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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

C'è ancora un senso nella psicopatologia?

Eugenio Borgna


Questo articolo è già stato pubblicato dalla rivista "ATQUE. Materiali tra Filosofia e Psicoterapia" in un numero dedicato alla psicopatologia (Ancora la Psicopatologia?, n.13,p.155-178, 1996)



Non so se abbia ancora un senso parlare di psicopatologia in un contesto storico in cui, nei paesi nord-americani ma anche in quelli europei, sembra dominare una psicologia biologica (una farmacopsichiatria nel migliore dei casi) estranea, radicalmente estranea, alla dimensione psichica delle esperienze psicotiche e neurotiche e intesa alla loro riduzione, alla loro nientificazione, in schemi (in funzioni) neurofisiologici e neurochimici.
Questa è teoria, certo, ma in psichiatria, e non solo in psichiatria del resto, ogni prassi clinica e ogni modalità di agire (anche) terapeutico è condizionata dalla visione teorica che noi abbiamo delle realtà psichiche e, in particolare, delle esperienze neurotiche e psicotiche che si tematizzano come oggetto della psichiatria. Se la psichiatria non è altro se non scienza naturalistica, scienza che si occupa dei soli modi di funzionamento delle strutture encefaliche e diviene encefalo-iatria (E. Borgna, 1995), quale significato ci può mai essere nel confrontarsi con i fenomeni intenzionali della vita psichica, con la plasmabilità e la interscambiabilità delle esperienze in chi cura e in chi è curato? Se la psichiatria è in ultima istanza scienza della oggettività, non ha alcun senso analizzare e descrivere le esperienze vissute dai pazienti nel contesto di una articolazione dialogica (F. Barison, 1988; M. Buber, 1993; H.-G. Gadamer, 1983) di un discorso.
Cosa conosce, e come conosce, una psichiatria che voglia fare a meno di ogni analisi e di ogni valutazione della vita psichica? Sulla scia della antica lezione kraepeliniana (E. Kraepelin, 1920) il paradigma della coscienza si incentra, e si esaurisce, sugli aspetti del comportamento e sulle sue abnormi modalità di espressione? Certo, anche le macromolecole (abnormi) della vita psichica vengono utilizzate (le esperienze deliranti e allucinatorie: lo faceva, del resto, anche Emil Kraepelin questo) al fine di stabilire se si abbia a che fare con una forma depressiva, o con una forma dissociativa; ma le esperienze psichiche vengono reificate: considerate come sintomi destituiti di senso: destituiti della dimensione intenzionale che hanno i fenomeni psichici.
In una psichiatria, a cui sia estranea la vita interiore (la interiorità) dei pazienti, non c'è spazio se non per l'applicazione di questionari, strutturati o semi-strutturati, che della vita interiore di una persona non rivelano se non segmenti atomizzati e congelati: svuotati e destituiti di senso e di interiorità.
Rovesciamo, e ribaltiamo, il background del discorso: cosa si conosce, e come si articola la conoscenza, in una psicopatologia che continui ad essere la struttura portante (B. Callieri, 1984; D. Carniello, 1977; E. Minkowski, 1966; K. Schneider, 1962) della psichiatria?

La descrizione, e l'analisi, e cioè la conoscenza, non sono possibili in psicopatologia senza la partecipazione radicale della soggettività del medico alla soggettività del paziente. Non c'è una modalità di conoscenza astratta e oggettiva, in psicopatologia, ma in essa ogni forma di conoscenza è inesorabilmente implicata e immersa in una spirale ermeneutica, in una circolarità ermeneutica, che trascini con sé la soggettività (la interiorità) del paziente e la soggettività del medico: la sua interiorità.
Non c'è possibilità di conoscenza in psicopatologia, dunque, non c'è captazione possibile degli orizzonti infiniti che fanno da sfondo ai fenomeni psichici, che possano prescindere dalle connessioni radicali con l'area problematica e sfuggente, ma essenziale, della intersoggettività.
Al di là delle contrapposizioni teoriche che separano la psicopatologia clinica dalle psicopatologie fenomenologiche (queste ultime, a loro volta, diversamente tematizzabili in senso fenomenologico-descrittivo (K. Jaspers, 1913-1959; K. Schneider, 1962), in senso fenomenologico-eidetico (V.E. von Gebsattel, 1964; E. Minkowski, 1966; E. Straus, 1960) e in senso fenomenologico-trascendentale (L. Binswanger, 1965), la psicopatologia clinica e le psicopatologie fenomenologiche si riconciliano, e si ritrovano unite, su di un terreno comune e su di una comune ricerca: nella alleanza conoscitiva fra la nostra interiorità e l'interiorità dei pazienti; nella interscambiabilità inesauribile delle esperienze. Non ci è possibile conoscere nulla di ciò che avviene negli abissi delle soggettività, della nostra soggettività e della soggettività dei pazienti, se non rinunciamo ad ogni atteggiamento di distacco e di neutralità, di fredda e gelida scientificità, di fronte ai pazienti; e se non ci serviamo della intuizione e della immedesimazione.
Questo è l'aspetto essenziale di ogni riflessione sul senso della psicopatologia e sulla sua ineliminabile importanza in psichiatria.
Solo mettendo-fra-parentesi ogni impostazione ideologica, ogni teoria che si sovrapponga come un diaframma impenetrabile alle realtà umane (normali o patologiche), solo muovendo dalle esperienze vissute dai pazienti e mettendoci dalla parte dei pazienti mediante una conoscenza che si abbia ad alimentare di immedesimazione e di intuizione, è possibile cogliere le dimensioni e le interne articolazioni della vita psichica e il senso (delle aree semantiche) che da essa, di volta in volta e di situazione in situazione, riemerga: frastagliato e straziante, doloroso e opaco, silenzioso e nostalgico.
Cosa ci può dire, in alternativa a questa (interna) forma di conoscenza che si esaurisca nella valutazione esteriore di un comportamento e nella indifferenza alla introspezione e all'ascolto? Cosa ci può dire, insomma, una forma di conoscenza che si serva degli artigli spietati della raison calcolante e oggettivante (reificante) quando si confronta con le luci e le ombre camaleontiche delle emozioni: della tristezza e della nostalgia, della disperazione e della angoscia, della desolazione e della desertitudine, della frantumazione e della elisione dell'io?
Non sono interrogazioni decadenti e inutili, convenzionali e scontate, queste, se pensiamo alle modalità dominanti con cui, almeno in molte aree di psichiatria italiana (che, pure, si svolge in contesti funzionali infinitamente aperti, grazie alla rivoluzione metodologica e operativa promossa da Franco Basaglia (1981, 1982), da una psichiatria umanizzata e rigorosa insieme), avviene, e si svolge, una pratica clinica a-nonima e indifferenziata, opaca e muta.
Una psichiatria, che faccia a meno delle labili sonde della psicopatologia (delle sonde che abbiano a fare lievitare le stratificazioni magmatiche delle emozioni), si trasforma in una glaciale somministrazione di sostanze farmacologiche o in una meccanica applicazione di metodologie riabilitative: incentrate sugli aspetti di superficie, e non su quelli di profondità, di una défaillance o di uno scacco esistenziale, o anche solo pragmatico. (Le categorie della interiorità e della esteriorità si delineano, sfolgoranti, nel discorso di Emmanuel Lévinas [1982].)
La psicopatologia clinica, quella legata al discorso magistrale di Karl Jaspers (1959), ha riconsegnato scientificità alla vita interiore dei pazienti, alla loro soggettività, e alla esigenza di ascoltare i pazienti nelle loro autodescrizioni che, nella psichiatria antecedente e parallela a quella jasperiana, venivano radicalmente e intenzionalmente ignorate e sottovalutate: considerate, come emblematicamente in Emil Kraepelin (1920), del tutto inattendibili e inutili. Con una metanoia copernicana, della quale non si finisce mai di essere ammirati, la fonte della conoscenza si sposta definitivamente, repetita juvant, dalla osservazione e dalla descrizione dei modi di essere esteriori (dei modi di essere comportamentali) alla immedesimazione e alla immersione nelle esperienze vissute dei pazienti.
Certo, dalla interiorità dei pazienti, dalla analisi fenomenologica e psicopatologica di ciò che avviene in essi, continuano a scaturire (non c'è mai una fine alla originalità [G.E. Morselli, 1975] delle esperienze psicopatologiche) modi di esperienza che, normali o a-normali, sono qualitativamente diversi o patologici, assumono una radicale significazione anche diagnostica.
In questo senso, non solo le manifestazioni della coscienza dell'io, e quelle della vita affettiva e del pensiero, ma anche le esperienze dello spazio e del tempo sono realtà che hanno dimensioni soggettive e sono accessibili alla intuizione e alla introspezione. Non è un discorso astratto e velleitario, nemmeno questo, ma è un cammino conoscitivo che, articolato con le categorie dello spazio e del tempo, dilata e approfondisce la conoscenza delle strutture costitutive delle esistenze psicotiche e neurotiche: con le conseguenti implicazioni anche terapeutiche.
Come ci si confronta con un paziente, in quella esperienza decisiva che è il colloquio, come ci si confronta con l'esperienza che egli ha del tempo e dello spazio (così diversa da quella che si ha nella condizione umana "normale"), come ci si confronta con il suo volto e il suo sguardo (P. Lain-Entralgo, 1980): sono questioni, queste, che hanno a che fare con la psicopatologia radicale: fenomenologico-soggettiva (K. Jaspers, 1959) o fenomenologico-obiettiva (L. Binswanger, 1957, 1965), e che sono del tutto sconosciute ad una psichiatria clinica schiacciata in una Einstellung di in-differenza e di lontananza.
Quali connessioni ha questo discorso con le realtà cliniche e psicopatologiche quotidiane?
La psicopatologia ha riscoperto il senso dello spazio vissuto e della distanza vissuta sia per la comprensione dei modi di essere nella separatezza autistica o nella ebbrezza maniacale che divora gli spazi sia per la articolazione di una comunicazione con le esperienze psicotiche e neurotiche. La distanza e la vicinanza vissute sono, infatti, categorie essenziali in ciascuna di queste aree psicopatologiche e (psico)terapeutiche.
Ma la psicopatologia ha riscoperto (anche) il senso, e la importanza, del tempo, del tempo soggettivo e del tempo vissuto, che è cosa altra dal tempo obiettivo: dal tempo delle lancette dell'orologio. Quando incontriamo un paziente, la riuscita, o lo scacco, dell'incontro si gioca (anche) sulla linea di una valutazione e di una decifrazione dei modi con cui il tempo è vissuto (esperito) dal paziente. Non ci sono, nemmeno qui, se non la intuizione e la immedesimazione che ci consentano di intravedere quali siano le sequenze, e le modificazioni, del tempo (vissuto) in questa, o in quella, condizione psicotica, o neurotica, ma anche in questa, o in quella, situazione umana: al di là di una sua qualsiasi connotazione abnorme.
Come ha genialmente affermato Agostino (Le confessioni) nel tempo è possibile distinguere il presente, il passato e il futuro che, nelle condizioni di esistenza "normale", si definiscono come dimensioni l'una intrecciata con l'altra; mentre nelle esperienze neurotiche, ma soprattutto in quelle psicotiche, si disaggregano e, infine, si sfilacciano. Non posso non ricordare come nella depressione si abbia una modificazione del tempo vissuto così radicale da perdere la dimensione del futuro: non sopravvivendo se non un presente (il presente del presente in senso agostiniano) che viene a mano a mano risucchiato e divorato dal passato (dal presente del passato) sempre più inarrestabile. Nella dissolvenza del futuro si inabissa la speranza, e l'orizzonte temporale precipita in uno scenario di tenebra a cui viene meno ogni scheggia di luce (E. Borgna, 1992).
Ora, non ha senso, nemmeno clinico e terapeutico, confrontarsi con una esistenza depressiva, e del resto anche con una esistenza maniacale, o schizofrenica, senza tenere presenti queste modificazioni profonde e paradigmatiche del tempo (vissuto) che, solo, le sonde di una psicopatologia dialettica e rigorosa riescono a cogliere e a tematizzare.

Non c'è psichiatria, dunque, che possa fare a meno di una psicologia considerata nella sua inesauribile significazione di disciplina che abbia ad analizzare e a descrivere, a isolare e a tematizzare, i fenomeni (i segni) che riemergono dal fluire ininterrotto della vita psichica.
La psicopatologia, la decifrazione dei segni dotati di senso, consente una conoscenza più radicale e più profonda dei modi di essere di ogni esperienza neurotica, e di ogni esperienza psicotica, e consente (anche) di fondare le esperienze essenziali e categoriali che separano le esperienze neurotiche da quelle psicotiche: tematizzando ciascuna di esse nei suoi contenuti e nelle sue articolazioni formali che rimandano alle radicali epistemologie jaspersiane. Sottratta alle sue fondazioni psicopatologiche la psichiatria si svuota fatalmente del suo statuto di scienza dialettica e di scienza umana: inaridendosi in modelli di conoscenza incentrati sulla tecnica e sulla "malattia", o desertificandosi in modelli pratici di discorso: banali e designificati.
La psicopatologia si riflette anche nei modi con cui la diagnosi, in psichiatria, abbia ad essere rifunzionalizzata. Solo nella ricerca degli elementi psicopatologici (dei sensi psicopatologici), che la costituiscono, la diagnosi in psichiatria riassume una sua emblematica significazione dialettica e dialogica che nasce, e si continua, fra paziente e medico: nel contesto di una relazione interpersonale, di una rifondazione intersoggettiva della relazione, che fugga ad ogni reificazione e ad ogni negazione del senso e che non rinunci mai alla intuizione e alla immedesimazione (alla Einfühlung) come strumenti essenziali di conoscenza.
Non solo questo: la psicopatologia è essenziale anche al fine di una farmacoterapia rigorosa e dialettica che sia continuamente rimodulata nell'orizzonte delle diverse articolazioni sintomatologiche che si stratificano in ciascuna esistenza neurotica, o psicotica.
In ogni caso, la psicopatologia si costituisce come una sfida radicale alla banalizzazione della tecnica e alla dimensione critica e culturale in psichiatria.

Bibliografia

Agostino, Le confessioni, Garzanti, Milano, 1989.
Barison, F.,Un segno siamo, senza significato, in "Psichiatria generale dell'età evolutiva", 26, 1988, pp. 1-8.
Basaglia, F., Scritti I: 1953-1968, Einaudi, Torino, 1981.
---, Scritti II: 1968-1980, Einaudi, Torino, 1982.
Binswanger, L., Schizophrenie, Neske, Pfullingen, 1957.
---, Wahn, Neske, Pfullingen, 1965.
Borgna, E., Malinconia, Feltrinelli, Milano, 1992.
---, Come se finisse il mondo. Il senso dell'esperienza schizofrenica, Feltrinelli, Milano, 1995.
Buber, M., Il principio dialogico e altri scritti, Edizioni San Paolo, Milano, 1993.
Callieri, B., Quando vince l'ombra, Città Nuova, Roma, 1984.
Cargnello, D., Alterità e alienità, Feltrinelli, Milano, 1977.
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Gebsattel, V.E., von, Imago Hominis, Neues Forum, Schweinfurt, 1964.
Jaspers, K., Allgemeine Psychopathologie (1913-1959), Springer, Berlin-Göttinger-Heidelberg, 1995.
Kraepelin, E., Die Erscheinungsformen des Irreseins, in "Zeitschrift für die gesamte Neurologie und Psychiatrie", 62, 1920, pp. 1-29.
Lain-Entralgo, P., Antropologia medica, Edizioni Paoline, Milano, 1980.
Lévinas, E., Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1982.
Minkowski, E., Traité de psychopathologie, Presses Universitaires de France, Paris, 1966.
Morselli, G.E., "Esiste un'attività psicopatologica originale?", in L'esistenza psicopatologica, Torino, 1975, pp. 255-268.
Schneider, K., Klinische Psychopathologie, Thieme, Stuttgart, 1962.
Straus, E., Pychologie der menschlichen Welt, Springer, Berlin-Göttingen-Heidelberg, 1960.

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