo descritta una modalità pre-simbolica di rappresentarsi l'azione dell'altro e di sintonizzarsi con essa. Ci sintonizziamo con gli stati mentali dell'altro prima di avere una "teoria della mente" riguardo ad essi(51).
Ci troviamo dunque di fronte a una capacità umana che rende possibile la sintonizzazione intersoggettiva (Stern, 1985).

5. L'EMERGERE INTERSOGGETTIVO DEL SE' E DEI SIGNIFICATI
Ormai disponiamo di moltissimi risultati dell'infant research che ci mostrano come il neonato sia orientato fin dall'inizio a stabilire e a mantenere un contatto emotivo con la madre. Egli ha una specifica competenza in questo senso, prima ancora che si sviluppi in lui la capacità di esplorare gli oggetti con le mani. Secondo Bruner (1972; 1983), proprio lo specifico modello umano di immaturità, caratterizzato da una prolungata dipendenza, ha favorito lo sviluppo della disponibilità attenzionale nei confronti del comportamento degli adulti(52). C'è innanzitutto un bisogno di comunicare, proprio perché, per un prolungato periodo, "il principale 'strumento' del bambino per raggiungere i suoi fini è costituito da un altro essere umano familiare"(53). Trevarthen afferma: "Sono sicuro che un neonato conosca e riesca a entrare in contatto empatico con le emozioni della mamma perché è in grado di mappare anche il corpo di lei. Attraverso il medesimo principio di mappatura intersoggettiva, la madre è evidentemente empatica nei confronti delle emozioni che il corpo del bambino, ritmicamente mobile, esprime. La reciproca regolazione di bambini e adulti per mezzo delle emozioni nel corso della comunicazione rende possibile l'ordinato sviluppo dell'autocoscienza"(54).
Come sosteneva Vygotskij, la coscienza del bambino nella primissima infanzia è coscienza di un "grande noi", di una "indivisibile comunicazione mentale"(55). "Non una socializzazione progressiva, apportata al bambino dall'esterno, ma una individualizzazione progressiva, nata sulla base della socialità interna del bambino, è il tratto principale dello sviluppo infantile"(56).
Il neonato è immerso in una percezione motoria, imitativa. Come ha osservato Gaddini (1968)(57), "nelle prime settimane di vita il bambino percepisce modificando il proprio corpo in relazione allo stimolo". Le caratteristiche dell'altro vengono riprodotte in una duplicazione autoplastica. Da queste percezioni imitative avrebbero origine le prime identificazioni, le quali costituiscono, osserva Gaddini, "i primi elementi del processo secondario"(58).
Meltzoff (1983; Meltzoff e Moore, 1999), con le sue osservazioni videoregistrate, ci ha messo di fronte all'evidenza che il neonato, fin dalle prime ore di vita, imita i gesti facciali delle persone che si prendono cura di lui. E' una traduzione transmodale: il bambino non sa ancora niente del proprio volto, ma agisce ciò che vede. Ed è un'imitazione che avviene solo rispetto a persone, non è suscitata da oggetti inanimati. L'imitazione lascia tracce in memoria, dando luogo all'imitazione differita, che riproduce un evento assente. Queste sequenze di percezione, azione e memoria creano "classi di equivalenza" fra le azioni proprie e quelle altrui, e ciò ha un significato fondamentale - nota ancora Meltzoff - "per i successivi sviluppi dell'intersoggettività, della comunicazione e per la cognizione sociale"(59).
E' l'inizio di un processo di umanizzazione, di acculturazione.
Il bambino è pre-adattato a sintonizzarsi con la madre, la madre è pre-adattata a sintonizzarsi col bambino. Vi è un'imitazione reciproca fra madre e bambino; un incontrarsi, per così dire, a metà strada, in una protoconversazione di gesti. C'è un intendersi, un reciproco imparare a prevedersi(60). Questi processi di sintonizzazione ed imitazione hanno un'importantissima funzione di regolazione emotiva del bambino. "Abbiamo ormai compreso - dice Trevarthen - che le interruzioni degli atti del partner, causate da disattenzione, da ritiro emozionale, o da interferenze esterne sono in grado di dare luogo a forti indici di disagio e di ritiro in se stesso in un bimbo di due mesi che sino a poco prima era stato in piena comunicazione. [...]. [Le emozioni] riflettono il successo o il fallimento della comunicazione e vengono espresse per mantenere la comunicazione medesima"(61). Sembra dunque che il bambino fin dalla nascita, attraverso la comunicazione centrata sulla sintonizzazione emotiva, sia attrezzato per cominciare a mettersi al corrente su come è fatto il mondo in cui è nato, e a farne parte.
Il genitore - nel sintonizzarsi col bambino - sta un passo avanti al bambino, creando costantemente un'area che sta fra le attività che il bambino già sa compiere autonomamente e quelle che sa fare con la collaborazione dell'adulto. Si determina così quella che Vygotskij ha definito "area dello sviluppo prossimale"(62). I genitori per lo più si comportano così spontaneamente (tanto da far pensare all'esistenza di un sistema motivazionale dell'accudimento). In tal senso un esempio classico è costituito dal "motherese"(63), cioè quella lingua speciale che incorpora tutti gli aspetti dell'espressività vocale raggiunta dal bambino, ma con in più una appena maggiore articolazione fonetica e differenziazione semantica. Come osserva Trevarthen, il cervello umano costituisce "un organo culturale che stimola in maniera intuitiva l'ottenimento di educazione da parte di altri esseri umani che meglio conoscono i dettagli del mondo"(64).
Non è dunque in discussione la presenza, nel bambino, di "schemi filogenetici innati" (postulati da Freud, 1914), bensì si sottolinea che essi costituiscono una disposizione 'aperta' che assume una specifica configurazione, una canalizzazione nell'impalcatura costituita dall'interazione con figure di supporto. Come ha notato Bruner a proposito dell'acquisizione del linguaggio, dobbiamo considerare il ruolo, accanto a un "dispositivo [innato] per l'acquisizione del linguaggio" (postulato da Chomsky), di un "sistema di supporto per l'acquisizione del linguaggio"(65).
La spinta alla comunicazione costituisce uno stimolo alla costruzione di significati condivisi. Si ha una triangolazione fra i due partner e certe azioni o certi oggetti su cui converge la loro attenzione. E' nello spazio intersoggettivo fra due persone che riescono a sintonizzarsi attraverso un processo di empatia reciproca, che vi può essere, nel flusso dell'esperienza, l'attività del ritagliare, astrarre, generalizzare che viene a costituire significati condivisi (cioè pubblici) e almeno parzialmente stabili (anche se soggetti a una evoluzione). All'interno di questo spazio intersoggettivo vengono a costituirsi dei brani di esperienza significativi, dei 'formati'. Il linguaggio della madre si rivolge, nominandolo, a questo mondo di esperienza senso-motoria, emotiva e protocognitiva. Con l'acquisizione del linguaggio, prima compreso e poi parlato, si ha un ulteriore salto nella differenziazione e nella generalizzazione dei significati. E' solo attraverso tale processo di triangolazione che costruisce significati differenziati e condivisi, che il bambino può apprendere ad avere e a manipolare significati differenziati nella propria mente. Come dice Marcia Cavell - rifacendosi al concetto di triangolazione come è stato formulato dal filosofo del linguaggio Donald Davidson: "solo quando ci sono, per il bambino, oggetti che sono veramente pubblici, possono esserci anche 'oggetti' che sono veramente interni a un mondo interno e soggettivo"(66).
Il linguaggio del dialogo si trasferisce progressivamente nell'interno, fondando la differenziazione fra linguaggio socializzato (per gli altri) e linguaggio interiore (per sé). Piaget nota che il bambino usa un "linguaggio egocentrico", che non tiene conto del punto di vista degli altri, il che dà prova - egli sostiene - di un interesse ancora scarso del bambino per gli altri. L'attività del bambino - afferma Piaget seguendo Freud - "è indubbiamente egocentrica ed egotista. L'istinto sociale non si sviluppa che tardi"(67). Secondo Vygotskij, invece, il bambino è fin dall'inizio motivato alla comunicazione. Il linguaggio di gesti e poi le prime parole sono tutti atti sociali, tra le persone. Vi è, afferma Vygotskij, una "legge genetica generale dello sviluppo": "ogni funzione nel corso dello sviluppo [...] del bambino fa la sua apparizione due volte, su due piani diversi, [...], dapprima tra le persone, come categoria interpsichica, poi all'interno del bambino, come categoria intrapsichica"(68).
Lentamente, per interiorizzazione, il linguaggio comincia ad essere per il bambino uno strumento che egli usa per comunicare con se stesso. Il bambino comincia a rivolgere a se stesso, ad alta voce, parole che accompagnano e che commentano la sua azione. Infine si rivolgerà parole che precedono l'azione e che la pianificano. Il cosiddetto "linguaggio egocentrico" è, dunque, l'immediato precursore del linguaggio interno, è un linguaggio per sé detto ad alta voce. Entrambi assumono quelle funzioni di comprensione del sé, di contatto, di guida e di organizzazione, che nella relazione tutoriale sono sostenute dall'adulto. Il discorso interno ha di solito particolari caratteristiche sintattiche e semantiche: è ellittico, predicativo (cioè manca il soggetto), agglutinato, e in esso ogni parola ha un vasto alone di senso. Queste caratteristiche si devono a due suoi aspetti: innanzitutto ciò di cui esso parla è noto al soggetto, costituisce un contesto autoevidente; in secondo luogo esso ha una specifica funzione, costituisce cioè il primo strato di annotazione/costruzione del pensiero, il quale poi, mediante ulteriori trasformazioni, può eventualmente sfociare nel linguaggio pubblico. Il linguaggio interno, dunque, origina dal linguaggio sociale, e risente delle modalità con cui il bambino è stato rispecchiato dagli altri. Dunque anche gli atti dell'autocoscienza discorsiva più intima non sono mai totalmente privati, non hanno mai esclusivamente radice nell'organismo individuale isolato. In qualche misura, quando il soggetto prende coscienza di se stesso, si guarda dal punto di vista di un altro, delle sue figure di attaccamento, del gruppo sociale a cui appartiene(69). "Abbiamo conoscenza di noi stessi - afferma Vygotskij - perché abbiamo coscienza degli altri, e nello stesso modo in cui abbiamo coscienza degli altri, poiché nei confronti di noi stessi noi siamo quello che gli altri sono nei nostri confronti. Io ho coscienza di me soltanto nella misura in cui sono per me stesso un altro"(70).

6. BACHTIN SUL DIALOGO
Col termine "dialogo" - afferma il semiologo Michail Bachtin - ci riferiamo all'intreccio delle enunciazioni di due o più partner. L'"enunciazione" è l'unità della comunicazione verbale, con la quale un parlante si rivolge ad un altro, in un contesto dato. I confini di ogni enunciazione sono determinati dall'alternanza dei turni dei soggetti del discorso(71). In ogni enunciazione è possibile individuare il tema (che ne costituisce il polo oggettivo), il progetto o intenzione (che ne costituisce il polo soggettivo), e il genere del discorso a cui appartiene.
Il tema può essere minimo e circoscritto (come nella domanda "che ora è?") o vasto e inesauribile. Dal punto di vista di colui che parla, l'intenzione comunicativa è ciò che lo spinge a parlare del tema, che costituisce una risposta a certe condizioni del contesto, rappresentate anche dalle enunciazioni anteriori. Dal punto di vista di colui che ascolta, l'intenzione è ciò che l'altro vuole dire (come lui lo intende). Nella misura in cui i partecipanti al dialogo condividono un contesto di enunciazioni anteriori (oltre, è ovvio, al concreto contesto percettivo presente), essi afferrano rapidamente, fin dalle prime parole, ciò che il parlante vuole dire(72).
Ogni enunciazione è caratterizzata, inoltre, dall'appartenenza a un genere del discorso, cioè a un determinato genere compositivo e stilistico, che varia a seconda delle circostanze e dei ruoli. Il genere del discorso, per esempio, ovviamente cambia se chi parla è immerso in una conversazione quotidiana, di tipo intimo, amichevole, o familiare, o erotico, o mondano, o se invece sta impartendo un comando militare o è impegnato in una comunicazione burocratico-amministrativa. Ci sono generi del discorso che lasciano più spazio alla creatività, altri molto standardizzati (come le formule per i saluti, o per le informazioni sulla salute e l'andamento delle cose). Ogni parlante possiede un ampio repertorio di questi generi e se ne serve con perizia, pur ignorandone l'esistenza.
I generi del discorso si sono sviluppati storicamente, come supporto alle attività umane, differenziandosi dunque col differenziarsi di queste attività. Ogni persona che entra in una determinata sfera di comunicazione, tanto più può esprimersi in modo creativamente libero, quando più padroneggia il genere del discorso tipico di quella attività(73).
Ogni enunciazione è un momento, un turno, in un intreccio dialogico. "L'espressione verbale individuale di ogni uomo si forma e si sviluppa in un'interazione continua e permanente con le enunciazioni individuali altrui"(74). Ogni enunciazione ha un destinatario, si rivolge a qualcuno, ed "è elaborata in funzione delle eventuali reazioni responsive"(75). Chi parla, cerca di determinare una certa risposta dell'altro, o comunque cerca di prevederla, e in funzione di questa risposta prevista costruisce la sua enunciazione (per esempio, prevedendo delle obiezioni, le para in anticipo). La scelta del genere dell'enunciazione sarà inoltre condizionata dalle informazioni, dalle opinioni, dalle simpatie e antipatie che vengono presupposte nell'interlocutore. Se colui che parla ha una rappresentazione molto complessa delle caratteristiche del suo interlocutore, ne risentono le caratteristiche tematiche, progettuali e stilistiche della sua enunciazione. La previsione di una risposta complessa e multilaterale introduce - dice Bachtin(76) - "una singolare drammaticità interiore nell'enunciazione".
Chi parla, inoltre, oltre ad andare in cerca della risposta dell'interlocutore, "sta lui stesso rispondendo a uno sfondo di enunciazioni - proprie ed altrui - con le quali la sua enunciazione entra in determinati rapporti (si appoggia su di esse, polemizza con esse, le presuppone semplicemente come già note all'ascoltatore)"(77).
Chi ascolta non è un ricettacolo passivo: "Ogni comprensione è attiva ed è l'embrione di una risposta. [...]. Su ogni parola dell'enunciazione che comprendiamo è come se depositassimo una serie di nostre parole di risposta. Ogni comprensione è dialogica. [...]. Perciò non bisogna affermare che il significato appartiene alla parola in quanto tale. [...]. Il significato è l'effetto dell'interazione tra parlante ed ascoltatore sul materiale" del discorso(78).
Il pieno contributo attivo di entrambi i partner alla costruzione dei significati è favorito dal fatto che nessuno dei due monopolizzi la verità e si ritenga perciò in diritto di forzare il pensiero dell'altro a converge su di essa. Osserva Bachtin: "Di che cosa si arricchirà l'evento, se io mi fondo con un'altra persona e, invece di due, se ne ha una? Che vantaggio traggo dal fatto che l'altro si fonde con me? Egli vedrà e saprà soltanto quello che io vedo e so e si limiterà a ripetere in se stesso l'assenza di esito della mia vita; meglio che resti fuori di me, poiché in questa sua posizione egli può vedere e sapere ciò che io dal mio posto non vedo e non so e che può arricchire sostanzialmente l'evento della mia vita. [A mia volta, ] se mi limito a fondermi con la vita dell'altro, non faccio che aggravare la sua assenza di esito e duplicarla numericamente"(79).
Il genere del discorso - dice Bachtin - assume caratteristiche peculiari nei rapporti intimi in cui si stabilisce "una profonda fiducia nel destinatario, nella sua simpatia, nella sensibilità e benevolenza della sua comprensione responsiva"(80). In tal caso si ha una caduta dei tabù e delle convenzioni linguistiche, un atteggiamento non ufficiale e libero verso la realtà; viene a spezzarsi l'immagine ufficiale del mondo. Il linguaggio si apre l'accesso a strati di esperienza che erano colpiti da interdetto.
Nell'orientarsi invece verso interlocutori pubblici, ufficiali, istituzionali, il soggetto tende a costruire la propria enunciazione in modo più codificato, subendo di più "l'influenza delle forze sociali organizzate"(81).
E' evidente allora l'importanza del discorso intimo. Se l'esperienza interiore non è condivisa e non è costruita nel dialogo, essa viene schiacciata in una muta interiorità, tende all'annientamento, avvicinandosi a una pura reazione fisiologica(82). E' questo un mondo di "'nati prematuri', incapaci di sopravvivere"(83). Invece se questo "strato più basso, fluido e rapidamente mutevole"(84) di esperienze balenanti nella psiche ha l'opportunità di entrare in uno spazio dialogico, si costruisce un "noi-esperienza-interiore"(85), e per conseguenza un mondo interiore più chiaro, complesso e differenziato.
Nel passaggio dalle sensazioni grezze alla messa in forma nel discorso, vi è una trasformazione, una modellizzazione che è resa possibile dal materiale linguistico circolante nel dialogo attuale, ma anche dal contesto di tutta la tradizione personale precedente. La messa in parole del contenuto non lo crea ex novo, ma lo completa(86), gli dà una specifica forma. In questo senso le parole non costituiscono mai un elemento neutrale rispetto al contenuto cui si riferiscono, bensì rappresentano un atto linguistico, un fare cose con le parole. Questo modo di intendere l'efficacia operativa del linguaggio è particolarmente vero quando il linguaggio è riferito agli stati mentali. Le parole, gli schemi, i modelli teorici e ideologici con cui la realtà psichica viene definita, influenzano gli stati del cervello, la regolazione emotiva, il senso di sé con gli altri, i piani comportamentali.
Secondo la concezione del linguaggio introdotta nell'Ottocento da Humboldt(87), e che ha una lunga storia che, passando per Vygotskij e Bachtin, arriva fino alla semiotica contemporanea(88), nel linguaggio (di un'epoca, di un contesto culturale) è depositato un modello del mondo, e chi lo assimila si immerge in un modo di vedere e di pensare il mondo. Tale modello di mondo è costruito in una moltitudine di dialoghi intersoggettivi. Il linguaggio nasce e si sviluppa come strumento di comunicazione, e perché l'esperienza possa essere comunicata devono essere attuati processi di generalizzazione condivisi da più menti. Dice Sapir (1921): "Occorre che il mondo delle nostre esperienze sia enormemente semplificato e generalizzato prima che sia possibile fare un inventario, a base di simboli, di tutte le nostre esperienze di oggetti e di relazioni. [...]. Quindi gli elementi della lingua [...] debbono essere associati con interi gruppi, ovvero classi definite, di esperienze piuttosto che con le singole esperienze [...]. Soltanto in questo modo è possibile la comunicazione"(89).

7. IL DIALOGO COME OGGETTO DI RICERCA
Freud afferma: "A volte è molto utile avere dei pregiudizi. Avevo un'alta opinione del rigore con cui i processi psichici sono determinati"(90). Egli presuppone che lo psichico sia organizzato in nessi causali rigorosi e senza lacune; se tali nessi appaiono carenti nel testo conscio, ciò significa che essi possono essere trovati come intelaiatura sommersa che sta nell'Inconscio. Lo psicoanalista in seduta, allora, compie una ricerca scientifica della verità, consistente nel trovare tali nessi mancanti, che non sono coscienti, ma che ciò nonostante costituiscono una presenza attuale e attiva nell'inconscio - proprio nella forma con cui lui li descrive nell'interpretazione. Nel rispondere agli atti coscienti lacunosi del paziente - afferma Freud - notiamo che essi "si organizzano in una connessione ostensibile se li interpoliamo con gli atti inconsci di cui abbiamo ammesso l'esistenza. Ma guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente legittima per andare al di là dell'esperienza immediata. Se poi risulterà altresì che l'ipotesi dell'inconscio ci consente di costruire un efficace procedimento con cui influenzare utilmente il decorso dei processi consci, tale successo costituirà un'inoppugnabile testimonianza della validità di quel che abbiamo assunto"(91). Per Freud, dunque, ogni nesso mancante che viene interpolato dall'analista viene da lui non aggiunto, ma trovato, in quanto preesistente nell'inconscio del paziente.
Ho cercato di mostrare come questa descrizione dell'atteggiamento dell'analista in seduta, intento a indagare la realtà oggettiva dell'Inconscio, è fornita da Freud per sostenere l'impronta scientifica della psicoanalisi.
D'altra parte, questa sua posizione è stata ampiamente criticata, sia dal punto di vista epistemologico, sia dal punto di vista, direi, di un'etica della tecnica.
Per quanto riguarda il primo aspetto: l'interpretazione non riproduce, come una copia, una realtà preesistente nel paziente. Come affermano con molta chiarezza Filippini e Ponsi: "L'inconscio si costituisce nella relazione analitica attraverso operazioni che mettono in rapporto i dati osservativi con processi di natura ipotetica. In altre parole, esso si può considerare, alla fin fine, la sede delle varie teorie che spiegano i motivi, o le cause, del comportamento. E, nella misura in cui l'interpretazione collega in modo significativo entità diverse, non è cioè mera ridescrizione di dati introspettivi, anche essa appare fondata, come la costituzione dell'inconscio, su un processo inferenziale"(92).
Insomma, come giustamente sostiene Modell (1993), se l'analista crede che la propria interpretazione corrisponda a una rappresentazione che sta nella mente del paziente, egli cade nella "fallacia dello psicologo", consistente nella confusione fra il proprio punto di vista e "quello del fatto mentale rispetto al quale egli sta facendo il suo resoconto"(93).
La risposta dell'analista al paziente è una interpretazione psicoanalitica se ha il potere di organizzare in modo coerente, anche se provvisorio, il quadro del complesso materiale percettivo, emotivo e cognitivo che si è andato accumulando. L'interpretazione è un atto sintetico e costruttivo; un atto linguistico che scaturisce da una molteplicità di astrazioni e generalizzazioni.
Nella coppia analista-paziente (come nella coppia madre-bambino) può esserci una profonda sintonizzazione, un campo percettivo-emotivo-cognitivo condiviso, all'interno del quale si hanno momenti di incontro in una comunicazione intima pre-discorsiva. E tuttavia, quando poi l'analista parla (come quando la madre parla), comprende l'altro dal proprio punto di vista.
L'analista che è cosciente di questa inevitabile natura della sua comunicazione col paziente, pensa che quando interpreta fa delle proposte congetturali. Di conseguenza, è propenso a considerare l'analisi come processo collaborativo in cui si ha la costruzione interattiva di significati. Questo costituisce un aspetto etico della tecnica psicoanalitica, che può essere offuscato se l'analista coltiva l'illusione che i modelli costruiti nella propria mente corrispondano come copie alla realtà oggettiva dell'Inconscio che è nel paziente. Questa posizione etica mi pare che debba essere consapevolmente esercitata, come contravveleno rispetto a quel senso di certezza, di totale evidenza (supportato dall'esperienza e dalle conoscenze teoriche) che si forma nella mente dell'analista al lavoro.
Può darsi che in una certa fase dell'analisi il paziente attribuisca onniscienza all'analista, e può darsi che si tratti di un suo bisogno che l'analista deve rispettare - analogo a quello del bambino che subisce l'imprinting del mondo culturale dei genitori. Ma si tratta di un bisogno, non della verità. E a quel bisogno fase-specifico ne succederanno altri, più ambivalenti, più mirati alla differenziazione e all'individuazione.
Ma se si attribuisce un carattere provvisorio e congetturale alla risposta interpretativa dell'analista, e anzi si contrappone al postulato della conoscenza oggettiva un postulato dell'etica dialogica, non si priva forse la psicoanalisi di ogni fondamento scientifico? Non si finisce nella famigerata deriva ermeneutica?
Non mi pare. Un campo di fenomeni è studiato scientificamente se vengono prese in esame nel modo più accurato e completo possibile le variabili che operano in esso. Il momento scientifico della psicoanalisi, allora, non è quello dello psicoanalista scienziato che, in seduta, conosce oggettivamente l'inconscio del paziente; bensì quello - situato in un meta-livello - in cui lo psicoanalista, riflettendo sul suo lavoro, assume come unità di analisi tutte le variabili presenti nello scambio psicoanalitico, cioè l'intero campo(94).
La psicoanalisi utilizza, in modo sofisticato, specializzato e perciò particolarmente consapevole, i poteri che sono insiti nel dialogo, in tutte quelle sue stratificazioni che ho cercato di descrivere: dalla sintonizzazione senso-emotivo-motoria (che costituisce una comunicazione in gran parte inconscia), al primo baluginare di un discorso, fino alla negoziazione di significati condivisi, per giungere all'interiorizzazione di questo processo sotto forma di percezione discorsiva del sé. Nella costruzione di tali significati convergono processi proiettivi e introiettivi. Ma se i processi proiettivi sono stati approfonditi con chiarezza dalla psicoanalisi, non altrettanto si può dire dei processi introiettivi. Che natura ha l'introiezione? Non è soltanto la re-introiezione di contenuti proiettati. Non è neppure soltanto l'introiezione di contenuti "digeriti" da una funzione-contenitore neutrale. E' forse meglio definibile come introiezione di significati che vengono co-costruiti per il convergere dell'attenzione di entrambi i partner su certi temi. L'ombra dei due soggetti cade (in un processo di triangolazione) sui significati che essi producono(95).

8. L'INTERIORIZZAZIONE DEL SETTING COME SCOPO DELLA PSICOANALISI. LA VISIONE PSICOANALITICA DELL'UOMO
Gli analisti danno una grande importanza al setting; esso è costituito non solo di regole materiali, ma anche di un assetto interiore. Innanzitutto, le proprie preoccupazioni contingenti devono rimanere fuori dalla stanza di analisi; deve essere creato uno spazio di ascolto nei confronti di segnali anche minimi, e perciò il rumore della propria vita personale deve rimanere fuori. In secondo luogo, l'analista si è addestrato a non reagire impulsivamente, a non passare all'azione, sia coi movimenti del corpo sia col tono e i contenuti del proprio discorso. Quanto più con l'esperienza si accumula la certezza che proprio così continueranno a stare le cose, e tanto più l'analista ha, dentro di sé, un vissuto di sicurezza, che gli permette di coltivare la ricettività nei confronti delle proprie reazioni interne. In ciò vale il principio generale, per cui qualora venga effettivamente costruita e consolidata una difesa più evoluta nei confronti degli impulsi, viene a mancare la ragion d'essere delle difese più primitive. E quindi, laddove è consolidato il controllo cosciente dell'accesso dell'impulso all'azione, viene meno il blocco dell'impulso all'origine. In tal modo si favorisce lo sviluppo di un teatro interno, dove liberamente si costituiscono, in un linguaggio di immagini e di parole, gli psicodrammi degli impulsi e degli affetti. Le barriere che il setting esterno e il consapevole assetto interiore impongono al passaggio all'atto, fanno cadere le obiezioni di tipo etico ("questo non è giusto, è cattivo") e di tipo cognitivo (legate all'esame di realtà) che impedirebbero agli impulsi e alle fantasie di assumere una piena strutturazione simbolica. Se i miei pensieri, i miei impulsi, le mie fantasie non hanno immediate conseguenze pratiche, perché mai dovrei stanziare dei severi censori a sbarrare loro il passo attraverso i vari confini che si frappongono fra la loro origine e il loro accesso alla piena coscienza mediata da segni? Così si stabilisce il primato, almeno in ordine di tempo, della dimensione estetica. Si afferma cioè che ogni contenuto emergente ha diritto al pieno sviluppo simbolico, pena l'impoverimento della vita psichica.
Nella vita della mente costituisce un fatto traumatico non solo l'irrompere di eventi classicamente considerati come traumatici, ma anche - e forse ancora di più - lo scarso apporto di strumenti che essa riceve per lo sviluppo delle proprie capacità espressive simboliche. La povertà del gioco, la scarsità dei dialoghi che abbiano una qualche caratterizzazione di schiettezza e di intimità; gli interdetti che provengono, senza troppa consapevolezza del perché, dalle persone significative, a loro volta gravate dal carico di semi-inconsapevoli norme transgenerazionali; le innumerevoli censure che il soggetto si impone da sé per paura del proprio mondo interno; l'abituale immergersi in attività le quali, indipendentemente dal loro valore oggettivo, vengono usate dal soggetto come potenti anestetici, per evitare l'impatto con contenuti che tuttavia continuano a chiedere ascolto, seppure in un'inquietante forma incarognita, primitiva e bizzarra, insomma col furore di coloro a cui troppo a lungo è stata negata l'esistenza: tutto ciò innesta un micidiale circolo vizioso. Infatti, la conseguente povertà delle capacità simboliche rende traumaticamente intollerabili sensazioni, emozioni ed eventi che potrebbero benissimo non esserlo (se venisse sviluppata la capacità di "digerirli"). Questo abbassamento della soglia del dolore mentale incentiva la spinta a liberarsi degli stimoli anziché considerarli come il materiale da costruzione per il proprio spessore soggettivo. E così via.
Attraverso il dialogo analitico, l'analista cerca di innestare nella mente del paziente un'inversione di rotta. Tutti i contenuti che appartengono al paziente ma che questi non è in grado di pensare, quanto più sono espulsi dalla sua funzione riflessiva, tanto più lo perseguitano, tenendo in pugno la sua vita e forgiando le sue relazioni, confermando le sue paure come in una profezia che si autoavvera. L'analista, nella simbiosi psicologica del rapporto analitico, è preso dentro al circolo vizioso del paziente(96). Non fa nulla per impedirlo. Non attua alcun distacco difensivo. Accetta questa condizione di pieno coinvolgimento nel rapporto. Egli sente animarsi in sé reazioni complementari ai contenuti e ai toni del discorso del paziente (identificazione complementare(97)). Il paziente costruisce il proprio discorso indirizzandolo a uno specifico interlocutore che ha in mente, e si aspetta da parte di esso una determinata risposta. L'analista - rassicurato dalla consapevolezza della propria capacità di inibire provvisoriamente l'azione - sente sorgere in sé una risposta come se egli fosse questo altro. Vede se stesso rispondere, ed eventualmente può anche essere una risposta drammatica, poiché si tratta dello snodarsi della trama di un film, proprio come avviene nei sogni, in cui l'accesso all'azione è inibito. Il controllo è sull'azione, non sulla fantasia. Se l'inibizione è eccessiva, essa non solo blocca l'azione, ma anche impoverisce la capacità che il linguaggio interiore ha di dare forma alle percezioni interne.
Sempre di più è stato descritto, nella letteratura psicoanalitica, l'emergere nella mente dell'analista anche di un altro tipo di contenuti: pensieri improvvisi, flash che balenano alla mente, e che non sembrano collegabili al contesto attuale del dialogo esplicito, verbale. Fra il ricacciarli indietro come distrazioni o, all'opposto, l'usarli in modo immediato e selvaggio come strumenti interpretativi, è stata individuata un'altra possibilità: inserirli come tasselli nel film interiore, come parte della propria risposta, ancora virtuale, all'altro. Costruendo un quadro d'insieme di tale propria risposta potenziale, alla fine si viene spesso a scoprire (o meglio: ad aver ragione di supporre) che quei pensieri improvvisi corrispondono specularmente a qualche movimento interno del paziente (identificazione concordante(98) , empatia). La portata rispecchiante di questi flash improvvisi - espressione dell'inconscio come apparato ricevente dell'inconscio dell'altro (Freud) - comincia a perdere, con le attuali conoscenze neurobiologiche (neuroni specchio), quell'alone misterioso e quasi mistico che ancora gli incombeva addosso. Gli uomini vivono in gruppo e, specchiandosi gli uni negli altri, creano basi di vissuti comuni e, dunque, di appartenenza. Il cervello crea una mappa del corpo dell'altro, e in questo modo reagisce all'azione dell'altro come fosse propria. Di questa capacità la psicoanalisi ha appreso a fare davvero un uso specializzato.
Questo tipo di pensieri è tanto più osservabile quanto più è intenso il coinvolgimento, ma anche quanto più è sviluppata nell'analista la capacità di annotazione interiore, quanto più il suo preconscio è agganciato al suo processo primario. Arieti (1966; 1976) e Green (1995) hanno denominato "processo terziario" questa capacità ricettiva del processo secondario nei confronti di quello primario. "Per processi terziari - dice Green - intendo i processi che mettono in rapporto i processi primari e i processi secondari in modo tale che i processi primari limitano la saturazione dei processi secondari e i processi secondari quella dei processi primari"(99).
Sebbene gli analisti si differenzino assai nello stile personale di porsi nel dialogo analitico, tutti sono accomunati nell'accettazione di un provvisorio stato interiore di perplessità: mi riferisco a quello stato in cui si trova ogni persona che, non accettando di comportarsi nella propria risposta in un modo impulsivo e irriflesso, ma neppure inibendo minimamente la percezione interna della propria risposta, si domanda quale sia il significato di ciò che sta capitando ... senza ancora averlo trovato. Questo tempo di attiva attesa può essere lungo, pesante e penoso. Ma non sempre: in certi periodi di certe analisi, soprattutto in fase avanzata, con un terreno comune consolidato, ci possono essere anche scambi rapidi, scoppiettanti, quasi a testimoniare una conquistata leggerezza.
Rispetto ai contenuti su cui converge l'attività referenziale dei due partner, l'analista è almeno un po' meno spaventato, ma soprattutto è convinto che essi siano pensabili, e che attraverso il pensiero possa altamente aumentare la loro tollerabilità.
Nel corso dell'analisi saranno stati ricostruiti certi specifici temi, dolorosi e conflittuali, della vita del paziente; sarà stata data ad essi un'organizzazione nuova, e più consapevole. Ma forse il lascito più importante dell'analisi è costituito dall'interiorizzazione dell'assetto mentale che è stato condiviso: esso è sperabile che si dimostri d'aiuto non solo per i problemi del passato, ma anche per quelli della vita successiva.
La psicoanalisi si è innestata in una certa tradizione occidentale riguardo alla costruzione dell'uomo civilizzato. Non si tratta della tradizione - descritta da Freud ne Il Disagio della Civiltà - della diminuzione della violenza tramite il rafforzamento del Super-io. L'idea di soggetto che gli psicoanalisti hanno ereditato, e che con la propria formazione e con gli effetti della loro pratica clinica contribuiscono a sviluppare, propone l'ampliamento di uno spazio interno per la simbolizzazione. L'interna morsa (consapevole o inconscia) del Super-io deve essere allentata. Ma le ansie per le conseguenze di un tale allentamento vengono placate con l'istituzione di un potente filtro di controllo sull'ultimo confine fra il mondo interno e l'azione. Viene progettata una efficace integrazione fra espressività e inibizione. Viene istituita una dialettica, interna al soggetto, fra controllo razionale ed ascolto romantico(100).
Da una parte il distacco e il controllo sono diventati un valore costitutivo della soggettività moderna, e fanno parte del modo in cui ordinariamente l'uomo percepisce la propria interiorità. Egli sente di conquistare - come osserva Taylor (1989) - "il controllo mediante il distacco. Il distacco è sempre il correlativo dell''oggettivazione' [...]. Oggettivare un dato campo significa privarlo della forza normativa che esercita su di noi"(101).
Sullo sfondo di questa "forza dell'Io" caratterizzata dalla capacità di oggettivare e di valutare criticamente, ha potuto innestarsi il modello ricettivo dell'ascolto romantico, che mira al recupero dell'interezza del sé attraverso il contatto con ogni elemento affiorante nell'esperienza. Tale modello trova, a mio parere, il suo migliore prototipo nelle Lettere sull'educazione estetica di Schiller, nelle quali questi sostiene l'esigenza di coltivare e di mantenere desto l'istinto del gioco, che mette in relazione le parti della personalità ed esse con la capacità simbolica di dare forma(102).
L'uomo deve poter conoscere le proprie passioni, ed esse devono apparirgli tutte insieme nel teatro interiore della sua coscienza, se egli vuole costruire un progetto di sé che lo rifletta autenticamente. Il lavoro di integrazione, di mediazione, di negoziazione fra i vari contendenti interni può essere compiuto solo se fra di essi non vi sono delle barriere, se essi sono contemporaneamente visibili sulla scena della coscienza. In tal caso può esserci su di essi il lavoro del pensiero, in quanto il soggetto li sente come materiale che gli appartiene: e di conseguenza possono essere formulate vere e proprie decisioni(103). Colui che può decidere le proprie azioni pensando sul proprio mondo interno che conosce, "è diventato quale avrebbe potuto diventare"(104). Questo soggetto, reso sicuro dal proprio conoscersi riflessivo, diviene in grado di costruire criticamente il proprio rapporto con la realtà. Egli può scegliere se adattarsi alla realtà esterna, oppure agire su di essa - afferma Freud - "modificandola e producendo in essa quelle condizioni che rendono l'appagamento possibile. Una tale attività diviene allora la più alta prestazione dell'Io. Il decidere quando sia più utile dominare le proprie passioni e inchinarsi di fronte alla realtà, e quando invece convenga prender partito per queste e contrapporsi al mondo esterno, costituisce l'essenza del saper vivere"(105). E questo è l'ideale illuministico della libertà riflessiva del soggetto individuale. Dice Kant, in Che cos'è l'illuminismo?: "L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude!(106) Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza!"(107).
La psicoanalisi è espressione, dunque, di un determinato progetto di uomo; ha una sua sofisticata, e storicamente determinata, idea di che cosa sia un soggetto adulto, normale, pienamente sviluppato. Si impegna perché questo progetto si realizzi, all'interno di un mondo in cui esistono forti spinte verso altri modelli di uomo, in competizione col suo. La psicoanalisi, quindi, ha una sua Weltanschauung. Freud tuttavia sostiene che essa non è portatrice di una sua specifica visione del mondo, e che condivide soltanto la Weltanschauung scientifica(108). Credo che egli sia portato ad affermare una tale posizione perché, nonostante tante parti del suo pensiero si muovano in una direzione diversa, egli rimane ancorato a una caratterizzazione astorica della soggettività.

9. PSICOANALISI E PSICOLOGIA STORICA
Le conoscenze attuali della neurobiologia e della psicologia dello sviluppo ci portano invece a concepire il cervello umano come un organo biologico culturale; esso è un sistema aperto che chiede al mondo in cui nasce struttura e organizzazione, chiede un "Io". La mente è cervello + storia, e, in tal senso, essa "si estende al di là dei confini della pelle"(109). L'attività mentale è mediata da segni, assimilati nel corso di uno sviluppo che al tempo stesso è apprendimento: "il piano intrapsichico non è costituito dall'individuo da solo che porta avanti un compito, ma dall'individuo-che-agisce-con-strumenti-di-mediazione"(110). Tali strumenti di mediazione sono assimilati all'interno di un "ecotipo"(111). Insomma l'uomo non è una pianta che, solo che venga correttamente annaffiata nel suo 'giardino d'infanzia', ha uno sviluppo già segnato nel seme. C'è, nella vita umana, un complesso sistema circolare di influenze. "L'individuo - diceva Vygotskij - non è soltanto soggetto all'influenza dell'ambiente, ma anche influenza l'ambiente in modi particolari attraverso ciascuna delle sue reazioni, ed inoltre influenza il proprio stesso essere attraverso l'ambiente"(112). Grazie all'uso del linguaggio, l'uomo ha storicamente accumulato le proprie invenzioni, le proprie strategie cognitive, i propri modelli, che ogni nuova generazione assimila come se esse fossero un dato di fatto naturale. Fra gli altri artefatti cognitivi, l'uomo ha costruito modelli descrittivi del proprio fondo biologico, delle proprie passioni, delle proprie pulsioni. E il linguaggio che viene usato non è neutrale rispetto al fatto descritto. Se pensiamo che i segni e gli strumenti storicamente costruiti dall'uomo retroagiscano sulla modalità del suo funzionamento mentale, allora lo studio della mente dovrebbe comprendere lo studio della psicologia storica(113), della storia della soggettività.

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Note:

1 Seminario tenuto presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia Clinica, Università di Firenze, Corso di Psicologia Generale (Prof. Giovanni Guerra), 30 ottobre e 27 novembre 2002
2 Via Fra' Jacopo Passavanti 17, 50133 Firenze
3 Nissim Momigliano L., Robutti A. (a cura di) (1992), p.15
4 Freud S. (1892-95), p.313
5 Freud S. (1888-92), p.93
6 Freud S. (1926), p.355-356
7 Freud S. (1937), pp.542-543
8 Freud S. (1912), p.536-537
9 Freud S. (1912), p.579
10 cfr. Hoffman I.Z. (1983)
11 Freud S. (1914), pp.590-591
12 Freud S. (1915-17), p.601
13 Freud S. (1932), p.190
14 Freud S. (1912), p. 535
15 per un esame delle differenze fra la ricezione freudiana e la ricezione greco-classica dell'Edipo Re di Sofocle, cfr. Vernant J.-P. (1971)
16 Mill J.S. (1843), in particolare libro 1, cap. 2 e 3. Questa assimilazione della teoria di Mill è già presente in Freud S. (1891)
17 Mill J.S. (1843), vol. 1, p.120
18 Freud S. (1895), pp.232-235
19 Freud S. (1922), p.483
20 sul meccanismo e sulla funzione dell'attenzione cfr. Freud S. (1895), pp.259-262; (1899), pp. 540-541
21 Freud S. (1899), p.513
22 Freud S. (1922), p.487
23 Freud S. (1895), p.265
24 Freud S. (1922), p.484
25 Freud (1922), p.483
26 Freud S. (1895), p.264
27 Freud S. (1895), p.264
28 Freud S. (1899), p.513
29 Freud S. (1914), p.445
30 ibid. p. 457
31 Freud S. (1929), p.565
32 cfr. Kohut H. (1971)
33 Freud S. (1929), p.561
34 Freud S. (1922), p.491
35 Freud S. (1921), p.295
36 Freud S. (1927), p.506
37 Freud S. (1932), pp.179-180
38 Freud S. (1932), p.182
39 Modell (1993), p.24
40 Fonagy & Target (2001), p.113
41 Fonagy & Target (2001), pp.102-103
42 Freud S. (1912-13), p.161
43 'Einfulhung', tradotto in italiano con 'immedesimazione'
44 Freud S. (1921), p.296
45 ibid. p.298
46 del libro di Lipps (1883) Fatti fondamentali della vita psichica Freud scrive a Fliess il 31 agosto 1898: "In Lipps ho riscontrato i princìpi delle mie idee formulati chiaramente, forse più di quanto avrei desiderato. [...]. La coscienza mero organo di senso; qualsiasi contenuto psichico mera rappresentazione; e i processi psichici tutti inconsci". Il libro di Lipps (1897) Der Begriff des Unbewussten in der Psychologie è poi citato da Freud in (1899): "Il problema dell'inconscio nella psicologia è, secondo la vigorosa asserzione di Lipps, non tanto un problema psicologico, quanto il problema della psicologia. [...]. Secondo l'espressione di Lipps, l'inconscio dev'essere accettato come base generale della vita psichica" pp.556-557.
47 Lipps T. (1903-6), pp.183-184
48 ibid., p.186
49 Gallese V. (2001), pp.36-37
50 ibid., p.39
51 sostenendo questa posizione, Gallese si discosta dall'ipotesi della "teoria della mente" (Premack e Woodruff, 1978) intesa come capacità innata di attribuire stati intenzionali
52 Bruner J. (1972), p.32. Secondo l'ipotesi di De Vore I. (1965), il passaggio alla stazione eretta e la liberazione dell'uso delle mani comporta due pressioni selettive contraddittorie: 1) la bipedia comporta una maggior pressione sul bacino, il che porta alla selezione di una minore apertura ossea del condotto preposto al parto alfine di assicurare una maggiore resistenza del bacino; 2) la liberazione dell'uso delle mani comporta una pressione verso l'aumento del volume cerebrale, per consentire una programmazione più flessibile per l'uso delle mani. Questa pressione selettiva contraddittoria produce una pressione selettiva a che il volume cerebrale del neonato sia piccolo, e soggetto a un successivo notevole sviluppo. Il cervello, dalla nascita alla conclusione dello sviluppo, passa da 330 a 1300 cm cubici.
53 Bruner J. (1983), p.24
54 Trevarthen C. (1997), p.49
55 Vygotskij L. (1932), p.239
56 Vygotskij L. (1934), p.350
57 Gaddini E. (1968), p.162
58 ibid. p.170
59 Meltzoff A.N., Moore K. (1999), p.9
60 Trevarthen (1997): "Quando la temporizzazione degli atti viene osservata con precisione, si trova che sia l'adulto sia il bambino coinvolti in una interazione sono in grado di riconoscere e predire il comportamento dell'altro" p.40.
61 ibid. p.42
62 Vygotskij (1933), p. 139; (1934), pp.269-277
63 Trevarthen (1997), pp.127-129
64 Trevarthen C. (1997), p.46
65 Bruner J. (1983), p.34
66 Cavell M. (1998), "Triangolazione, mente individuale e oggettività", p. 193
67 Piaget J. (1924), p.217; "Il bambino [...] serba per sé certamente un grandissimo numero di pensieri inespressi. Ora questi pensieri non possono esprimersi precisamente per mancanza dei mezzi che sono sviluppati soltanto dal bisogno di comunicare con altri e di mettersi dal punto di vista di altri", ibid., p.215
68 Vygotskij (1930-31), p.201
69 Bachtin/Volosinov (1927), p.157
70 Vygotskij L. (1925), p.85
71 Bachtin M. (1952-53), p.258
72 Bachtin ibid. p.265
73 ibid. p.267
74 ibid. p.278
75 ibid. p.284
76 ibid. p.286
77 ibid.p.255
78 Bachtin/Volosinov (1929), p.229
79 Bachtin M. (1920-24?), p.79
80 Bachtin M. (1952-53), p.287
81 Bachtin/Volosinov (1929), ibid. p.245
82 ibid. p. 210
83 ibid. p. 215
84 ibid. p. 215
85 ibid. p. 210
86 Vygotskij (1934)
87 Humboldt W.von (1830-35)
88 mi riferisco a Lotman. Ma vanno inoltre almeno menzionati l'interazionismo simbolico di Mead (1934) e la filosofia del linguaggio del secondo Wittgenstein (1953), centrata sul concetto di "gioco linguistico"
89 Sapir (1921), p.12
90 Freud S. (1909), p.147
91 Freud S. (1915a), p.50
92 Filippini S., Ponsi M. (1992)
93 Modell A. (1993), p.27
94 cfr. Baranger W. e M. (1963-1987)
95 parafrasando la nota espressione di Freud (1915b), p.108: "L'ombra dell'oggetto cadde così sull'Io"
96 Racker H. (1968)
97 ibid.
98 ibid.
99 Green A. (1995), p.157
100 su questo tema mi permetto di rinviare a Carnaroli F. (2001)
101 Taylor (1989), p.206
102 Schiller (1795), pp.166-175
103 Freud S. (1915-17), p.583
104 ibid. p. 585
105 Freud S. (1926), p.368
106 Orazio, Epistole, 1, 2, 40
107 Kant I. (1784), p.48
108 a differenza di quanto afferma Freud (1932), p.262
109 Wertsch (1990)
110 Wertsch (1990)
111 Sameroff (1989). Questo autore distingue fra le caratteristiche culturali più generali (codice culturale), le caratteristiche del sistema condiviso dai membri della famiglia (codice familiare) e le interpretazioni che ogni genitore dà del codice culturale e familiare (codice del genitore).
112 Vygotsky (1926), p.53
113 Vygotskij (1934), p.126

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