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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Arnaldo Ballerini

AUTISMO E SCHIZOFRENIA: UNA PROPOSTA.

Tratto da "Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico" - (Capitolo 8)

Casa Editrice: Bollati Boringhieri, Torino, 2002, pp.136-154


E’ stato pubblicato in questi giorni il volume di Arnaldo Ballerini Patologia di un eremitaggio. Uno studio sull’autismo schizofrenico (Bollati Boringhieri, Torino, 2002), accompagnato da una postfazione di Enzo Agresti. In questo saggio l’autore sviluppa una serie di considerazioni di grande interesse sul tema dell’autismo schizofrenico da una prospettiva psicopatologica, sia nel senso della fenomenologia soggettiva, sia nel senso della fenomenologia oggettiva. Un approccio di questo tipo permette di recuperare un concetto di grande importanza storica, clinica e concettuale che si è perso per strada nel cammino della psichiatria contemporanea. Come è noto infatti i moderni manuali diagnostico-statistici non recano traccia dell’autismo se non nella sua variante applicata alla psicopatologia dell’infanzia. Ballerini mostra come l’autismo, che non è un sintomo (ma è più di un sintomo), che non è riducibile ad un vissuto e che non si identifica, come ingenuamente si tende a pensare, con l’idea del ritiro in se stessi, è un tratto della persona pre-psicotica e - nella eventualità di un percorso che comporti una sua pervasiva assolutizzazione - diventa il nucleo patoplastico della schizofrenia. In maniera analoga a quanto Wolfgang Blankenburg ha descritto come “perdita dell’evidenza naturale” nelle schizofrenie pauci-sintomatich,. Dopo avere individuato nello scrivano Bartleby del racconto di Herman Melville il prototipo dell’esistenza autistica, dopo avere analizzato l’evoluzione storica dell’ autismo (anche nei rapporti che l’autismo propriamente detto intrattiene con il cosiddetto “autismo” depressivo e con tutta l’area della sintomatologia negativa) Ballerini conclude il libro con un capitolo intitolato Autismo e schizofrenia: una proposta. Grazie alla disponibilità dell’autore e alla cortesia dell’editore Bollati Boringhieri siamo stati autorizzati a riprodurre in rete (per un periodo di 6 mesi) l’intero capitolo.

Mario Rossi Monti & Antonella Di Ceglie



Capitolo 8
Autismo e schizofrenia: una proposta.

E’ stata, e torna ad essere, una diffusa nozione considerare l’autismo quale elemento centrale della schizofrenia, ma la sua declinazione nella definizione clinica di ciò che continuiamo a chiamare schizofrenia è assai vaga ed imprecisa.
In effetti la storia dei tentativi per definire la o le sindromi del gruppo delle schizofrenie, è -come ho ricordato all’inizio - largamente una storia di fallimenti. La grande sintesi di E.Kraepelin (1889) riuniva nella malattia Dementia Praecox quadri psicotici disparati, dalla ebefrenia alla maggior parte dei deliri,sul principio non solo e non tanto della possibile transizione da un gruppo sintomatologico all’altro, quanto degli esiti in comune, assai fatalmente destinati ad una condizione cronica di disgregazione simil-demenziale, anche se tutt’altro che uguale alle demenze su base organica. <<L’idea di “demenza” è infatti lo spettro che si aggira tuttora nei meandri della diagnosi di schizofrenia...>>,scrivono L.Del Pistoia e Coll.(1993) e nonostante i cambiamenti che proprio il concetto di “demenza” ha subito nei decenni, lo stesso E.Kraepelin ad un certo punto del suo pensiero distaccò, come è noto, le sindromi “parafreniche”, in quanto trattasi di vistosi deliri cronici che tuttavia non evolvono verso uno stato di decadimento, nè verso una pervasiva chiusura ermetica nel mondo personale. Il principio ordinatore kraepeliniano era che ad esito uniforme deve corrispondere un uniforme processo di malattia. E’ noto anche come la operazione di E.Kraepelin fosse stata essenzialmente condotta in ambiente istituzionale, manicomiale, e sappiamo quanto la c.d. sindrome da istituzionalizzazione pesi sulla condizione finale dello schizofrenico. Nei cento anni seguiti una lunga serie di studi è stata condotta sugli esiti della malattia di Kraepelin, rifusa da E.Bleuler nel concetto di “gruppo delle Schizofrenie”. Anche se E.Bleuler non era molto più ottimista di Kraepelin circa gli esiti delle schizofrenie, lo spostamento di accento da lui operato sui meccanismi dinamico-psicologici del disturbo e la sua idea che si trattasse comunque di una sorta di “demenza affettiva” e non intellettiva, incoraggiava alla verifica di possibilità prognostiche comportanti una reversibilità. Dai più importanti dieci studi di esito della schizofrenia condotti nel secolo J.Cutting (1986) conclude che al giorno di oggi, circa un quarto dei pazienti dopo una prima ammissione in ospedale va incontro a completa guarigione, circa un altro quarto va incontro ad un cronico deterioramento sociale ed intellettuale che richiede frequenti ricoveri e/o una grande impegno di supporto comunitario, e circa una metà dei pazienti ha un decorso oscillante fra questi due estremi, ma con stati finali giudicati globalmente “favorevoli” nel 49% da L.Ciompi e C.H.Muller (1976), nel 53% dei casi da M.Bleuler (1978), nel 57% da G.Huber e Coll.(1979). Naturalmente i parametri di decorso-esiti sono da sempre inestricabilmente connessi ai criteri diagnostici adoperati. Per esempio J.Cutting sottolinea come la scelta dei D.S.M. (dalla terza edizione in poi) di considerare criterio diagnostico indispensabile per la schizofrenia che il disturbo con caratteristiche sintomatologiche schizofreniche perduri per almeno sei mesi, fa sì che i pazienti con cattiva prognosi risultino iper-rappresentati. Una delle più accurate valutazioni dei fattori influenzanti il decorso e gli esiti della schizofrenia è quella condotta nello studio internazionale sui decorsi-esiti della schizofrenia (WHO, 1979): dei quarantasette probabili predittori analizzati (che tuttavia “spiegano” soltanto il 40% circa della variabilità) il più potente predittore di cattivo decorso è la condizione pre-psicotica di scarsa integrazione nella vita sociale e sessuale. Non è difficile scorgere in questa constatazione empirica un richiamo agli eventuali tratti autistici nella personalità pre-morbosa, visto anche che la forma sintomatologica delle prime fasi del percorso psicotico possiede invece un valore predittivo quasi nullo. L. Ciompi definitivamente conclude che non esiste una cosa definibile come specifico decorso della schizofrenia e che <<Alla luce degli studi di lungo termine, ciò che è chiamato “il decorso della schizofrenia” somiglia più strettamente a un processo di vita aperto ad una grande varietà di influenze di ogni tipo più che a una malattia con uno specifico decorso>> (L.Ciompi,1986,traduzione mia).
Ciò che è evidente è che il concetto di un quasi uniforme decorso verso prevalenti uniformi esiti,è ormai smentito e non può essere usato per individuare e riunire un gruppo di psicosi in una entità nosografica unica, chiamata dementia praecox o schizofrenia. La defettualità che fu accettata quale carattere essenziale fino a ritenere che anche i pochi pazienti guariti, senza più fenomenica produttiva, ne recassero il segno (E.Kraepelin scriveva di <<Heilung mit Defekt>>: guarigione con difetto),è stata smentita quale decorso generalizzato. Noi stessi (A.Ballerini, M.Rossi Monti,1983) abbiamo analizzato il decorso ed esiti di 101 pazienti corrispondenti ai criteri diagnostici del D.S.M.III per il disturbo schizofrenico, e seguiti in continuità per dieci anni dal nostro gruppo di lavoro, ed esenti da prolungati ricoveri. Nei 25 pazienti giunti ad una totale scomparsa delle fenomenica psicotica non abbiamo rilevato alcuna modificazione degli aspetti, normali o patologici che fossero, della personalità pre-psicotica, e pertanto non abbiamo verificato la esistenza di una guarigione che comporta il quid novum del Defekt post-schizofrenico.
Anche la tesi bleuleriana del disturbo associativo quale fenomeno primitivo e caratterizzante delle sindromi schizofreniche si è rivelata assai vaga nella sua applicazione clinica, fino a dilatare, come in passato è avvenuto sovrattutto nella psichiatria statunitense, i limiti della schizofrenia quasi ad libitum, in una sorta di evaporazione del concetto stesso.
Il successivo tentativo, fortemente coerente metodologicamente e radicale nella sua linearità, è stato quello di K.Schneider e del gruppo di Heidelberg, di asserire che la diagnosi di schizofrenia è una diagnosi di stato e non di decorso, qualsiasi esso sarà, e che si fonda sulla psicopatologia jaspersiana, vale a dire sullo studio delle esperienze interne del paziente. E’ questo studio che ha portato ad individuare alcuni modi dell’esperire, alcuni Erlebnisse considerati tipici, e che sono stati tradotti a livello semiologico dai “Sintomi di I° Rango” di K.Schneider. L’impatto che questo modo di pensare ha avuto ed ha nella clinica della schizofrenia è enorme, per il rigore epistemico che lo connota, ed i “Sintomi di I° Rango” sono entrati in ogni sistema diagnostico della schizofrenia; direttamente o camuffati, come per i disturbi dell’Io, le esperienze di influenzamento, in gran parte fatti erroneamente rientrare e confusivamente mescolati dai D.S.M.(III e successivi) nell’ambito dei deliri, come “deliri bizzarri”.
Le conseguenze della psicopatologia schneideriana della schizofrenia non sono piccole: esclude dall’ambito definitorio della schizofrenia sia la linearità del decorso verso stati cronici, abolendo così, almeno a livello di criteri diagnostici, quello che era stato il “pricipio di Kraepelin” (<<Per noi la diagnosi psichiatrica si basa fondamentalmente sui quadri di stato e non sul decorso>>, K.Schneider 1950,op.cit.p.97), ed esclude inoltre il ruolo fondamentale che il disturbo delle associazioni aveva avuto nella definizione bleuleriana della schizofrenia e dei suoi esiti (<<Per “scucito” - zerfahren - si intende, in senso stretto, il fatto che non si possono compiutamente collegare insieme i rapporti di dipendenza di un pensiero con il precedente...Molto spesso gli schizofrenici pensano e parlano proprio così. Ma gradi più leggeri di “scucitezza” possono esservi ovunque...Per quanto anche questi disturbi del pensiero possano essere importanti per l’essenza e la teoria della schizofrenia, essi tuttavia, da un punto di vista diagnostico-pratico, sono di scarsa importanza>>. K.Schneider,1950, op.cit. pg. 97 e 104). Così ogni delirio, “autentico” in quanto fondato su esperienze interne del tipo “percezione delirante”, è per l’A. sintomo schizofrenico, ed inoltre, a mio parere, si centra la attenzione più su un modo, fugace o duraturo, di procedere della mente, su uno stato dell’esperire chiamato schizofrenia, che sulla malattia schizofrenica in senso clinico. L’operazione di psicopatologia clinica di K.Schneider sembra in definitiva più cogliere il profilo indiscutibile della o delle psicosi non-affettive, che non una specifica psicosi chiamata schizofrenia.
Con questo sfondo conoscitivo, che pur resta fondamentale per lo psichiatra, era forse inevitabile che venisse poi mostrata la non-specificità assoluta dei fenomeni di primo rango ed in particolare come essi possano accadere in condizioni appartenenti al circolo della psicosi maniaco-depressiva, specialmente nei c.d. stati “misti” o rapidamente alternanti fra mania e melanconia.
Lo sforzo di gran parte della psichiatria contemporanea di definire secondo criteri operazionabili che escludano al massimo la soggettività dell’osservatore (e, largamente, del paziente) ha portato a definizioni della schizofrenia quale quella del D.S.M.IV (1994), che nel tentativo programmatico di essere del tutto “ateoretica” in realtà mescola relitti di teoresi forti del passato, da Kraepelin a Bleuler a Schneider, attraverso i criteri “cronologico”, “funzionale” e “sintomatologico”.
E’ come se la classica osservazione psicopatologica che nessun sintomo di per sè è patognomonico della schizofrenia e che la “schizofrenicità” deriva da un contesto globale percepito dall’osservatore e nel quale i diversi sintomi sono immersi, fosse stata cosificata sottolineando la necessità di una diagnosi “politetica” piuttosto che “monotetica”, mentre in realtà nel pensiero di Weitbrecht, o di Binswanger, o Minkowski ed altri eminenti psicopatologi quella osservazione significava che per quanti criteri sintomatologici si mettano insieme è il peculiare “modo di essere” schizofrenico che colora tipicamente i diversi sintomi.
I criteri definitori della schizofrenia del D.S.M.IV sono stati via via messi in dubbio ed è recente la critica, lucida e spietatamente logica, scritta da M.Maj (1998). L’A. richiama in quel testo il concetto di autismo, dopo essersi posta la domanda se i metodi operazionali mostrano la fragilità del costrutto di schizofrenia (che potrebbe essere un gruppo eterogeneo di “psicosi idiopatiche”) o se invece è l’essenza della schizofrenia che mette in crisi i metodi operazionali, ed evoca la possibilità che il fenomeno autismo possa essere definito in maniera sicura ed affidabile come uno degli aspetti clinici centrali della schizofrenia, salvando così, mi sembra, una ulteriore possibilità all’approccio operazionale alla schizofrenia.
Naturalmente è a mio parere auspicabile una integrazione fra approccio fenomenologico e criteriologico: senza però dimenticare che il primo è più <<person oriented>> ed il secondo più <<morbus oriented>>, e dobbiamo chiederci se l’approccio olistico dal quale provengono categorie come l’autismo è un puro sentimento soggettivo, o avviene da parte dell’osservatore una effettiva operazione di riconoscimento(A.Kraus,1991,1994). Tutto ciò spinge A.Kraus a sottolineare che la diagnosi fenomenologica, per quanto contenga un radicale di maggiore specificità, dovrebbe sempre accompagnarsi ad un approccio sintomatologico.
Ho ricordato in precedenza il concetto di “circolo ermeneutico” e la complementarità che ne deriva fra ricerca “eidetica” e ricerca “empirica” nella psicopatologia della schizofrenia. (cfr.J.Z.Sadler,1992).

<<La regola ermeneutica secondo cui bisogna comprendere la totalità sulla base del particolare, e viceversa, ha origine nella retorica antica, e l’ermeneutica moderna l’ha trasportata dall’arte del discorso a quella del comprendere. In entrambi i casi abbiamo di fronte a noi un rapporto circolare. L’anticipazione di senso con cui ci si riferisce alla totalità diviene comprensione esplicita grazie al fatto che le parti definite dalla totalità definiscono a loro volta questa totalità>> (H.G.Gadamer,1959,1995,pg.57). L’”anticipazione di senso” riferita alla totalità è una visione intuitiva, che nella prassi spesso accade attraverso una sorta di fenomenologia naive della globalità della persona schizofrenica, ma che richiede per essere fondata una ricerca fenomenologica propriamente detta, dell’essenza, dell’eidos del fenomeno studiato; e d’altronde la definizione delle parti, della quale ci parla Gadamer, equivale ad una ricerca empirica dei dati. Questo è il tipo di progetto del quale abbiamo veramente bisogno per declinare nella clinica della schizofrenia l’intuizione fenomenologica dell’autismo. Ma è evidente che occorrerà un grande lavoro scientifico perchè ciò, se è possibile, avvenga. Da questo punto di vista credo di essere meno ottimista di quanto mi appaia M.Maj nell’editoriale citato (1998). Fino ad oggi è accaduto che l’essenza stessa dell’autismo, che ne fa una diversa e specifica maniera di essere,svanisse quando si è cercato di trascriverlo in categorie definitorie, in caratteristiche osservabili nell’ambito dell’esperienza naturale. J.Parnas e P.Bovet (1991) si mostrano ben consapevoli di questo rischio metodologico quando scrivono che l’autismo si <<disintegra>> nel modello descrittivo-obbiettivistico della medicina e che <<resiste>> (defies) ad ogni formulazione operazionale, ma poichè è tuttavia un fenomeno fondamentale nella diagnosi di schizofrenia e schizotipia, potrebbe essere possibile che clinici esperti di schizofrenia svelino il fenomeno autismo, da essere poi consegnato a studi empirici, operazionalizzabili. Del resto già K.Schneider (1950) precisava che soltanto psichiatri molto esperti sono in grado di dare un valore conoscitivo alla valutazione del rapporto con il paziente. Ma è anche vero che questa capacità varia assai in variabili contesti e in diverse continuità dell’incontro psichiatrico, ed è inoltre difficile escludere quanto derivi dalla personalità dello psichiatra.
Vi sono due possibilità affinchè una visione intutivo-eidetica (come l’autismo) divenga una realtà interpersonale: che sia assunta come tale nella comunità intersoggettività, o che divenga l’ambito di elaborazioni empiriche. (L.Calvi, comunicazione personale).
H.Gundel e G.A.E.Rudolf (1993) hanno esplorato questa seconda strada usando un metodo testo-analitico applicato a tutte le pubblicazioni accessibili sull’autismo schizofrenico e centrando l’attenzione sull’approccio descrittivo-empirico, per uscire dalla condizione “amorfa” ed “ambigua” nella quale l’autismo è caduto, anche per la sua estensione alla melanconia, mania ed altri disturbi psichici,ma essenzialmente -aggiungo- per la sua matrice fenomenologico-ermeneutica ed esistenzialistica. Gli AA. ricercano una definizione <<nomotetica>>, cioè realizzabile nell’ambito delle scienze della natura ed in grado appunto di fornire regole e leggi generali, e si riferiscono al neo-positivismo di R.Carnap e del Circolo di Vienna e la centralità attribuita al linguaggio e alla sua sintassi logica nella scienza. Su questa strada H.Gundel e G.A.E.Rudolf perseguono la “adeguatezza” della definizione di autismo che propongono, non con la intenzione di soppiantare il concetto fenomenologico di autismo, ma di traferirlo almeno in parte nel <<linguaggio obbiettivo-descrittivo classificatorio di oggi>>. Basandosi sull’autismo quale “disturbato rapporto con la realtà”, essi propongono cinque criteri:1)pervasivo isolamento nelle relazioni quotidiane;2)non-integrazione in attività basiche, come scuola,lavoro,etc.,la non interruzione delle quali eclude la diagnosi di autismo;3)pensiero non orientato,almeno in parte,verso la realtà; 4)rigida aderenza a questo pensiero non-realistico;5)mancanza di contatto affettivo. Tutti e cinque questi criteri devono essere soddisfatti perchè si possa parlare di autismo, in modo che ciò sia comunicabile e vi sia consenso sul suo significato.
Questo tipo di ricerca appare estremamente importante in psichiatria proprio perchè epistemologicamente sostenibile: confronta una intuizione globale, il concetto fenomenologico di autismo, con la validazione dei singoli dati empirici che lo rappresentano. Mi sembra tuttavia che mentre singoli criteri, o anche gruppi di essi, possono essere realizzati in condizioni diverse dall’autismo schizofrenico (per esempio il criterio 1 più il 3 e il 4, in sindromi deliranti, e lo stesso contenitore globale di “rapporto disturbato con la realtà”- al quale non sembra aggiungere molto la parola “autisticamente” - allude più generalmente alla psicosi che specificamente alla schizofrenia), e inoltre gli stessi criteri contemporaneamente presenti, come gli AA. richiedono,mi sembra indichino più stadi o forme gravi della schizofrenia, che non l’autismo come caratteristica essenziale del disturbo schizofrenico e della vulnerabilità ad esso. Il profilo delineato dai cinque criteri presi assieme è infatti quello di un paziente isolato dal contesto, che non esplica alcuna attività, che delira o comunque è assorbito rigidamente in un inaccessibile mondo interno che non si confronta con la realtà, e incapace di condivisibile contatto affettivo-empatico con gli altri.
Sembra di essere condannati ad una sorta di circolo vizioso per il quale i sintomi con elevata affidabilità (valga l’esempio di determinate esperienze deliranti o allucinatorie) risultano non specifici, comunque secondari, e non necessariamente trasmettono l’essenza della patologia dello spettro schizofrenico; mentre fenomeni più globali, quali l’autismo, sembrano più specifici, ma perdono almeno in parte questo carattere quando vengono declinati in sintomi empirico-categoriali. W.Blankenburg parla del paradosso della “specificità del non-specifico”.
E.Dein (1966) scriveva che per valutare l’eventuale assetto autistico di un paziente lo psichiatra dovrebbe <<chiudersi gli occhi>> di fronte ad eventuali sintomi quali disturbi del pensiero, deliri e allucinazioni, che tendono a far sopravalutare all’osservatore la presenza dell’autismo. Definendo l’autismo come una <<tipica relazione fra il paziente e gli altri>>, come un tratto persistente e tipico della persona, secondo l’autore esso potrebbe esser dedotto dalla anamnesi, esperimentato nel rapporto e, talora, comunicato dal paziente stesso.
Naturalmente il paziente dello spettro schizofrenico non comunica sull’autismo di per sè (che è una intuizione eidetica dello psicopatologo), nè più nè meno come il melanconico non verbalizza la “includenza” e “rimanenza” (H.Tellenbach,1974) e la smagliatura della temporalità costituente, ma - in casi peraltro non frequenti - ci può comunicare la sua problematica posizione, il suo vissuto di insicurezza “ontologica” (e non banalmente “ontico-esistenziale”) rispetto alla naturalità degli altri e rispetto al common sense del mondo del vivere. Si tratta in genere di osservazioni privilegiate ed esemplari che possono essere proficue soltanto per una psichiatria che valuti il concetto di “tipo ideale”,(M.Weber 1949 ,K.Jspers 1913,1959) cui è per definizione negata ogni validazione statistica, ma la cui penetranza nel campo del comprendere può essere elevata. Il “caso Schreber” (S.Freud) o il “caso Wagner” (D.Cargnello) o il “soldato Reiner” (K.Conrad) o il “caso Rau” (W.Blankenburg) hanno portato contributi fondamentali alla nostra conoscenza dei modi di essere psicotici. I “tipi ideali” <<Non nascono come medie valutate dal conteggio delle frequenze, ma come figure pure, che nella realtà si presentano solo approssimativamente...Traggono la loro verità dalle relazioni di un tutto comprensibile...>>, <<I tipi ideali risultano quando, da certi presupposti, io sviluppo ogni possibile conseguenza costruendo causalmente o comprendendo psicologicamente, e quindi vedo un tutto...>>, essi <<sono la misura sulla quale misuriamo i singoli casi concreti>>. (K.Jaspers 1913,1959 pg. 469,603).
Si tratta di osservazioni esemplari da due punti di vista: intanto per poter cogliere e comunicare stati di animo e modi di esperire ll Sè e gli altri allusivi a quella intuizione dello psichiatra indicata come autismo, occorre che la fenomenica psicotica non sia troppo inondata da deliri e allucinazioni che coprono come suoni il rumore di fondo del modo di essere autistico, ed inoltre si tratta sempre di psicotici che sono stati al centro di una particolare attenzione: non semplicemente studiati a lungo, ma entrati in un duraturo rapporto di scambio con lo psichiatra, anche se la sensazione di trovarsi di fronte ad una presenza autistica può affacciarsi come un lampo fin dall’inizio. Talora la comunicabilità dell’esperienza della trasformazione schizofrenica della persona è legata a particolari capacità riflessive ed espressive. K.Jaspers cita come esempio di questa conoscenza di sè alcuni versi dello schizofrenico Holderlin: <<Dove stai tu? Ho vissuto poco, ma respira fredda/ Già la mia sera. E silenzioso già simile all’ombra/ Io sono quì; e già senza canto./ Dorme il cuore fremente nel petto.>>
Donata R., una giovane donna che incontro regolarmente da 15 anni in un rapporto che si sforza di essere psicoterapico, ha avuto periodi di sommesso delirio (anche “bizzarro”), ma essenzialmente, al di là di questi “momenti fecondi”, soffre per un grave disturbo schizotipico di personalità che ha condizionato suoi modi di pensare e comportamenti, con una indifferenza emozionale a molti eventi e relazioni importanti ed assieme una bruciante iperestesia in altre situazioni. Donata mi ripete: <<...ho sempre sentito gli altri come troppo lontani o troppo vicini...non riesco a capire in un rapporto fino a che punto si può essere vicini o lontani..>>. E per questa carenza dell’ovvietà della vita intersoggettiva, degli “assiomi della vita quotidiana”, aggiunge <<gli altri mi hanno preso in giro...>>: ove già la non-confidenza si muta in diffidenza. In un altra occasione dirà: <<...è come se non mi potessi lasciare andare con naturalezza con gli altri...come se mi osservassi sempre, e così mi stanco: mi sento sempre stanca perchè devo pensarmi e costruirmi...>>.
Questa drammatica mancanza del paradigma pre-cognitivo e pre-verbale che si estriseca nel common sense, investe assieme il Mondo ed il Sè, anche se la carenza di sintonia con il mondo quotidiano trova nell’autismo la sua punta più saliente proprio nel rapporto con le altre persone. Il concetto minkowskiano di “contatto vitale con la realtà” può essere ricondotto alla famosa asserzione di E.Husserl (1936,1970): << Ciò significa che all’interno del flusso vitale dell’intenzionalità nel quale consiste la vita di un ego-soggetto, ogni altro ego è già da prima intenzionalmente implicato sulla strada dell’empatia e dell’orizzonte empatico>>. La difficoltà o impossibilità ad “intenzionare” gli altri appare un punto centrale della condizione autistica, ed il disturbo della intenzionalità costitutiva dell’esserci intersoggettivo può essere indicato (Ch.Mundt,1985) come il disturbo fondamentale della schizofrenia.
D’altra parte è stato rilevato che la perdita dell’ovvietà intersoggettiva, che lascia lo schizofrenico o la persona pre-schizofrenica così spesso e drammaticamente in balia della deriva della “perplessità” e “ipereflessività”, assume valenza patologica per la sua coatta sproporzione, a differenza della sospensione della naturalità dell’esperire attivamente realizzata dal filosofo mediante la epochè fenomenologica, che mette appunto fra parentesi il quotidiano fondarsi sul common sense. Se la “perdita dell’evidenza naturale” significa solo una perdita della dialettica fra evidenza e non-evidenza, dialettica che fonda la normalità (W.Blankenburg,1971,1982) e se <<Il carattere patologico dell’epochè risiede nel perdere il contatto con la realtà storica e culturale>> (G.Stanghellini,1997,op.cit.pg.186),l’aspetto più evidente della patologia consiste tuttavia nell’essere-costretti-ad-essere in una dimensione, quale unica possibilità dell’esistere.
David Hume scriveva in “A Treatise on human nature” (1737):<< La meditazione intensa delle molteplici imperfezioni e contraddizioni della mente umana ha tanto agito su di me...ch’io sono pronto a rigettare ogni credenza...a non riguardare più nessun’opinione come più probabile o verosimile di un’altra. Dove sono? Che cosa sono io? Donde deriva la mia esistenza ?...Quali esseri mi circondano? Su quali ho io influenza, quali hanno influenza su di me? Io mi confondo...e comincio a credermi...avvolto dalle tenebre più profonde e privato interamente dell’uso di ogni senso e di ogni facoltà. Per mia grande fortuna, se la ragione è incapace di dissipare queste nubi, a ciò pensa la natura, la quale mi cura e guarisce di questa tristezza e di questo delirio filosofico: la tensione della mente si allenta, mi distraggo, un’impressione vivace dei miei sensi manda in fuga tutte queste chimere. Ecco, io pranzo, gioco a tric-trac (nell’originale:a game of back-gammon), faccio conversazione, mi diverto con gli amici...>> (trad.it.1971,pg 280-281).
Sfortunatamente gli schizofrenici non giocano a back-gammon. Vale a dire il filosofo può liberamente uscire ed entrare nel common sense, lo psicotico invece lungo il percorso verso la condizione schizofrenica si imbatte in molte porte per uscire dall’esperienza naturale, ma in nessuna per spontaneamente rientrarvi.

D’altra parte il rapporto autismo-schizofrenia mi appare spesso concepito in maniera troppo statica, in relazione ad un concetto altrettanto statico di schizofrenia come specifica sindrome (se non specifica malattia) esistente come tale nel paziente fin dall’esordio dei disturbi psicotici, e che la nosografia psichiatrica si limiterebbe a scoprire e definire, ricercarne i segni precoci ed infine delineare nel cuore di essa il fenomeno “autismo”. Mi sembra invece aderire meglio all’idea di schizofrenia, ammesso che vogliamo mantenere tale quadro nosografico, il concetto di particolare “percorso psicotico”, di evoluzione particolare di differenti psicosi idiopatiche, più che di una sindrome che nasce tutta completa, come si dice sia avvenuto di Minerva dalla testa di Giove. Intendendo cioè la situazione detta schizofrenia come costruitasi nel decorso di vicende psicotiche, più che al loro inizio (H.Ey 1954,1955,1967). Un simile modo di vedere può forse attenuare alcune aporie insanabili nella schizofrenia intesa quale autonoma ed originaria malattia, e probabilmente si adatta meglio ai dati clinici e ai risultati terapeutici, oltre che alla visione fenomenologica di autismo, implicando un concetto di evoluzione e di costruzione di un universo psicotico autistico. Del resto la rappresentazione statu nascendi dell’autismo che W.Blankenburg fornisce nel mirabile studio sulla schizofrenica perdita della naturalità dell’evidenza, implica una carenza fondazionale dell’Io “trascendentale” ed una drammatica costruzione dell’Io “empirico”, nel tentativo impossibile di sostituirsi a tale carenza.

Da diversi anni vado sottolineando in psicopatologia il concetto di “percorso” psicotico quale paradigma più efficace di quello statico di definite e fisse sindromi psicotiche, che spesso sono una illusione che parla più del tipo di formazione dello psichiatra che della realtà osservativa. In termini clinici, sarei quindi propenso a dilatare al massimo quanto scrivono M.Rossi Monti e G.Stanghellini (1999): <<...più che di una nosografia della schizofrenia abbiamo bisogno di una nosodromia della schizofrenia>>(op.cit.XVII). Anche se questi autori intendono con ciò essenzialmente il possibile passaggio nella stessa persona lungo il decorso schizofrenico dall’uno all’altro aspetto clinico, io penso si debba riproporre la schizofrenia come sindrome affiorante in un percorso psicopatologico disatrosamente distruttivo della intersoggettività, ed assieme costruttivo di un particolare ed esclusivo mondo proprio, un “universo personale”. Ciò che definisce una sindrome forse ancora indicabile come schizofrenia è il potenziale evolutivo verso la attuazione di un vita autistica, in quanto pervasiva perdità dell’ovvietà della realtà intersoggettiva. Non si tratta tanto dello stabilirsi di una chiusura della comunicazione, nell’ermetismo o nel silenzio, e del ritiro nei comportamenti in negativo, che possono ben essere anche una difesa, quanto della difficoltà o impossibilità ad intendersi con gli altri, non nella divergenza del normale o patologico dissacordo tematico, ma ad intendersi non sul ”che cosa” ma sul “come” del mondo della vita, sulla naturalità dell’essere-con-l’altro. E la carenza dell’altro nell’orizzonte costituente travolge assieme la soggettività propria e la comune realtà.
Nel ricercare i criteri definitori e diagnostici per la schizofrenia, forse sarebbe utile pensare ad una sorta di specificità in itinere, che si delinea man mano che da aspecifiche forme psicotiche cola la specifica forma di un modo di essere pervasivamente autistico.
In questa prospettiva la schizofrenia non può essere intesa semplicemente come una serie di esperienze di coscienza patologiche, di vissuti psicotici, ma come la costruzione di un universo sul labile fondamento di ciò che chiamiamo autismo. Con precisione L.Del Pistoia e Coll. (1993,1999) ci ricordano che non si tratta soltanto della dicotomia acuto versus cronico: <<...la temporalità non è più una piatta questione di breve e lungo, ma si fa storia e struttura in quanto organizzazione sui generis di un contenuto sui generis>>.(1993,op.cit.pg.60). E questo percorso, che si rifrange in diversificate storie personali, nella storicità di differenti vicende e posizioni di vita, può comportare un tempo più o meno breve o lungo, non arbitrariamente definibile nei sei mesi che nei D.S.M. distinguono un “disturbo schizofreniforme” dalla schizofrenia, ma a seconda del raggiunto livello di disorganizzazione della intersoggettività e di immersione nell’esistenza autistica.
D’altronde le vie di ingresso in percorsi psicopatologici che possono divenire schizofrenici raggiungendo modi di essere quali sviluppi abbastanza tipici, sono notoriamente le più diverse. Si va da lente e progressive evoluzioni, nelle quali assai spesso la vera e propria sintomatologia psicotica produttiva persiste solo per fasi, a forme che si articolano attorno al crampo di aspetti mono- o pauci-sintomatici, a esordi acuti che sono un vero e proprio campionario di schneideriani sintomi di primo rango e che talora non guariscono <<sans conséquenceI>>, come ci si può aspettare nelle “bouffées délirantes”, e che solo assai ipoteticamente il clinico può sospettare come un esordio acuto schizofrenico.
Dal punto di vista di distinzioni care allo spirito del nosografo, questi tipi di esordi spaziano dunque dall’aspetto di ingravescenti disturbi di personalità, a disturbi deliranti, a disturbi dell’umore (allusivi spesso alla bipolarità), a alterazioni dello stato di coscienza di tipo confuso-oniroide: tutti accumunati dal possedere un vettore non verso la cronicità, in senso clinico-nosografico, ma verso la costruzione - che potrà poi rivelarsi resistente o no alle terapie - di un modo di essere pienamente autistico, in senso fenomenologico-psicopatologico. Come dire che possiamo pensare l’autismo come il “modulatore” di questi percorsi, variegati sotto il profilo della clinica e anche della psicopatologia clinica. E’ l’autismo il fattore “specifying” di questi percorsi e ciò che in definitiva dà schizofrenicità ai sintomi, immergendo i fenomeni psicopatologici in quella particolare “atmosfera” tante volte richiamata a proposito della schizofrenia, al di là del “positivo”, “negativo” o “disorganizzato” dei suoi sintomi.

E’ per questo, a mio parere, che finchè non disporremo di strumenti conoscitivi efficaci per quotare l’autismo, la diagnosi di condizione schizofrenica, che lo psichiatra preparato ed esperto solitamente riesce a fare, può rimanere invece una caccia al fantasma se delegata unicamente a criteri categoriali o check-lists operazionalizzate.
E’ in atto ( cfr.J.Parnas e Coll.1998,1999) un deciso sforzo della psichiatria fenomenologica, che si aggiunge a quello della psicopatologia di derivazione jaspersiana (cfr.G.Huber 1983,G.Huber e Coll.1992,J.Kloesterkoetter 1988,1992), per identificare i segni prodromici della schizofrenia e pertanto permettere una diagnosi precoce del disturbo, anche sul presupposto che un trattamento precoce migliora la prognosi. Si può tuttavia osservare che per quanto riguarda le esperienze interne che costituiscono i Sintomi-Base di Huber (H.B.S.) si tratta di fenomeni che acquistano specificità psicotica soltanto attraverso la loro evolutività. Un ricercatore di questo ambito, J.Kloesterkoetter, ha mostrato che Sintomi-Base possono ad esempio persistere senza progredire ed allora esprimersi <<...sotto forma di diversi deficit iniziali ed esperienze di depersonalizzazione nel tipo borderline; ma anche sotto forma di altri disordini di personalità o quadri clinici neurotiformi>>(1992,pg.79). Similmente la studio del gruppo di Parnas si rivolge a stati di depersonalizzazione-derealizzazione che sotto aspetti talora banali, o ancora espressi con il linguaggio del “come-se”, indicano alla illuminazione fenomenologica <<un disturbo della relazione basica, preriflessiva (preconcettuale) intenzionale tra il Sè e il mondo.>>(J.Parnas e Coll.,1999). Già K.Schneider (1950) indicava alcuni disturbi dell’<<Erlebnis dell’Io>> come quelli a maggior specificità schizofrenica, anche se precisava che i disturbi del tacito sentimento della appartenenza a sè stessi dei propri vissuti (<<Meinhaftigkeit>> nella terminologia schneideriana) fossero sintomi evidenti soltanto quando la meità veniva vissuta come disturbata dagli altri, mentre J.Parnas e Coll. si rivolgno a più sottili fenomeni di “mancanza di presenza” nei propri atti psichici e nelle relazioni interpersonali. Da questo punto di vista queste abnormi “esperienze di Sè” sembrano contattare il nucleo (autistico) generatore della schizofrenia. Ma anche così è il potenziale evolutivo, <<il cambiamento nell’esperienza di sè>>, che può marcare il passaggio da disturbi stazionari, ad esempio tratti schizotipici di personalità, al progredire verso la psicosi schizofrenica. Gli autori sono quindi ben consapevoli della difficoltà della distinzione fra premorboso e prodromico.
Sembra così che, sotto qualsiasi profilo di studio,il passaggio da fenomeni elementari pre-psicotici a sintomi psicotici coinvolga un criterio di percorso (nel senso comune del termine), di sviluppo, influenzato da vari fattori personologici, situativi e culturali. Ma io ritengo che anche il passaggio da esperienze sintomatiche psicotiche ad un modo di essere indicabile come schizofrenia richieda una particolare evoluzione di esperienze, pur già psicotiche, nel confronto con gli attributi della persona che le vive, per approdare al disastro della “costruzione” di un mondo compiutamente autistico. L.Binswanger (1956,1964) ponendosi il problema di come la “stramberia” (un modo di essere largamente sovrapponibile al concetto di autismo) possa divenire schizofrenica, scriveva che ciò è in base alla sua <<entità>>, al suo dilagare alla vita intera.
Tutti i sintomi indicanti un rischio di schizofrenia, dal piano psicopatologico dei H.B.S., a quello fenomenologico di abnormi esperienze del Sè, a quello antropologico della stramberia, ad aspetti particolari di sintomi già psicotici (per esempio idee deliranti a qualità “metafisica”), alludono al piano del difettoso costituirsi della ipseità nella intersoggetività. Sono bagliori sulla vulnerabilità schizotropica perchè possono segnalare la fragilità autistica della persona, la sua proclività ad uscire dall’ovvietà della costituzione tacita del mondo intersoggettivo, a manifestare quindi, scopertamente o in filigrana, temi ontologici, nella normalità taciti, e ora abnormemente affioranti come problemi.
Sembra indubbio che la presa in terapia di aurorali esperienze abnormi del Sè sia nell’interesse a lungo termine del paziente, ma possiamo chiederci se, in caso di successo di intereventi precoci, noi abbiamo migliorato la prognosi della schizofrenia o contrastato la possibilità che una schizofrenia si costituisca.
Pensare la schizofrenia come uno speciale percorso a partire da fenomeni psicotici nosograficamente aspecifici, la specificità nosografica risiedendo nel suo potenziale evolutivo, significa anche chiederci quali precondizioni rendano possibile che fenomeniche psicotiche imbocchino la strada verso la costruzione della condizione schizofrenica. Una antica tradizione del pensiero psicopatologico, riattualizzata e sviluppata in ipotesi e modelli sulla schizofrenia quali quello “diatesi-stress” (P.E.Meehl,1962,1989) o il paradigma della “vulnerabilità” (J.Zubin, B.Spring 1977;K.H.Neuchterlein 1987) o la focalizzazione sul rapporto persona-disturbo (J.S.Strauss,1989), sottolinea come la fenomenica psichiatrica si realizzi ed evolva in modi differenti nell’incontro fra profilo (tratti) pre-psicotici ed esperienze intrapersonali o ambientali.

La individuazione di tratti pre-schizofrenici è stato ed è uno dei punti importanti della ricerca, con intuibili ricadute sulla teoria, terapia e prevenzione della condizione schizofrenica, ed è stata perseguita su piani diversi, spesso alla caccia di markers specifici, ma lo stesso J.Zubin conveniva (J.Zubin e Coll.1985) che <<al momento, non esistono indicatori ideali>>.
Si riceve anche l’impressione che la inefficacia della definizione del concetto di schizofrenia e di quello di autismo abbiano contribuito a rendere più difficile il problema. E.Dein (1966) adottando una definizione di autismo centrata sulle modalità relazionali (<<a typical relation between the patient and other people>>, op.cit.pg.129), vale a dire sottese dalla difettosa costituzione del Sè nell’intersoggettività, e accettando una distinzione fra episodi “schizofreniformi” e “schizofrenia”, calcolava nella sua revisione che i tratti preautistici della personalità raggiungessero il 30% nelle psicosi schizofreniformi ed il 90% nella schizofrenia cronica. Così l’autismo avrebbe, per l’autore,la funzione di unificare le schizofrenie in un gruppo e conseguentemente distinguerle da altre psicosi. Si può osservare che il solo citerio di “cronicità” adoperato per separare la “vera” schizofrenia appare oggi inaccettabile, dopo quello che si conosce circa la estrema variabilità dei decorsi ed esiti schizofrenici, ed invece un criterio psicopatologico centrato sulla pervasiva realizzazzione di un universo autistico può essere soddisfatto in sindromi con decorsi anche differenti nel tempo lineare della clinica psichiatrica.
In diversi degli studi più recenti (cfr.J.Parnas e Coll.1982,1989; J.Parnas,1999) si sostiene che tracce del “complesso” rappresentato dall’autismo e inestricabilmente connesso “disturbo del Sè”, sono evidenziabili nella personalità pre-schizofrenica e nello spettro dei disturbi schizofrenici, come nei consanguinei non malati. Certo l’ottica e il focus della ricerca sono cambiati dalle tesi kretschmeriane e minkowskiane di un continuum quasi lineare fra schizotimico-schizoide-schizofrenico e ci si rivolge ad indizi di turbamento dell’esperire e strutturale più sottili. La strada è stata da tempo quella di studi retrospettivi sulle caratteristiche personologiche premorbose di pazienti schizofrenici, che, pur con tutte le manchevolezze metodologiche di questo tipo di ricerca, hanno messo in luce come i pre-schizofrenici studiati non siano persone ritirate, introverse, isolate, chiuse ma piuttosto ragazzi o giovani con discontrollo comportamentale e difficoltà a mantenere relazioni interpersonali abbastanza buone (nella reciprocità), ed è stata rilevata, accanto a disturbi formali del pensiero, la essenziale carenza nella capacità di stabilire contatti affettivi.
Tutto ciò ripropone, stavolta sul piano della validazione empirica, come l’autismo o le pre-condizioni di possibilità di esso, non equivalgano affatto ad un Io “ritirato del mondo” ma ad un Io “sopraffatto dal mondo”, proprio per la carenza di fondazione intersoggettiva che modula la naturalità, nel consenso come nel dissenso, del nostro rapporto con gli altri. Sembra così che il problema dell’Altro sia la punta di iceberg della schizofrenia come della vulnerabilità schizotropica, in armonia con quanto la clinica e sovrattutto la psichiatria fenomenologica ha da tempo indicato. <<L’altro non rappresenta soltanto una declinazione particolare dell’accadere intramondanano dell’ente; il rapporto con l’altro appare piuttosto...come un momento costitutivo che co-determina l’intramondanità e, di conseguenza, anche l’evidenza naturale del Dasein umano.>> (W.Blankenburg, 1998,op.cit.pg.146).
Il fenomeno dell’autismo, quale disturbo e fragilità dell’intenzionalità verso l’Altro e quindi deficienza nella fondazione intersoggettiva del mondo, da iniziale intuizione nella clinica del disturbo schizofrenico è presto divenuto “tratto” nella persona pre-psicotica. Di questo profilo si possono cogliere aspetti nell’esperienza soggettiva disturbata, sulla scia del privilegio metodologico accordato in psicopatologia da K.Jaspers ai modi dell’esperire (ed è quanto fanno ad esempio gli studi sui Sintomi-Base di Huber e Coll. o quelli di Parnas e Coll. sulle abnormi esperienze del Sè ), oppure ricercarne in un approccio di fenomenologia eidetica gli aspetti costituenti, le condizioni di possibilità (ed è quanto avviene ad esempio negli studi di Blankenburg sulla perdita dell’evidenza naturale o di Mundt sulla crisi della intenzionalità).
Aspetti costituenti che indicano (cfr.G.Stanghellini,1997,1998) che se la vulnerabilità schizotropica risiede in una eccessiva inclinazione a mettere in atto l’epochè fenomenologica (quale sospensione dell’ovvio già da sempre pre-dato nel Dasein umano) e la vulnerabilità maniaco-depressiva, ma in particolare nel <<typus melancholicus>> (H.Tellenbach), in una eccessiva resistenza alla epochè ( in una aderenza ipertrofica ai valori e ruoli, al common sense, in una identità “ipernomica” ed “eteronomica” aggrappata ad un “Io-oggettivo” sproporzionato nel suo fondarsi su norme provenienti dal mondo interpersonale) (cfr.A.Kraus 1977,1994), la salute mentale risiede nella buona proporzione fra queste due posizioni: fra originalità e senso comune.

Quando si delinea l’autismo e le sue condizioni di possibilità come un probabile precursore nella persona di vicende psicotiche ci si riferisce a situazioni di “scompenso” nelle quali, per motivi sia connessi alle dinamiche intrapersonali che situative (in fondo la separazione Io-Mondo è un après coup della ragione), lo stile e il modo di vivere intessuti di valenze autistiche perdono la loro norma interna, non tengono più, e la persona è spiazzata dall’angoscia.
Questo non è certo un destino fatale del profilo autistico che, come tratto, abbraccia tutto lo “spettro schizofrenico”, da disturbi di personalità alla psicosi, e sfuma largamente in condizioni al di fuori di qualsiasi caratterizzazione psichiatrica. Che anzi, sotto il profilo antropologico, rispetto alla vulnerabilità psicotica lo “schizotipo” potrebbe mostrare una sua stabilità, proprio nell’elaborare un suo atteggiamento di eccentricità di fronte alla carenza del common sense, per cui non propriamente subisce la perdita dell’evidenza naturale <<ma acconsente ad essa>>(G.Stanghellini,1998).
Dicendo che l’assetto autistico può essere precursore di fenomenica psicosica, quale psicosi abbiamo in mente, pensando che le differenze nosografiche più essenziali hanno una loro validità e che solo per motivi di (utile) messa in tensione dialettica si può rievocare il concetto di “psicosi unica” (Einheitpsychose)? Anche se siamo ben lontani dal poter considerare le malattie mentali come enti di natura (invece che convenzioni psicopatologiche), nelle principali divisioni di derivazione kraepeliniana <<deve esserci un nucleo stabile di verità, diverso da quello di tutti i raggruppamenti precedenti>> (K.Jaspers,1913,1959). Ho ricordato sopra come l’indagine fenomenologica e antropologica contrapponga i modi di essere, tanto nella personalità pre-morbosa che nella malattia, attinenti al circolo maniaco-depressivo da quelli attinenti allo spettro schizofrenico. Il concetto di Einheitpsychose, mai definitivamente sconfitto, ci può mettere in guardia contro troppo frettolose separazioni reificate in malattie diverse da un nosografismo ossessivo (che sconta il tributo delle “comorbidità” sempre più frequenti) e ci renderà attenti alla possibilità di passaggi e transizioni, all’idea di “percorsi psicotici” individuali, in un arco di condizioni psicotiche, che tuttavia paiono avere un estremo nel tipo ideale del disturbo melanconico e l’altro nel tipo ideale di schizofrenia.
Ho accennato come l’idea di percorso, più che quello di malattia (con i suoi esordi tipici ed il suo tipico decorso ed esiti), mi sembri convenire al concetto clinico di condizione schizofrenica. Ci confrontiamo nella prassi psichiatrica con esperienze sintomatiche psicotiche, sia aurorali sia evolute, talora anche stabilmente, nelle quali mai si arriva ad una condizione che soltanto per una petizione di principio (del tipo: ogni autentico delirare è schizofrenico), potremmo definire schizofreniche: e non possiamo perchè in questi casi la persona nel costruire un mondo delirante siffatto tuttavia conserva una sua capacità di abitare, al di fuori del tema delirante, il common sense e la misura empatica del mondo intersoggettivo. Altre persone, contattando negli esordi esperienze psicotiche del tutto simili dal punto di vista della psicopatologia tradizionale, seguono un percorso sotteso dalla pervasiva crisi dell’intenzionare l’altro, dalla evanescenza dell’orizzonte di ovvietà intersoggettiva. Vale a dire le valenze autistiche sono l’elemento portante del loro percorso psicotico, e di esse dobbiamo sul piano empirico ricercare le tracce quali indicatori del rischio schizofrenico.
Per questi motivi, nessun Erlebnis traducibile in sintomo psicotico è specifico di schizofrenia (ma, al massimo,qualcuno di essi sospetto), se non è immerso nella atmosfera autistica; per questo è spesso possibile una pre-intuizione diagnostica guidata dalla “Praecox Gefuhl” (H.C.Rumke,1942), mentre per converso noi possiamo avere un immediato e buon rapporto empatico anche con un grave delirante.
L’autismo appare così, a livello pervasivo di assolutizzazione di una unica maniera di essere, come il nucleo patoplastico della schizofrenia, per poi tradursi in fenomeniche delle quali il ritiro può essere solo una modalità comportamentale e il ripiegamento su se stessi un bisogno coattivo e assieme una difesa. Se noi consideriamo, con W.Blankenburg l’autismo come costituito là dove un Io “empirico” tenta di supplire alla disfatta della fondazione “trascendentale”, il percorso schizofrenico può nascere quando stati di coscienza psicotici si incontrano con la persona siglata da questa disfatta. Quando la “patologia della coscienza” (H.Ey) si alimenta e si declina attraverso una particolare fragilità autistica della persona.

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