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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Negli oscuri sentieri dell'anima

Postfazione al volume:

L'attesa e la speranza
(Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 219-221)

Eugenio Borgna


Introduzione
di Laura Corbelli

Presentiamo qui le riflessioni di Eugenio Borgna dal titolo Negli oscuri sentieri dell’anima, che fungono da post-fazione del libro “L’attesa e la speranza” pubblicato da Feltrinelli (Milano,2005).
Il libro, che riassume tematiche già trattate altre volte dall’autore, propone questa volta un’immersione nella patologia dal punto di vista del vissuto profondo della temporalità, che come l’autore stesso sottolinea “(...)ci avvicina ai modi di essere di esperienze psico(pato)logiche altrimenti insondabili.”
La prima parte del libro intitolata “Sulla scia della memoria” porta riflessioni molto personali dell’autore, basate perfino sul suo primo giorno di lavoro in Ospedale psichiatrico che, attraverso un linguaggio a volte anche tortuoso, come spesso è il linguaggio di chi racconta accoratamente un’esistenza, ci conduce all’Attesa e alla Speranza come coordinate portanti di ogni esistenza. Queste “stelle polari”, così come piace chiamarle nell’introduzione all’autore, ci costringono a riflettere sul o sui sensi profondi della patologia dove chiaramente si mostrano in forma stravolta, ma ci invitano anche a osservare come spesso la comprensione delle stesse in noi possa divenire il punto di partenza per un atto accogliente in terapia e per ciò stesso già terapeutico “(...) la speranza curatrice che in chi cura e in chi è curato si costituisca in una sua reciproca circolarità salvifica”. A questo proposito infatti l’ultimo capitolo del libro dal titolo “Le parole della speranza e del silenzio” propone una riflessione concreta rispetto a queste due direttrici nell’ambito della terapia che, come luogo di incontro ed ascolto, pone necessariamente a confronto l’attesa e la speranza quindi le strutture profonde dell’esistenza sia del terapeuta che del paziente, alla ricerca di una nuova donazione di senso.
Un ringraziamento particolare all’autore che ha dato il consenso per la riproduzione di queste pagine del testo. Viceversa la casa editrice Feltrinelli ne ha autorizzato la riproduzione in questo sito solo per 3 mesi.



Non so se questo mio discorso ai confini della psichiatria clinica, ma nel cuore della psichiatria fenomenologica (della psi-chiatria della interiorità come sarebbe forse meglio definirla), ab-bia potuto fare riemergere i significati di esperienze, come quel-le della attesa e della speranza, del tempo e dello spazio, ai fini di una più articolata comprensione delle forme di vita psicopa-tologica e del suicidio che è in esse ma anche nella vita possibi-le di ogni giorno. Non so se questo mio discorso indirizzato in fondo alla ricerca dei fondamenti comuni alla psichiatria e alla vita di ciascuno di noi possa essere considerato astratto e maga-ri dereistico; ma vorrei in ogni caso ricordare come il cammino conoscitivo della psichiatria fenomenologica, indicato fra gli al-tri da Ferdinando Barison, da Ludwig Binswanger, da Bruno Callieri, da Danilo Cargnello, da Eugène Minkowski, da G.E. Mor-selli, da Kurt Schneider e da Erwin Straus, abbia sconvolto gli scenari della psichiatria: cambiandone non solo le premesse teoriche e dottrinali ma anche i modi concreti di incontrare e di cu-rare ogni paziente: come poi Franco Basaglia ha dimostrato nel-le trincee aperte di una rivoluzionaria psichiatria sociale.
Nulla di nuovo sotto il sole, certo, ma l'attesa e la speranza mi hanno consentito di ripensare da altri punti di vista (da altre angolazioni) i grandi temi senza fine dell'angoscia e della dispe-razione, della sofferenza e della tristezza, del senso della vita e della morte, del vivere e del morire, della morte volontaria e del-la libertà inaridita che è in essa, della possibilità come categoria kierkegaardiana della vita così fragile e così precaria. Questi te-mi sono stati in ogni modo svolti sulla scia delle risonanze inte-riori che gli eventi della vita hanno ridestato nella coscienza di pazienti a cui sono andato incontro: nella attesa e nella speran-za di potere dare loro un aiuto non solo farmacologico. Alle te-stimonianze interiori di pazienti ho ancora una volta accostate quelle rintracciate in testi, in diari e in lettere, e talora in poesie, di autori che abbiano saputo cogliere qualcosa di radicalmente significativo delle loro emozioni e della loro anima: schiacciate dal dolore e ritentate ogni volta, e poi una volta per sempre, dal-la fascinazione inarrestabile della morte volontaria. Ovviamen-te, fra le une e le altre testimonianze ci sono differenze e ci sono analogie; ma nelle une e nelle altre scorre la linfa carsica di una angoscia e di una attesa infranta, di una speranza negata e di uno smarrimento desolato, che non hanno fine.
Ovviamente, non mi sarebbe stato possibile analizzare i mol-teplici volti dell'attesa (dell'attesa di eventi dolorosi e di eventi lie-ti, di eventi che giungano sulle ali dell'angoscia così frequente in ogni attesa) senza immergerla negli intrecci che essa ha con il tempo: con il tempo vissuto. La dimensione temporale delle espe-rienze, e non solo di quelle psicopatologiche, ha contribuito a fa-re riemergere gli elementi profondi della vita interiore e della vi-ta emozionale che sono presenti in ciascuno di noi: anche se ta-lora nascosti e insondabili. Quando il tempo vissuto si frantuma, e non sopravvive se non il passato nella dissolvenza del futuro (dell'avvenire), come avviene in ogni profonda condizione de-pressiva, non ci sono più attese e non ci sono più speranze. L'at-tesa allora vive nel tempo e vive del futuro; e l'attesa (l'attesa nel dolore e l'attesa nel conoscere i segni del destino vicino e lonta-no, il destino di una malattia e il destino di una cura, la passio-ne dell'attesa e l'attesa che giunga l'ora della morte volontaria) è davvero una componente essenziale della vita che avrei voluto fa-re riemergere nelle sue diverse articolazioni tematiche: anche in quelle che entrano in gioco nel dialogo senza fine fra chi cura e chi è curato. L'attesa come grande metafora della vita: direi.
L'attesa non è la speranza: anche se l'una può sconfinare nell’altra; e in ogni caso della speranza, di questa categoria vitale così significativa e così necessaria, non si parla se non in una psichiatria orientata fenomenologicamente. Dalle cose, che so-no venuto dicendo, mi sembrano rinascere gli orizzonti di sen-so di una speranza che è premessa ad ogni slancio vitale e che, quando viene meno o almeno si incrina, trascina con sé una de-pressione talora fatale e irrevocabile nelle sue conseguenze. Co-noscere gli andamenti della speranza nel contesto di alcune espe-rienze psicopatologiche e cliniche, e non solo di quelle depres-sive, è senz'altro molto utile al fine di seguirne e di valutarne le ricadute; e del resto la speranza, la sua presenza o la sua assen-za, testimonia di modi radicalmente diversi di confrontarsi con la vita: con le sue crisi e i suoi naufragi. La speranza nella sua trascendenza senza fine ci rimette in una continua relazione con il mondo delle persone e con il mondo delle cose; mentre le sue eclissi si accompagnano immediatamente al dilagare delle ombre e della notte oscura dell'anima con le loro angosce e le loro lacerazioni. Sono esperienze che sgorgano dagli abissi della vi-ta interiore e che si conoscono solo se si ha il coraggio di scru-tare questi abissi senza fondo.
La situazione cruciale, quella nella quale le défaillances della speranza si rivelano nella loro evidenza più emblematica e cru-dele, è costituita ovviamente dal suicidio: dal suicidio tentato e mancato, e dal suicidio realizzato: al di là delle divaricazioni ta-lora motivazionali che ci sono nell'uno e nell'altro. Non ci si può non confrontare con il tema della speranza quando ci si incontri con una persona sfiorata, o sommersa, dalla idea e dalla fasci-nazione della morte volontaria; e questo non solo nella depres-sione ma anche nella esperienza schizofrenica: dalla quale, quan-do si guarisca, può rinascere il desiderio di morire: nella ango-scia, in questa speranza negata, che la malattia si ripeta. Forse, allora, non è possibile sondare il mistero insondabile di un sui-cidio se non si rifletta sulla speranza e sulle speranze: sulla loro fenomenologia e sui loro bagliori: sulle loro oscillazioni e sulle loro metamorfosi: sulle loro fatali alternanze con l'angoscia del-la morte: come Georges Bernanos ci ha rivelato nelle pagine im-memoriali dei suoi dialoghi delle carmelitane. Il suicidio che na-sca dalle ceneri della speranza, certo, e il suicidio talora che ri-nasca dalla ricerca di una diversa speranza: anche se dilaniata e comunque ferita dalla vita divenuta senza una altra speranza.
I circoli tematici dell'attesa e della speranza si incontrano e si intrecciano nella concretezza di ogni dialogo terapeutico; e su questo mi è sembrato giusto insistere: richiamandomi alla im-portanza delle attese e delle speranze che nascano nei pazienti ma anche di quelle che nascano in noi: le une confrontandosi con le altre: nella ricerca dell'indicibile che si nasconde nel si-lenzio delle parole e nelle parole del silenzio: quelle degli occhi e degli sguardi. Non solo negli incontri che la vita ci propone ogni giorno, ma anche, e soprattutto, negli incontri che si han-no con pazienti divorati dalla angoscia e dalla inquietudine, è davvero necessario intendere il senso misterioso di un dialoga-re nel silenzio; e questo al fine di intuire cosa sentano e cosa pro-vino: quali attese e quali speranze inquiete abbiano: quali om-bre scendano sugli orizzonti della loro vita. Non si possono ana-lizzare e descrivere complesse relazioni emozionali e dialogiche, come queste, se non servendosi di parole umbratili e leggere (ma come fare a trovarle?) che almeno non tradiscano i silenzi e i paesaggi dell'anima nelle sue nostalgie malate e stanche, ferite e inconoscibili, desolate e aperte nonostante tutto ad una qualche speranza.

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