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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia


Ricordo di Bruno Callieri (1923-2012).

Sergio Mellina



Bruno Callieri, eccezionale studioso di psicopatologia e di condizione umana, è tornato alla casa del padre, in un febbraio eccezionale, di neve e di freddo siberiano, a Roma. È “scomparsa” – come s’usa dire, in circostanze di grandi lutti, ché in effetti i grandi non scompaiono1, ci ricorda Luciano Del Pistoia, un altro tra i suoi estimatori, – una personalità di smisurata cultura, di altrettanta umanità, di pari sapienza e umiltà.

Se n’è andato un maestro, per me anche un amico prezioso e una sorta di fratello maggiore. In chiesa, durante le esequie, avevo la mente affollata di ricordi: tantissimi. I primi – vertiginosamente lontani dal nostro ultimo incontro, una ventina di giorni avanti, quel pomeriggio, fugace ma intensissimo e crepitante di bagliori vitali, il 18 gennaio, lucidissimo presentimento di un commiato definitivo – erano epifanie caleidoscopiche della sua presenza passata, frammenti della sua immagine, eloqui, aporie, figure, oggetti, posture dell’uomo di studio, della persona curiosa, attenta, concentrata, interessata a comprendere-l’altro, a stare-nel-mondo, con-tutti.

Bagliori, più che altro, che affioravano, nella solennità del funere, nella commozione dei presenti, alla mente rattristata dell’amico, unitamente ai versi di Ovidio “Cum subit illius tristissima noctis imago…” (Tristia I, 3). Una folata di ricordi (dettagli, soprattutto, intimi, non ufficiali, fuori ordinanza, ma carissimi, di oltre mezzo secolo): … un breve saluto incrociandoci a una casa di cura sull’Aurelia mentre salivi sulla Mercedes nuova di cui mi descrivevi i meccanismi del servosterzo come un ingegnere meccanico … una circostanziata descrizione, come un radiotecnico linguista, del “baracchino” che ti eri comprato per ascoltare e imparare il cinese … i due appartamenti sullo stesso piano che comunicavano dietro, così ti riusciva più rapido raggiungere Melania per scambiarci un’impressione … quell’arrotolare il cellofan dei pacchetti di sigarette in tubetti sbiechi stretti e lunghi per concentrarti meglio agli incontri di “Martellona”… “Sentiamo Mellina, la generazione intermedia”, mi dicesti alla Libreria Croce nel 1982 per la prima edizione di Quando vince l’ombra

Eh! La generazione intermedia della psichiatria fenomenologica (quella che Mario Rossi Monti e Gilberto Di Petta chiamano la seconda generazione2), con cui mi sentii lusingato di essere chiamato in causa proprio da te, coram populo, è ormai quella superstite, caro Bruno. Proteiforme, inaspettato, stupefacente Bruno, capace di sbucare improvvisamente dalla fisica mentre eri conosciuto come competente di metafisica e bibliofilo oltre che eccellente clinico. La soluzione dell’enigma è giunta, a distanza di oltre cinquant’anni, proprio dalla recentissima intervista telematica resa a Bollorino, dove ho scoperto un Callieri che confessava di essere stato indeciso, “fin dalla seconda liceale”, tra “gli studi fisico-matematici e quelli filosofici” (per entrambi naturalmente incline e sostenuto dai suoi professori), risolvendosi infine per “la via della medicina che mi sembrava ovvia, una cosetta di mezzo”.

Mi limiterò a rievocarne tre, di codesti ricordi, fra i tanti, incisi nella mia memoria col fuoco inobliabile dell’esperienza di vita: momenti che mi è capitato di condividere con lui, sia pur brevemente ed episodicamente, in occasione di circostanze professionali, le quali mi autorizzano a ritenermi un suo compagno di cammino, un Weggenosse. Il primo incontro, quello della fascinazione, il secondo, quello fondante, che mi convinse a mutare ordine religioso – da “neuropsichiatra” a “psicopatologo antropofenomenologico” – della medicina clinica (olisticamente praticata e predicata), e l’ultimo, il congedo, luminoso.

Con Bruno Callieri, ho avuto consuetudine e frequentazione da (e per) oltre sessant’anni. Ora mi pare innaturale non poter più alzare il telefono e sentire la sua voce squillante e cordiale dall’altra parte del filo. Mi è capitato anche di raccontarlo, in occasione di recensioni di sue opere, presentazioni, dibattiti, convegni… Ora si tratta di ricordarlo raccontandolo, per il necrologio, evento sempre doloroso per chi, come noi due, abbiamo coltivato la dimensione autentica del modo dell’amicizia (binswangerianamente parlando) ne abbiamo colto il senso, apprezzato il valore dell’interlocuzione pensata, anche in assenza della presenza.

Dovrò fare ricorso, alla miniera della memoria. Dunque scaverò anche nella mia cava eidetica, cercando di mettere insieme – come scrive Luciano Del Pistoia a proposito di luoghi e personaggi che si raccontano – «quei sedimenti della memoria che la fantasia richiama in vita quando ci capita di sognare il nostro tempo passato » 3

***

All’inizio degli anni Cinquanta, meno di un lustro dopo il diploma di laurea di Bruno Callieri (1948), ero iscritto a medicina all’Università di Roma. Si era appena conclusa la seconda guerra mondiale, l’Ateneo romano si chiamava semplicemente “Università degli Studi”, ma aveva ereditato il titolo pontificio di "Studium Urbis" da Benedetto Caetani di Anagni (1230-1303), meglio noto, tanto nel bene che nel male, come Papa Bonifacio VIII. Non era neppure quello del Palazzo della Sapienza, l’antica Università romana, dove oggi si ammira la secentesca chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza, opera ventennale e sofferta di architetti geniali come Giacomo Della Porta, Borromini e Bernini. Era, invece, il nuovo ateneo fascista, quello imponente, monumentale, con la statua della Minerva, sulla piazza e la fontana omonima. La Città universitaria, tipico paesaggio classicheggiante dell’architettura frenetica del ventennio, era stata inaugurata nel 1935. Tutta marmi, colonne, giardini e spazi imperiali, era nata nella mente di Marcello Picentini, che lo scrivente ha avuto modo di conoscere negli ultimi suoi giorni di vita. La nostra Università (quella mia e di Bruno Callieri, non si chiamava “La Sapienza”, ma galleggiava ancora fra le prime trenta del ranking mondiale.

Fin dai primi anni di Corso, mi recavo spesso al civico 30 di Viale dell’Università, sede dell’Istituto di Clinica delle Malattie Nervose e Mentali, allora diretto da Mario Gozzano, e conoscevo già Bruno Callieri. Tra i giovani allievi dell’istituto, c’era interesse e ammirazione per un cortese, ma singolare professore, che viaggiava in piedi sulla “circolare”, alla volta della Clinica, con una mano appesa alla maniglia e l’altra stretta su un libro aperto, in perenne lettura, senza staccare mai gli occhi dalle pagine. C’erano due fermate del tram: una prima e una dopo Viale regina Elena; una più vicina al tragitto verso la clinica, l’altra più giù, all’ingresso del “baretto” della Città Universitaria. Capitava spesso che assorto nella lettura posticipasse la fermata. Confesso, vergognandomi un po’, di averlo spiato, una volta, per vedere quando sarebbe sceso sulla terra, allontanandosi dalla lettura. Ripensandoci in chiesa, il mio spiare di allora, era piuttosto una strana magnetizzazione carismatica che emanava la sua presenza.

L’incrocio strategico dell’incontro, come ho rammentato, era il semaforo che regolava il traffico tra Viale Regina Elena e Viale del’Università, per l’appunto. Era il nodo strategico per gli studenti di medicina del primo biennio. Una sorta di “Quattro canti di città”, dove si affacciavano severi gli Istituti di Anatomia e Biologia, il “Regina Elena” dei tumori, quello di fisiologia e il muro del Policlinico Umberto I. Lui scendeva dalla “circolare rossa”, proveniente da Piazza Ungheria, io salivo da Viale Ippocrate, proveniente da Via Borelli, dove abitavo coi miei genitori. Arcani segnali del destino!

Nel 1954, frequentavo il quarto anno di medicina Ero andato a trovare Cristoforo Morocutti, amico di famiglia e mio mentore della disciplina medica e neurologica, nella “Clinica Neuro”, quando era assistente di Mario Gozzano, e fu così che mi trovai per caso ad assistere alla lezione di libera docenza in “Psichiatria” di Bruno Callieri. Il tema della lezione riguardava “Le demenze”, e Bruno mi confessò nell’ultimo nostro incontro che aveva pescato l’argomento proposto da Bruno Visintini, da Toscolano del Garda, un grande maestro alla Clinica di Parma.

Il fatto curioso, però, è che la sala approntata per lo svolgimento della prova orale (la fatidica “lezione”) del 1954, era insolita. Si trovava, infatti, – se la memoria non mi tradisce – al primo piano (per l’esattezza il piano rialzato), ossia quello della cattedra di Gian Carlo Reda. Bruno lo ricordo benissimo, il suo eloquio fluente, altrettanto, ma tutto quello che rivedo eideticamente, è che ero approdato ad una sala con la porta socchiusa, dopo aver salito i primi dieci gradini dell’entrata principale, e girato subito a destra, come guidato da una voce magica che risuonava sapiente, nel religioso silenzio dell’Istituto. Tutto era fuori del comune, poiché la sala delle docenze, ossia il luogo fisico dove si riuniva la commissione esaminatrice, solitamente, era quella del secondo piano (per l’esattezza l’ammezzato) un vano spazioso, di fronte alla salita della scala principale, confinante col laboratorio-analisi a destra (dove, spesso, salivamo i gradini due a due col liquor appena punto).

Del 1956, il ricordo è più limpido, anche perché c’era Vito Maria Buscaino, bruciato da Mario Gozzano sul filo di lana della chiamata alla cattedra di Roma, cinque anni prima. Sempre per caso – ma passavo buona parte della giornata in Istituto per imparare (la neurologia, soprattutto, seguire la visita, guardare i vetrini e preparare la tesi) – fui testimone anche della seconda docenza di Bruno Callieri. Questa volta era in “Clinica delle malattie nervose e mentali”, quella magistrale, classica, di Freud e Wernicke, tanto per intenderci, dove il candidato doveva dimostrare di conoscere, aver frequentato ed esercitato la pratica della neuropsichiatria, in tutti i reparti della clinica (anche la radiologia, con tanto di angiografie: carotidea o vertebrale), e “possedere una buona esperienza in entrambi i campi della neurologia e della psichiatria” e, soprattutto, “aver pubblicato un congruo numero di lavori tanto nell’uno quanto nell’altro ramo della disciplina”, secondo il linguaggio dei verbali delle commissioni dell’epoca.

Quel giorno, si svolse tutto secondo prassi, e fu il trionfo della congiunzione carnale della neurologia e della psichiatria: erano uscite le “Epilessie temporali”, il tema proposto da Vito Maria Buscaino alla commissione. L’officiante Bruno Callieri – raffinatamente sontuoso e letterariamente erudito – quando parlò della coscienza, dell’aura, della sospensione della presenza, degli automatismi mimici, gestuali, deambulatori, contrappuntati con citazioni di Agostino di Ippona, di Cartesio, di Pascal, catturò l’uditorio (gli accademici arcigni e qualche abusivo mio pari) come i profeti al Tempio. Ma trionfò irresistibilmente, si superò, trascese addirittura nel divino, quando principiò a descrivere le esperienze interiori di Smerdjakov… ma potevano essere anche quelle del principe Myskin. Mi ero sempre proposto di chiederglielo. Nell’ultimo incontro non ci fu il tempo: «… Sergio, mi capita spesso di usare la metafora della partita di calcio, dicendo che sono alla fine del secondo tempo supplementare. No! Sono ai calci di rigore». Ora il tempo è davvero finito e non potrò più sapere quale delle due figure di Fëdor Michailovi? Dostoevskij fosse: se quella malvagia o quella caritatevole. Probabilmente, nella sua appassionata narratività didattica, Bruno, alludeva ad entrambe; l’esistenza, la vita umana, l’esperienza di mondo, le comprende entrambe, ambedue impastano la condizione umana, Callieri lo sapeva benissimo e ce lo ha anche raccontato in quel bellissimo suo libro che è Corpo esistenze mondi. Per una psicopatologia antropologica (2007).

***

Il secondo ricordo concerne l’epoca, la circostanza e il motivo profondo del “perché mi sono fatto psichiatra“ come dice Bruno in una intervista recentissima on line registrata da Francesco Bollorino “Bruno Callieri, Dialogo sulla vita e sulla morte ...” (l’ultima, di questo tipo, credo). Non che non lo fossi, prima, “psichiatra”, tecnicamente almeno per un metà, ma era ed ero diverso.

Sostavo già da tempo nei paraggi, della psichiatria, ma ero semplicemente uno specialista in Clinica delle malattie nervose e mentali (approdatovi dalla medicina interna) con inclinazioni fortemente neurologiche. A trarmi da questa ambiguità tra mente neuronale e mente psicologica, mi aiutò Bruno Callieri, indirizzandomi, tanti anni fa, verso la passione per l’esistenza un magico cronotropo. Questo improvviso viraggio dal martelletto dei riflessi, la stazione eretta, la deambulazione, al mondo delle riflessioni e delle competenze psicopatologiche, non remote alla filosofia fenomenologica, ha un antefatto, con la complicità di Bruno, che vale la pena di richiamare, anche per illustrare le sue virtù di guida virgiliana nella dimensione dell’alterità aliena .

La Daseinsanalyse dunque. Perché tanta fascinazione per tale metodologia? Perché vi trovavo opportunità di comprensione (Verstehen), possibilità di immedesimazione (Einfühlung) ricchezza di illuminazioni (Erleutung) di situazioni complesse e di donazione di senso all’apparente insensatezza della simbologia psicotica, tante opportunità di accedere agli esistenziali del Dasein, della presenza, del mondo del deliro, della depressività della maniacalità, della percezione della fine del mondo. Soprattutto, stabilire con questi mondi di queste persona lontane, un rapporto interpersonale, praticare la reciprocità e l’intersoggettività nella relazione di cura.

Approdato alla psicopatologia antropofenomenologica in modo del tutto fortuito, ma non altrettanto casuale, mi è capitato sovente di tornarvi nel corso di questi ultimi quarant’anni. Avevo pensato di dedicarmici completamente, allorché – folgorato sulla via di Damasco, in compagnia e con la malleveria contagiosa di Bruno Callieri.4 – mi apparvero improvvisamente praticabili, oscure nozioni come la riduzione eidetica e la descrizione noematica della fenomenologia husserliana. Solo che fossero appena incalzate dalla critica dell’esistenzialismo sartiano (per me più familiare), promettevano insperate illuminazioni sulla comprensione della follia umana.

Di codesta “psicopatologia filosofica”, ne scoprì personalmente le infinite possibilità alla sala dell’Auditorium del Palazzo dell’Amministrazione Provinciale di Milano, nei sei giorni di fuoco (12-17 ottobre, dal sabato al giovedì) che incendiarono il famoso XXX Congresso della Società Italiana di Psichiatria (SIP) del 19685. Ero sceso alle “Stelline”, con quel sussiego altezzoso, tipico di chi si teneva sul sicuro delle certezze neurologiche, girava per la “Neuro”, con la “lucciola” e l’oftalmoscopio, nel taschino e, nella tasca del camice, il martelletto: quello col manico lungo, di legno, alla Russell Brain, per intenderci. Ero li, a Milano, al Congresso degli Psichiatri, perché, nonostante lo scetticismo e la prosopopea, le mie certezze neurologiche, in fondo, non erano poi tali. Soprattutto erano lungi dal soddisfare completamente i miei interessi riguardo alla persona ammalata nel cervello e dintorni6.

Avevo trascinato fin lì tutti i miei dubbi di neuropsichiatra, quella mattina del 15 ottobre 1968, che cadeva di martedì. Di buonora, nella sala della piccola colazione, mi sedetti accanto a Bruno Callieri che stava quasi ultimando la sua e ordinai un caffè, prima di tutto.

Con amabile sollecitudine – quella che Lorenzo Calvi chiama la cordialité de la parole7 – mi disse

“Su, fai in fretta, ché alle 10 c’è il secondo tema di relazione: Personalità premorbosa ed esordio della schizofrenia introduce GE Morselli… guarda che GE sta per Giovanni Enrico, non fare confusione… poi, a seguire, le relazioni di Vella e Giannini”.

Un po’ febbrilmente, informatissimo e col solito entusiasmo, schiacciava sul tavolino, scansando tazzine, bricchetti e ripulendo dalle briciole, il depliant del Congresso, la pagina aperta sul programma della giornata, come fossimo al Festival di Cannes:

“Giovanni Enrico Morselli, un fenomenologo straordinario, lavora all’Ospedale psichiatrico di Novara, è un’autorità internazionale sulle esperienze allucinatorie. Gli altri due sono candidati alla cattedra, è il loro battesimo del fuoco, Vella lo conosci, no? Giannini, invece… beh! Bisogna che tu ci parli. Si dice sia l’astro nascente della psicopatologia fenomenologica, è sposato con la Del Carlo, la neuropsichiatra infantile, viene dalla scuola di Pisa, da Pintus ora Sarteschi, è un toscano coltissimo. Adesso finisci di fare colazione, bada, però, che alle 11 non devi assolutamente perdere la Relazione di questo Aldo Giannini Modalità esistenziali e situazioni prepsicotiche schizofreniche. Sai, ci ha lavorato tutta l’estate!” – Mi spiegava tutto ciò, confidenzialmente, da fratello maggiore.

”Pare sia anche andato un paio di volte da Cargnello, a leggergliela”.

Bruno, entusiasta come al solito, era tanto assertivo, quanto convincente e premuroso. Mentre trangugiavo il caffellatte aggiunse:

“Ah! Se non dovessimo rincontrarci, ricordati domani, mercoledì 16 ottobre, ore 9, Aula A, c’è Cargnello, tratta Il problema della corporeità, devi sentire anche lui. Poi c’è Adolfo Bovi, un ferrarese bravissimo, Corporeità e schizofrenia...”

Continuando a sfogliare il depliant aggiunse, portando la voce dal fondo sala:

“… Vedi che con Cargnello presiede Fabio Visintini… cattedra di Parma… buona scuola psichiatrica… sai che non è distante dalle posizioni fenomenologiche? Sono curioso di sentire i commenti… ciao!”

Imboccò acrobaticamente la porta-saloon aperta dall’avventore che lo precedeva, prima che si richiudesse e, senza staccare le mani dal programma, se ne andò8.

***

Poco prima del commiato definitivo, ero andato a trovarlo nella sua casa romana di Via Nizza, una mèta consueta e accogliente per gli amici più stretti. Ci riceveva volentieri: « … mi hai fatto una piccola fleboclisi di vita – amava ripetere, con la sua proverbiale umiltà, ironia e saggezza – ti sono infinitamente riconoscente ».

Ho reso un breve visita all’amico, il 18 gennaio 2012. Ci siamo incontrati, alle cinque della sera. Mi ha ricevuto nel suo studio, dietro la solita scrivania, con la lucidità del capitano di lungo corso, il pensiero e le riflessioni sulla narratività precisa, essenziale, antieroica, nondimeno aporetica, riflettente tutti i possibili dubbi e le inquietudini dell'animo umano sul senso ultimo della vita, non tanto sulle rotte percorse, alla Conrad, Joseph Conrad, tanto per intenderci.

Chissà perché, Bruno, ora che scrivo del nostro commiato, penso, a Cuore di tenebra. Rivedo il vecchio Marlow, il marinaio che, in attesa della marea favorevole del Tamigi, per salpare, racconta le lunghe peripezie per recuperare il misterioso Kurtz – feroce commerciante d’avorio, senza scrupoli, impazzito, fisicamente malato, per giunta, tanto che morirà nel viaggio di ritorno dopo aver pronunciato la tremenda esclamazione « Che orrore! Che orrore!», – e riportarlo a casa.

Chissà perché la risalita del fiume dell’Africa nera per trarre Kurtz dalla sua folle deriva sciamanizzante coi nativi, gli incontri di una varia umanità abbrutita e selvaggia, mi pare, ora, una grande metafora della tua indefettibile ricerca di senso negli atti umani tutti, sani e malati che fossero. Ti vedo risalire nel tempo e nello spazio, in epoche ormai remote (a molti, non a me, a noi due); vedo l’eidos del fratello maggiore, ripercorrere la lunga strada di formazione della sua vita di giovane psichiatra della scuola romana di Cerletti, curioso e intelligente, risalire l’Europa postbellica per giungere fino ad Heidelberg, e a tutte le altri grandi capitali del sapere psichiatrico del Vecchio Continente, ridotto (per la seconda volta, nel tellurico volger del feroce secolo breve) ad un cumulo di macerie e di miserie morali e materiali come diceva Ernesto de Martino.

Poche parole, le nostre ultime, misurate, dense, molta emozione. Per un attimo abbiamo anche ripreso la nostra vecchia querelle sulla biografia (molto vicina all’anamnesi). «… Perché, Sergio, vuoi sapere quand’è nato e quand’è morto quell’autore? – mi ribatteva sempre, quando gli chiedevo di Antonio Castellani, di Adolfo Bovi, per dire dei meno ricordati della psicopatologia fenomenologica – Che t’importa? Basta sapere quello che ha fatto, quello che ha scritto, il suo pensiero, l’essenziale». Di Ernesto de Martino, de La fine del mondo, del tuo rammarico per l’abbandono di un progetto comune per la trattazione di questo tema, di questa angoscia psicotica, schizofrenica per la precisione, che tu, per primo, avevi descritto nei “malati della Neuro”, e che lui aveva letto, dei tuoi saggi, ed era venuto a cercarti, avevamo già parlato a lungo, qualche anno fa. «Che t’importa come, quando… quel progetto tramontò… l’essenziale».

Ne scrissi anche, come tu mi raccontasti 9: «A distanza di trent’anni dalla sua prematura scomparsa, il signif­icato di Ernesto de Martino per lo psicopatologo clinico permane tuttora pienamente valido, anzi appare sempre più fecondo. Egli invero, con acuta sensibilità fenomenologica non solo hegeliana ma anche husserliana, evidenziò in modo esemplare territori di grande rilevanza psichiatrica: tra questi, anzi tra i primi di questi, il fatto che l’uomo si muove in un universo di simboli, è specificamente il simbolopoieuta. Ecco l’homo animal symbolicum, ecco il simbolo junghiano, così ben colto da Mario Trevi nella sua concezione di “dimensio­ne progettuale del simbolo”. Dico subito che la Lebenswelt del fenomenologo de Martino ­come io ebbi a conoscerlo personalmente molti anni fa (e fu conoscenza indimenticabile!), è densa di significanze simboliche (a volte pure inespresse), che nelle forme spazio-temporali del loro esserci-nel-mondo attuano quel che Cassirer ebbe a chiamare “memoria simbolica”, memoria che poi, a ben vedere, sotto la penna di de Martino, ricostituisce in forme coerenti la dispersione dei dati sensibili.»10.

Solo per un attimo, Bruno… la nostra vecchia querelle sulla biografia… avevi già convenuto che un autore, dovendo essere contestualizzato nel periodo storico, andava descritto, sia dal punto di vista fenomenologico che da quello storic: una piccola anamnesi, insomma.

“Ora ti debbo salutare, Sergio, scusami…

L’essenziale, per l’appunto. Ci siamo parlati, ci siamo riconosciuti, mi ha chiesto di me, mi ha raccontato di lui, della sua esperienza di marea montante con l’edema polmonare “l’acqua fredda che gli invadeva i polmoni”, l’esperienza dell’angoscia smondanizzante. Era sereno, lucidamente sereno, sapendo che dopo l’ultimo calcio di rigore … l’onnipotente avrebbe fischiato la fine. Gli ho portato il manoscritto inedito di una mia recensione sull’ultimo libro di Eugenio Borgna La solitudine dell’anima, che ha gradito, mostrandosi felice e pregustandone la lettura. Non credo abbia trovato il tempo per esercitare una delle sue passioni predilette… la lettura, quella lettura del saggio di un amico, l’ultimo dono di un fratello minore, anche compagno di via.

Note:

1 Luciano Del Pistoia. Necrologio di Lanteri-Laura (Nizza 1930-2004 Parigi) Il profilo di un maestro. Comprendre n. 14, 2004, pp. 9-16.

2 “Insieme con Gilberto Di Petta abbiamo provato a collocare i più autorevoli rappresentanti della psicopatologia di ispirazione fenomenologica in Italia lungo l’arco di tre generazioni. L’elenco è del tutto provvisorio e aperto a ogni integrazione, contributo, revisione”. (Mario Rossi Monti. Introduzione a Danilo Cargnello. Alterità e alienità. Fioriti, Roma, 2010.)

3 Id. Il giardino delle statue di sale. Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1997, p. 216.

4 L’amico Bruno, che era già stato contagiato da medesima folgorazione nei suoi giri di apprendistato da Heidelberg a Zurigo, a Parigi e in quasi tutte le scuole della mitteleuropa del secondo dopoguerra, a sua volta, si dedicava a folgorare antropofenomenologicamente allievi, amici e colleghi, e non solo romani.

5 Provenivo dalla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma, non ancora “La Sapienza”, come ho già detto, semplicemente “Università degli Studi”, versione meno retorica del littoriale “Studium Urbis”, ma assai più prestigiosa e sapiente di quella odierna. Mario Gozzano aveva sostituito Ugo Cerletti, ormai da quasi un ventennio, nella direzione dell’Istituto.

6 C’era qualcosa, della follia, in particolare, che mi sfuggiva e m’incuriosiva allo stesso tempo. Alcunché d’inelegante, illogico, brutalmente tragico, e irridente, nella psicosi, si beffava del mondo neurologico, neuroanatomico, istopatologico, neuroradiologico. Questo m’inquietava, anche perché sovvertiva le leggi della neurofisiologia più eccelsa, quella di Moruzzi e Magoun, il sonno, la veglia, quella di Eccles, inibizione, facilitazione di potenziali pre-, post-sinaptici, allora in grande auge, sui quali mi ero giocato tutto: tesi di laurea, specializzazione, libera docenza e un timido conato di carriera accademica (il ramo psichiatrico di quella che allora era la neuropsichiatria) per la stima e l’affettuosa insistenza di Raffaello “Ninì” Vizioli.

7 Cfr. Lorenzo Calvi. Callieri ou la cordialité de la parole. PM n 5 1990, p. 111 e Comprendre 5/1990.

8 Questo fu, per l’appunto, il mio battesimo all’antropofenomenologia. Poi, me ne sono allontanato per dedicarmi all’incontro con l’alterità esotica: l’immigrato. Da circa trent’anni è divenuto un tema di stretta attualità. Studiare una persona che giunge nel nostro paese da altre culture, altri modi di pensare il mondo, la spiritualità, di osservare le feste e le tradizioni, m’incuriosiva. M’interessava sapere quali difficoltà dovesse superare, l’altro, per vincere le sue e le nostre diffidenze. Quale prezzo valessero i suoi adattamenti culturali per trovare il pane che andava cercando. Se, nel Servizio di Salute Mentale, dove ho continuato a lavorare dopo la chiusura dei manicomi, potevo in qualche modo aiutare i nuovi ospiti che vi si rivolgevano. Ma anche a chi ce li accompagnava, i suoi datori di lavoro (per lo più) a comprendere prima di tutto un bisogno elementare, che noi, in un passato non lontano, avevamo conosciuto molto bene. Ho sempre pensato che l’ascolto delle narrazioni delle storie di vita delle persone migranti, non fosse molto distante dalla psicopatologia fenomenologica e dall’antropologia culturale, ma la questione centrale restava che non si era mai riusciti a spiegare con sufficiente chiarezza le differenze tra alterità culturale e alienità mentale. Una faccenda apparentemente ovvia, in realtà difficilissima, almeno a giudicare dal riaffiorare di derive xenofobe. Peraltro, tutte le ovvietà sono tali, dal momento che ciò che è lapalissiano per uno non è detto che lo sia anche per l’altro, fermo restando la buonafede di tutti, gli uni e gli altri. Monsieur de La Palice lo era sicuramente, ma la storia ha dimostrato che l’ignoranza si può emendare, sempre, la malafede no.

9 Ernesto de Martino, divoratore di tematizzazioni psicopatologiche, dopo aver letto il lavoro di Bruno Callieri. Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo. Archivio di Psicologia Neurologia e Psichiatria. XVI, fasc., IV e V Luglio-Ottobre 1955, concernente uno studio sulla Weltuntergangserlebnis di 2 pazienti ricoverati all’Istituto di Clinica delle Malattie nervose e Mentali dell’Università di Roma, lavoro che precisava meglio i contorni antropofenomenologici di una osservazione di poco precedente [Bruno Callieri e Aldo Semerari. Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo. «Rassegna di Studi Psichiatrici», Siena, Vol. 43, Fasc. 1, pp. 3-25, 1954.], effettuata su 7 pazienti della stessa Clinica, con analoghi vissuti di angoscia di fine del mondo, aveva voluto conoscere personalmente Callieri. «Mi aveva convocato, pensa tu, uno studioso già famoso che voleva parlare con un giovane assistente della Neuro e proprio di quei pazienti» – mi confidò una volta con estrema modestia, ma molto lusingato, l’amico Bruno – «Sull’esperienza di fine del mondo, la Weltuntergangserlebnis appunto, voleva una collaborazione da me… c’era anche un piano di lavoro, ma non se ne fece nulla» – Domandai a Callieri il perché, nella speranza di chiarire un mistero antico, ma Bruno si limitò a rispondere «La morte precoce di de Martino fu più rapida dei nostri progetti». (Comunicazione personale).

10 Il passo è tratto da Sergio Mellina. Padri fondatori della psichiatria transculturale: Ernesto de Martino, Georges Devereux, Michele Risso. Cammei (pp. 589-606). In Pietro Bria, Emanuele Caroppo, Patrizia Brogna, Mariantonietta Colimberti. “Trattato italiano di psichiatria culturale e delle migrazioni”. Editore: SEU, Roma, 2010

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