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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicodiagnosi

Ri-pensare la psicopatologia: sguardo al contesto e al concetto

Massimo Esposito, Emanuele Guarracino, Roberta Zaratti



Abstract
Il lavoro prende in considerazione sia l'attuale crisi dei modelli diagnostici, sia (e soprattutto) gli stessi modelli naturalistici e meccanicistici caratterizzanti la conoscenza scientifica in ambito psicologico.
Il filo rosso che guida la riflessione e la ri-lettura della storia della psicopatologia è l'accettazione della complessità e dell'indeterminatezza del fenomeno psicologico umano. Il percorso che si delinea si avvicina alla prospettiva costruttivista (Armezzani 2004). Prospettiva che impone un ripensamento radicale della ricerca psicologica e sociale attraverso la rivisitazione del concetto stesso di scientificità. Il ricercatore-clinico, è chiamato in causa, in prima persona; l'obiettivo che si persegue è la costruzione di una scienza dell'esperienza, dove in primo piano non troviamo più l'oggettività delle evidenze ma la consapevolezza che l'orizzonte che osservo è un incrocio di indefinite prospettive. L'oggettività perde il valore di verità assoluta, la spiegazione scientifica, all'interno del costruttivismo, abbandona la visione impersonale, in terza persona ("sguardo da nessun luogo " di cui parla Nagel), per recuperare il vissuto e il valore di chi è inevitabilmente coinvolto nella descrizione del fenomeno che osserva (1^ persona).
La crisi della categorizzazione del disagio mentale (DSM) e la ri-lettura offertaci da Foucault, impostano il problema e ci permettono un'osservazione sulla psicopatologia e sulla diagnosi non solo dal punto di vista teorico-scientifico ma anche storico-culturale.
L'obiettivo, attraverso una meta-riflessione sulla storia della psicopatologia, è quello di poter estendere l'orizzonte di studio e la comprensione della sofferenza umana.

Psicopatologia stato dell'arte: crisi della categorizzazione

Il problema della conoscenza e della classificazione nella malattia mentale ha radici lontane ma ancora più distante appare oggi il traguardo, l'arrivo cioè a un quadro chiaro e condiviso della classificazione psicopatologica.
La crisi è ormai estremamente evidente, anche nei piani alti della scienza, come descrive Aragona in "Aspettando la rivoluzione"(1) e, appare altrettanto evidente l'atteggiamento dominante della psichiatria biologica per cui l'ultimo decennio del secolo passato è noto come "decade del cervello"(2). Andando oltre un dato puramente sociologico che inquadra questo evento all'interno della "lotta tra le scuole" per l'egemonia in campo psichiatrico, osserviamo come questa prospettiva (biologica) sia già dominante nelle prassi quotidiane e nel senso generale con il quale si muove sia la comunità scientifica sia il senso comune: l'alcolismo, la tossicodipendenza, la dipendenza da gioco d'azzardo o l'iperattività dei bambini, sono problemi "prevalentemente medici"; si è parlato di pillola contro la timidezza e di farmaco anti-paura e, sorvolando sul folklore giornalistico che queste notizie generano, vogliamo soffermarci sugli effetti che tali prospettive animano nel pensiero, nelle aspettative ma anche nella ricerca di possibili soluzioni e risorse.
L'effetto immediato, a nostro avviso, è quello di una riduzione "d'orizzonte dell'umano", di una lettura che scaturisce dall'affermazione "non sei altro che un ammasso di neuroni" (F. Crick); tale riduzione è evidente sul versante degli "specialisti" e, non meno deleteri, appaiono gli effetti relativi a come le persone percepiscono e considerano sé stesse e le proprie possibilità intese come "potere di...".
Ed è certo che se il mio malessere o la mia difficoltà di vita dipendono dai miei circuiti neuronali io posso fare veramente poco da solo, forse la cosa più saggia che posso fare è quella di cercare un bravo specialista che mi dia una buona pillola!

La riduzione della prospettiva dell'essere umano nel disagio mentale è identificabile, dal nostro punto di vista, nella crisi della categorizzazione nosografia propria dello strumento diagnostico DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), "usando il linguaggio di Lakatos è come se il programma di ricerca che all'inizio era progressivo e poteva procedere pur tra alcune anomalie, fosse oggi entrato in una crisi regressiva, con le anomalie non più tollerabili" (Aragona)(3).
Dal nostro punto di vista c'è una confusione metodologica, una fallacia nella correlazione tra nosografia-eziologia-fenomenologia per ciò che riguarda la psicopatologia e la stessa legittimazione della psichiatria. Quest'ultima, se pur ha cercato ad ogni costo di legittimarsi con un linguaggio integralmente medico, sulla critica questione ezio-nosologica si è vista costretta a prendere una via opposta a quella della medicina. Infatti, mentre la medicina diventa scientifica radicando la nosografia nell'eziologia, definendo cioè sempre "meglio" le malattie in funzione delle cause (agenti patogeni) e trovando conferma nella ricerca scientifica e nei paramentri misurabili, la psichiatria si è vista costretta a svincolare la nosografia dall'eziologia (in seguito indagheremo meglio il perché). Questo processo è visibile e caratterizza la storia del DSM, dal 1952 ai giorni nostri. A nostro avviso rappresenta uno dei bias attraverso cui riflettiamo sulla sofferenza umana.

Una Storia senza fine

Storicamente, una figura che ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo dello studio della classificazione delle patologie della mente è Philippe Pinel (1801). Nominato direttore dell'Ospedale dal governo rivoluzionario di Parigi, modificò totalmente l'approccio allo studio della malattia mentale. Pinel si considerava uno scienziato e per tale motivo ipotizzò che, così come Linneo, attraverso l'osservazione rigorosa delle specie naturali avrebbe potuto spiegare tutta una serie di fenomeni. Egli, mediante la semplice osservazione dei suoi pazienti, classificava le specie malate (le infermità) che privavano i cittadini della Ragione.
Nonostante quest'approccio fosse uno tra i migliori tentativi dell'epoca nello studio della malattia mentale, emersero in contemporanea una serie di limitazioni; innanzitutto la classificazione delle specie malate non fu così chiara ed esaustiva come quelle delle specie naturali e, nel tentativo di superare questa limitazione, gli studiosi del XIX secolo operarono una proliferazione dei processi di categorizzazione che aumentavano probabilmente il bagaglio di conoscenze sulla fenomenologia delle specie malate ma ciò non corrispondeva ad un altrettanto livello di consapevolezza sulle modalità di trattamento delle stesse.
L'approccio di Pinel si basava sull'assunto che in natura esistessero delle vere e proprie entità malate e che il comportamento e le esperienze dei malati potessero considerarsi come un risultato della loro manifestazione, e che la loro osservazione fosse sufficiente ad individuare anche rimedi specifici. Un orientamento che ripercorre chiaramente le tappe della conoscenza naturale: osservare e catalogare qualcosa che c'è ed è presente in natura.
Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, un gruppo di psichiatri tedeschi con a capo Emil Kraepelin, avanzarono una proposta che cercava di spiegare l'insufficienza, soprattutto dal punto di vista dei rimedi, delle modalità di osservazione dell'infermità mentale proposte da Pinel e poi applicate dai suoi allievi. Essi affermavano che questa difficoltà era legata al fatto che l'osservazione avvenisse senza che ci fossero criteri di riferimento precisi (osservazione ingenua).
In particolare, questo modello prevedeva una conoscenza della malattia caratterizzata da elementi quali: il quadro attuale, il decorso, l'eziologia, l'anatomia patologica, una prognosi e, idealmente, la teorizzazione di un trattamento specifico.

Ci avviciniamo a un modello scientifico-medico ma, come rileva Aragona (pag 36), siamo ancora in una "fase preparadigmatica" della classificazione delle patologie della mente; infatti, "uno sguardo alla classificazione psichiatrica a metà del '900 darà un quadro singolare: da un lato l'impostazione Kraepeliniana è ampiamente accettata nella sostanza (seppur non sempre nella terminologia), dall'altro ogni autore propone la sua impostazione" (..).
Ci si è accordati su cosa guardare, cosa è rilevante per una conoscenza e classificazione delle psicopatologie ma non sulle modalità (come); ogni ricercatore è guidato dalle sue teorie di funzionamento e di scompenso umano.

Uno degli effetti di questo procedere è stato quello che emerge dal lavoro fondamentale di Kendell e collaboratori nel 1971(4); lo studio, che mirava a verificare la concordanza diagnostica tra psichiatri inglesi e psichiatri americani, ha rivelato che le effettive corrispondenze erano rilevanti solo per i casi più tipici mentre per gli altri (in particolare schizofrenia e malattia maniaco-depressiva) si evidenziarono ampie differenze. L'esigenza di riformare la classificazione delle patologie della mente era (già) evidente ma l'assenza di concordanza diagnostica impediva il confronto, la crescita, il controllo e la gestione del fenomeno.
Il primo obiettivo che si pose la comunità scientifica fu, quindi, quello di "eliminare le tante classificazioni alternative", arrivando ad un'unica lista ufficiale di patologie della mente che fosse valida in tutto il mondo e a cui gli psichiatri e gli psicologi potessero far riferimento, al fine di parlare tutti la stessa lingua. La storia del DSM negli Stati Uniti dal 1952 e nell'Organizzazione Mondiale della Sanità dell'ICD dal 1948 (per la prima volta s'inserisce una classificazione delle patologie mentali) rappresentarono questo intento.
E' con il DSM III che "la rivoluzione si compie" e si entra in una fase di "scienza normale". Il DSM III muove dall'esigenza di maggior precisione e rigore scientifico nell'individuazione del quadro sindromico, a livello descrittivo, finalizzata alla futura scoperta eziologica. Quindi, una "prima anima" del DSM III è neopositivista neokraepeliana e crede che la precisa definizione delle sindromi sia il primo passo per una scientificizzazione della psichiatria che alla lunga dovrà portare alla chiarificazione dell'eziopatologia sottostante ma, rendendosi conto che non ci sono dati sufficienti per includere questo piano esplicativo nella classificazione, sceglie, per il momento, di sospendere il giudizio sulle cause e di andare avanti con un approccio esclusivamente descrittivo.
L'altro elemento, "anima", che contraddistingue il DSM III è il concetto di "reliable"- (affidabilità diagnostica come concordanza tra gli operatori); "se vogliamo essere scientifici, dobbiamo usare un linguaggio comune strutturato in modo tale da non consentire ambiguità, le diagnosi devono essere affidabili".(5)

L'obiettivo che gli autori del DSM III sembrano perseguire è quello di un maggior rigore scientifico nell'individuare il quadro sindromico a livello descrittivo (fenomenico), rallentando o subordinando la ricerca eziopatologica ad una chiara comprensione della sindrome. Descrittivo e a-teorico sono i termini che accompagnano il manuale DSM.

Sorvoliamo sulla serie di critiche che negli anni hanno accompagnato le nuove edizioni del DSM(6) ed arriviamo a collocarne concettualmente la crisi, un punto, a nostro avviso, di non ritorno: la scarsa validità diagnostica delle categorie nosografiche individuate. Scarsa validità che si manifesta sia a livello di ricerca sia a livello di clinica ed efficacia d'intervento.
La strada scelta nel rapporto e il peso dato alla reliability e alla validità della diagnosi non ha prodotto i risultati che ci si aspettava. Ricordiamo che la reliability era stata definita come il
primo passo necessario alla strada della validità. L'idea era appunto che la validità delle sindromi, identificata attraverso la classificazione dei sintomi poteva essere migliorata attraverso una precisa descrizione clinica, studi di laboratorio, delimitazione dei disturbi, studi di follow-up sull'esito e studi familiari. Una volta che fossero pienamente validate, queste sindromi avrebbero formato la base per l'identificazione di gruppi standard, eziologicamente omogenei, che avrebbero risposto uniformemente a trattamenti specifici (Robins e Guze 1970)(7).

E' questo il percorso della scienza medica ma la psichiatria o meglio, la psicopatologia, si "vede costretta" ad allentare il legame tra nosografia ed eziologia. Oggi è riconosciuto che di per sé la reliability non implica la validità, in altre parole, se pur i livelli di "concordia" sono soddisfacenti "la validità degli attuali concetti diagnostici è tutt'altro che garantita". Questo significa che la strada privilegiata, la concordia tra gli operatori "nell'individuare" i sintomi e quindi la relativa "casella di appartenenza", ha fallito il suo compito e ha prodotto altri effetti come, ad esempio, l'ambiguità dei sintomi che, non configurandosi come malattie (con una chiara eziologia-diagnosi-terapia-prognosi), rimangono sospesi, senza un riconoscimento scientifico ma con un valore di "enti di natura" da parte di alcuni operatori della salute mentale.
In altri termini l'attacco di panico sarebbe causato dall'ansia e l'ansia corrisponde ad uno stato alterato di alcuni parametri fisiologici come il battito cardiaco etc.
Ecco come si riduce il campo del disagio umano, la costruzione teorica, descrittiva del fenomeno diventa il fenomeno. Il concetto diventa l'evento.
Vorremmo infine correlare queste riflessioni con la posizione descritta da Di Paola (2000), quando nella critica dei fondamenti scientifici della psichiatria biologica discute un documento comparso su Science nel marzo 1997 di Nancy Andreasen, definita dall'autore "forse la più attiva e agguerrita tra le figure leader della psichiatria nordamericana"(8);
scrive Andreasen "Allo stato attuale, non ci sono marker diagnostici noti per ciascuna malattia mentale, eccetto che, per le demenze come il morbo di Alzheimer.
Le lesioni da scoprire che definiscono le restanti malattie mentali si troveranno probabilmente ai livelli complessi, o su piccola scala, che sono difficili da visualizzare e misurare, come la connettività dei circuiti neurali, la segnalazione neuronale (...), e le anormalità nei geni o nell'espressione genica. Nonostante queste malattie manchino di un indice obiettivo che le definisca (come la glicosuria per il diabete), sono tuttavia molto reali. Non solo producono effettiva morbilità e mortalità, ma i progressi nella nosologia psichiatrica hanno prodotto tecniche di valutazione obiettive, basate su criteri, che producono diagnosi affidabili e precise".

L'affermazione dell'Andreasen rivela una posizione medica, organicista che delimita chiaramente il campo d'indagine e le modalità di ricerca in ambito psicopatologico: si cercano "lesioni" che probabilmente si troveranno a livello biochimico o genetico, comunque nell'ordine della materia, dell'organismo. Riduzione eccessiva di un fenomeno, come la sofferenza umana che da troppo tempo è considerato solo una malattia o un qualcosa da isolare/alienare per controllare o correggere.

Un'altra storia: "storia della follia" di Foucault

Dal nostro punto di vista non si tratta solo di "rivedere qualche concetto diagnostico" ma di meta-riflettere sulla procedura utilizzata per individuare e definire le categorie nosografiche e, soprattutto, di collocarla all'interno di un periodo storico ben preciso; in questo procedere incontriamo Foucault e la sua "Storia della Follia nell'età classica"(9).
L'interesse del filosofo francese si focalizza sulle condizioni formali che possono far sì che la significazione appaia, cioè che qualcosa che prima non era rilevato da noi ad un certo punto cominci ad assumere una permanenza tale da essere, oltre che percepito, conosciuto e teorizzato.
Il lavoro di Foucault sulla psicopatologia, cerca di ricostruire il contesto per il quale e attraverso il quale la follia e la malattia cessano di essere significazioni immediate e diventano oggetto di un sapere ordinato e razionale.
"...il problema è questo. Esistevano in tutte le culture occidentali, certi individui considerati pazzi, e certi individui che erano considerati malati: si trattava per così dire, di significazioni immediatamente vissute dalla società, che riconosceva senza esitare i malati e i pazzi.
Ebbene, queste significazioni si sono bruscamente modificate non appena si sono costituite determinate conoscenze, determinati corpus scientifici e non appena è apparso qualcosa come una medicina mentale, o psicopatologia, e qualcosa come una medicina clinica, verso la fine del XVIII secolo.
E il mio problema è stato quello di mostrare come mai le significazioni vissute immediatamente all'interno di una società rappresentassero condizioni sufficienti per la costituzione di oggetto scientifico. Perché la follia e la malattia cessassero di essere significazioni immediate e diventassero oggetto di un sapere razionale, sono state necessarie un certo numero di condizioni che ho cercato di analizzare" (conversazione con Lévi-Strauss, Foucault, Lacan 1996).

In "Storia della follia", Foucault indagando la psichiatrizzazione del folle e della sua emarginazione nei manicomi, traccia una sorta di diagramma storico della maniera con cui sono state recepite la follia e la coppia ragione/sragione negli ultimi secoli dell'Occidente.
La ricerca (documenti storici, atti, pubblicazioni, etc) e la ri-costruzione svolta ci offrono un percorso che inquadra e legge la psicopatologia all'interno dell'evoluzione dell'organizzazione sociale e dell'aumento di complessità (passaggio dal medioevo al XVIII sec.) di prassi e di conoscenza che comporta un emergere di realtà e campi di significazione nuovi, che presuppongono: "ragione normale, follia il suo altro".

Nel primo passaggio, e siamo alla fine del Medioevo, si racconta come la scomparsa della lebbra dal mondo occidentale lascia aperti, ai margini delle comunità, grandi territori "che non sono più perseguitati dal male" ma che per lungo tempo sono lasciati abbandonati, ed "apparteranno all'inumano". Dal XIV al XVII secolo "aspetteranno e solleciteranno" dice il filosofo "una nuova incarnazione del male, un'altra smorfia della paura". La nuova incarnazione sarà rappresentata dal disturbo mentale.
Particolarmente interessante è la descrizione della "Nave dei Folli", strano battello ubriaco che fila lungo i fiumi della Renania e nei canali fiamminghi. Questa navigazione del pazzo viene a significare nello stesso tempo la separazione rigorosa e l'assoluto passaggio. Foucault ci mostra la "situazione liminare" del folle che naviga in una geografia semi-reale e semi-immaginaria ma viene costantemente trattenuto sul luogo di passaggio. Il folle è rinchiuso alle porte della città ma la sua esclusione deve racchiuderlo, "non può e non deve avere altra prigione che la soglia stessa". Foucault definisce questa figura del folle, una "posizione altamente simbolica, che resterà senza dubbio sua fino ai nostri giorni, qualora si ammetta che ciò che fu un tempo la fortezza visibile dell'ordine è diventato ora il castello della nostra coscienza".

Una soglia da oltrepassare quindi ma: per andare dove? in quale dentro?
Il "passaggio assoluto" rappresenta la necessità di entrare nel mondo di Senso Condiviso -cioè l'insieme delle prassi, delle regole, del sapere come- che contraddistinguono una comunità. Lo sfondo attraverso il quale ognuno di noi emerge e costruisce sé stesso.
La possibilità di conoscere, attribuire significati, riconoscere valori, avere un'identità è resa possibile dal nostro essere corpo, il nostro essere-nel-mondo è inseparabile dall'impalcatura percettiva-emotiva-motoria di questo (matrice-biologica) ma, allo stesso tempo, la nostra esperienza è frutto dell'evoluzione culturale. Ogni atto conoscitivo è sempre parte integrante di una comunità e di una storia collettiva di condivisione di senso (matrice storica).

Foucault, ci mostra come la nave dei folli verso il XV secolo emerga dallo sfondo, per assumere un posto di primo piano tanto nella letteratura quanto nelle pitture.
Il folle emerge dal contesto per la sua ambiguità (né dentro né fuori): al contempo, minaccia, deride e spaventa; possiede un'irragionevole visione del mondo, rappresenta il ridicolo dell'uomo.
La follia sul finire del medioevo "prende un'ampiezza considerevole"; ad esempio, nelle farse, il personaggio del Grullo, dello Sciocco assume sempre più importanza, occupa il centro del teatro "come colui che detiene la verità, interpretando così la parte complementare e inversa di quella interpretata dalla follia nei racconti e nelle satire." Quindi, da una parte la follia come un "accecamento senza campo", dall'altra il folle-grullo che blaterando fesserie, svela l'inganno.
Foucault ci mette in guardia: "...ma quello che troviamo nel riso del folle è che egli ride in anticipo del riso della morte, e l'insensato, presagendo il macabro, l'ha disarmato".
Fino alla seconda metà del XV secolo, il tema della morte, la fine dell'uomo, ha l'aspetto delle pesti e delle guerre. E' soltanto verso la fine del secolo che questa inquietudine "gira su sé stessa". Per Foucault la sostituzione del tema della follia con quello della morte non segnala una vera e propria rottura ma una torsione all'interno della stessa inquietudine. Egli sostiene che sia sempre in causa il nulla dell'esistenza ma che, questo nulla non sia più identificato come esterno e finale, (minaccia e conclusione) ma piuttosto sentito dall'interno, come forma possibile dell'esistenza.

Nella fase rinascimentale, ragione e follia appaiono strettamente legate, "ciascuna è misura dell'altra", in quanto "ogni follia ha la sua ragione che la giudica e la domina" e "ogni ragione la sua follia nella quale essa trova la sua verità derisoria".
La follia durante il Rinascimento ha una sorta di doppia immagine: da una parte rappresenta l'animalità "sfuggita all'addomesticamento da parte dei valori e dei simboli umani", dall'altra affascina perché è sapere, elementi di un sapere difficile, "chiuso, esoterico".
Verso la metà del XVII secolo la ragione finisce per affermare la sua priorità rispetto alla follia, la quale "non acquista significato né valore se non nel campo stesso della ragione".

La non-ragione del XVI secolo, secondo Foucault, rappresentava una sorta di rischio aperto, minava e rischiava di "compromettere i rapporti della soggettività e della verità". Ma il "procedere", l'affermarsi del dubbio cartesiano dà prova che nel XVII secolo il pericolo è esorcizzato, " la follia viene posta fuori dal dominio di pertinenza nel quale il soggetto detiene i suoi diritti alla verità: quel dominio che per il pensiero classico era la ragione stessa".
"Se l'uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte del soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato".
Il XVII secolo genera le grandi case di internamento, "la follia è stata legata a questa terra dell'internamento e al gesto che gliela indicava come suo luogo naturale".
A Parigi, nel 1656 viene emesso il decreto di fondazione dell'Hôpital General che fin dall'inizio non presenta le caratteristiche di una struttura medica ma piuttosto di un'istituzione semigiuridica, con poteri autonomi rispetto ai tribunali. Ed è con queste caratteristiche che l'internamento si diffonde in Europa. In queste istituzioni s'incontrano i modi e i privilegi della chiesa nell'assistenza ai poveri e la preoccupazione borghese di "mettere ordine".
La duplicità dell'intenzione risponde contemporaneamente "al dovere di carità" e alla "volontà di punire". Il risultato è una netta separazione tra follia e ragione. "Separazione che presuppone l'elevazione di quest'ultima a livello del parametro normativo tanto gnoseologico quanto etico di ordine sia individuale che sociale". Conseguenza immediata è l'alienazione gnoseologica- etica del folle; il disturbo mentale viene "trattato"come malattia da curare o come deviazione da correggere. Però solo 80 folli sono ricoverati all'Hôtel-Dieu dove prevale la linea terapeutica mentre centinaia all'Hôpital General in cui prevale la linea correttiva.
Il fenomeno ha dimensioni europee, Foucault lo motiva così:
"... l'usanza dell'internamento indica una nuova reazione alla miseria, un nuovo patetico e, più in generale, un rapporto diverso dell'uomo verso ciò che può esserci d'inumano nella sua esistenza. Il povero, il miserabile, l'uomo che non è padrone della propria esistenza, ha assunto lungo il XVI secolo un aspetto che il medioevo non avrebbe riconosciuto".
"La Renaissance ha spogliato la miseria della sua positività mistica. E questo attraverso un duplice movimento di pensiero che toglie alla Povertà il suo significato assoluto e alla Carità il valore che essa ricava dal soccorso a questa Povertà" .(Foucault pag 61).
La laicizzazione introdotta dalla Riforma (XVI secolo) incide profondamente sul significato della povertà; lo Stato, l'Amministrazione, incaricandosi degli incapaci, modifica la visione della carità, slegandola dalla "glorificazione del dolore" e, quindi, dalla salvezza legata alla Povertà e Carità; la miseria non significa più nella dialettica dell'umiliazione e della gloria ma nel rapporto disordine - ostacolo all'ordine, colpa.
La Povertà "scivola da un'esperienza religiosa che la santifica a una concezione morale che la condanna".
Il nuovo orizzonte di significato che si sta costruendo della follia è certamente legato alla laicizzazione della carità ma anche, forse meno esplicitamente, alla punizione morale della miseria.
L'internamento, questo fenomeno massiccio le cui tracce sono reperibili in tutta l'Europa del XVII secolo, è un affare di police, nel senso molto preciso che a questo termine si dà nell'età classica, cioè l'insieme delle misure che rendono il lavoro possibile e necessario per tutti coloro che non saprebbero vivere senza.(10) L'l'isolamento si è reso necessario per tutt'altra causa che la preoccupazione di guarire . Già dall'editto regio del 27 aprile 1656 che dava vita all'Hôpital Général, l'istituzione si attribuiva il compito d'impedire "la mendicità e l'ozio come fonte di ogni disordine"(11).

La prospettiva che propone Foucault parla dell'organizzazione di un senso che si va strutturando, dell'orizzonte attraverso il quale l'idea, l'immagine la storia del folle emergono ... sono state necessarie un certo numero di condizioni.... Le condizioni nella sua ricostruzione nascono dall'esigenza di un potere e di un'organizzazione storico-culturale che sta prendendo forma, che comincia a tracciare i suoi assi portanti nella difesa dell'ordine, del lavoro, dell'economia, della famiglia.
Sorvolando sui contenuti, se pur molto interessanti e articolati, osserviamo la metodologia della sua riflessione: Foucault (Le parole e le cose 1966) ritiene possibile, attraverso un lavoro "archeologico", recuperare le "infrastrutture mentali", regole implicite che risultano anteriori alle parole e alle teorie e che daranno voce e vita al fenomeno. Le epistemi, il campo epistemologico, -ciò che significa-, corrisponde ad un "a-priori storico" che crea le condizioni preliminari della conoscenza, come le forme trascendentali, ma che durano solo per un periodo limitato della storia; rifiutando il concetto della storia come percorso lineare e progressivo, egli identifica nelle "discontinuità enigmatiche" il susseguirsi degli epistemi. Semplificando potremmo dire che, nel corso del tempo, le parole e le cose cambiano il loro significato, ne generano di nuovi, articolano e tecnologizzano possibili fenomeni.
Rispetto alla nostra riflessione, tale considerazione rimette in discussione non solo la definizione di psicopatologia ma offre uno spunto non indifferente per una rivisitazione del percorso del pensiero e della prassi scientifica.

Costretti o Interessati?
E' necessario guardare la malattia in un altro modo

Partendo dalle prospettive storiche descritte, riteniamo necessario guardare la specificità della malattia mentale "facendo più affidamento all'uomo stesso" che alle astrazioni intorno alla malattia. Ciò non corrisponde ad una negazione di ogni metapsicologia ma, muovendoci con la consapevolezza del ruolo, del senso storico di una teoria, della complementarietà che sussiste tra quello che io vedo e valuto malato e, le stesse teorie (lenti) che mi permettono di rendere intelligibile il fenomeno, pensiamo sia prioritario dare spazio "alle dimensioni psicologiche della malattia".
Riducendo il discorso a tre punti essenziali vorremmo evidenziare come la patologia mentale esiga metodi di analisi differenti dalla patologia organica:
1. l'astrazione; l'anatomia e la fisiologia offrono alla medicina una serie di conoscenze che permettono "valide astrazioni sulla base della totalità organica"; la psicologia ed ora in modo più preponderante le neuroscienze, non hanno mai fornito uno strumento d'analisi o la spiegazione del rapporto tra una lesione e l'alterazione.
Sulla base di tale considerazione verrebbe da chiedersi se la coerenza di una vita psicologica possa essere strutturata in maniera diversa rispetto alla coerenza di un organismo.
2. il normale e il patologico, progressivamente delimitati in campo medico, risultano indefiniti in psichiatria, o meglio, il confine normale/patologico, non scaturisce da un'analisi dei processi o dei percorsi ma dalla quantificazione e dalla presenza di determinati sintomi.
3. il malato e l'ambiente; come sostenuto da Foucault (1954; 1962), nessuna malattia può essere disgiunta dai metodi di diagnosi, dalle procedure di isolamento, dagli strumenti terapeutici con cui la pratica medica li circoscrive; ma mentre per la medicina, l'isolamento del malato, al di là delle pratiche in uso, permette di determinare il carattere specifico delle sue reazioni patologiche, sul versante della patologia mentale, la "realtà della sofferenza" non permette una simile astrazione e ogni aspetto patologico può essere compreso attraverso l'analisi del contesto nel quale si manifesta e si esprime. (Pensando alla nostra personale esperienza clinica ci viene in mente il trattamento residenziale delle donne con disturbo alimentare: il risultato raggiunto sembra perdersi a breve dopo il ritorno a casa).

Focault afferma che"non bisogna dunque leggere la patologia mentale nel testo troppo semplice di funzioni abolite: la malattia non è soltanto perdita della coscienza, assopimento di una data funzione, obnubilamento di una data facoltà". E' anche altro: l'essenza della malattia "non sta soltanto nel vuoto che scava, ma anche nella pienezza positiva delle attività di sostituzione che vengono a colmarlo".
Difficile da sostenere per il nostro sguardo, abituato ad osservare deficit, disabilità, incapacità, disgregazione; in effetti le funzioni scomparse e le funzioni accentuate in presenza di psicopatologia, non si pongono al medesimo livello: tra ciò che è scomparso ci sono le "coordinazioni complesse", "la coscienza con le sue aperture intenzionali, il suo gioco d'orientamento nel tempo e nello spazio e la tensione volontaria che corregge e regola gli automatismi"; al contrario le condotte che vengono mantenute sono "segmentali e semplici". Semplificando: "i fenomeni positivi della malattia si contrappongono a quelli negativi come il semplice al complesso":
- alla sintesi complessa del dialogo si sostituisce il monologo frammentario,
- la sintassi, attraverso la quale si costruisce un senso, è spezzata e sussistono soltanto elementi verbali che lasciano trapelare sensi ambigui, polimorfi e labili;
- la coerenza spazio-temporale, che si regola secondo il qui ed ora, è distrutta e sussiste soltanto un caos.
Ma non solo, le funzioni patologicamente accentuate si contrappongono anche come lo stabile all'instabile: la possibilità di orientarsi nello spazio-tempo, lo stare in relazione, l'agire al fine di uno scopo, sono competenze che richiedono la presenza, non sono stabili, si "costruiscono" costantemente.
Attraverso questi parametri possiamo dire che la malattia sopprime le funzioni complesse, instabili e volontarie mentre accentua le funzioni semplici, stabili e automatiche; questa differenza di livello strutturale si amplifica se la poniamo su un piano evolutivo, trasformandosi in una doppia differenza strutturale + evolutivo.
"Il prevalere delle reazioni automatiche, la successione continuamente interrotta e disordinata delle condotte, la forma esplosiva delle reazioni emozionali sono caratteristiche di un livello arcaico nell'evoluzione dell'individuo".
In conclusione, Foucault ritiene che questi fenomeni, comuni sia alle strutture patologiche sia a stadi anteriori dell'evoluzione, designerebbero un processo regressivo della malattia, la malattia come percorso attraverso cui si disfa la trama dell'evoluzione!
A nostro avviso la strada da percorrere non è tanto di validare o invalidare l'analisi della regressione patologica, l'involuzione, la deteriorizzazione/perdita di competenze e capacità di "gestione" di sé e delle relazioni ma, piuttosto, quella di inquadrare questa "regressione" all'interno di un contesto di senso che ne determini le qualità.
Un'osservazione della malattia che si ferma all'aspetto regressivo, quantificando le competenze e le facoltà perse dalla persona malata, di fatto, non si occupa delle qualità del fenomeno psicologico; infatti (come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte):
-trascurerebbe l'organizzazione (unica e irripetibile) della personalità morbosa; "La nozione astratta di regressione non può rendere conto del fatto che quella determinata persona sia malata, e sia malata in quel determinato momento e di quella data malattia, che le sue ossessioni presentino quel determinato tema, che il suo delirio comporti quelle determinate rivendicazioni o che le sue allucinazioni si ritrovino nell'universo estatico di quelle determinate forme visive". (pag.33)
- l'analisi regressiva, descriverebbe il percorso, l'orientamento della malattia, "senza metterne in luce il punto d'origine". La causa, l'eziologia rimarrebbero, quindi, un mistero.
Riassumendo, potremmo dire che per una descrizione strutturale della malattia è necessario analizzare i segni positivi e i segni negativi; ossia quali sono le strutture abolite e quali quelle liberate. Il che non significherebbe comprendere le forme patologiche, ma solo inserirle in una prospettiva in grado di rendere coerenti e comprensibili gli episodi di regressione individuale e/o sociale. E' necessario completare l'analisi del fenomeno patologico con "l'analisi di quella dimensione che la rende necessaria, significativa e storica", cioè con l'analisi di quel piano che ci parla di cause, origini e storia della persona, nel suo divenire psicologico.
Il divenire, l'essere dell'uomo è insieme evoluzione e storia; l'evoluzione come processo attraverso il quale si integra il passato e il presente in un'unità senza conflitto, generando un'organizzazione strutturale di competenze cognitive e possibilità relazionali (pensiamo per esempio alla gradualità dell'istruzione); la storia riguarda il come ogni essere umano "fa questo", come cioè dà senso al presente rendendolo intelligibile e significativo per lui. La storia psicologica non scaturisce da una successione lineare tra anteriore-attuale ma lega presente e passato introducendovi quella distanza, la propria esperienza e il proprio sentire che genera il normale prodursi di tensione, conflitto e contraddizione.
L'idea di fondo è quindi che la malattia non possa prescindere dalla storia individuale e dal fatto che il caos e la sofferenza convergano trovando la loro coerenza-essenza nella struttura personale del malato, nella persona, che agisce e vive nel-mondo(12).
Si delinea quindi, un concetto di psicopatologia che pone in primo piano l'esistenza dell'uomo, del suo sentire e dell'articolare quel sentire all'interno di un contesto di senso condiviso. Per comprenderlo è necessario un altro tipo di analisi diversa da quella naturalistica che promuove l'obiettività e la validità empirica; la metodologia naturalista considera il malato allontanandolo, lo tratta come un "oggetto naturale"; la riflessione storica lo mantiene in quella alterità che permette di spiegare ma, raramente, di comprendere.
L'atteggiamento che ci suggerisce Foucault è quello dell'intuizione; "l'intuizione coglie con un unico sguardo le totalità essenziali e nel contempo riduce, sino a farla scomparire, quella distanza che ogni conoscenza oggettiva comporta". L'intuizione ci porta a vedere il mondo con gli occhi del malato ma questo diviene significativo e utile se siamo consapevoli che la verità che cerchiamo non è nell'ordine dell'oggettività ma dell'intersoggettività. Questa riflessione sulla malattia mentale è anzitutto comprensione, nella misura in cui comprendere significa al tempo stesso mettere insieme, cogliere e penetrare. Ma ancora più importante è che si tratta di un comprendere che si realizza esclusivamente attraverso l'atteggiamento che Bruner descrive così bene nella frase"Se consideriamo che l'oggetto della psicologia (come quello di ogni impresa intellettuale) è il raggiungimento di una comprensione, perché dovremmo ad ogni costo comprendere in anticipo i fenomeni da osservare?"
Questo non-sapere non rappresenta un'ignoranza ma favorisce, al contrario, il dispiegamento di tutti i saperi e di tutte le possibilità all'interno di quella relazione.

Ritornando su un piano metodologico, i primi due obiettivi di questa comprensione potrebbero essere:
- la ri-costruzione che il malato fa della propria malattia (il modo in cui si vive come individuo malato, o anormale, o sofferente);
- la ri-costruzione dell'universo su cui si affaccia la coscienza della malattia, il mondo che osserva e insieme costituisce.
La "presa di coscienza" della malattia si verifica all'interno della malattia: vi è radicata ed è il modo in cui una persona la interpreta, la racconta che costituisce una delle dimensioni essenziali della malattia stessa. La patologia non si riduce alla "coscienza della malattia", ma è in relazione ad un mondo fatto di spazio e tempo, contestualizzati in un universo sociale e culturale. Non dimentichiamo che tutto questo s'incarna in un corpo vivo che raccoglie e contiene l'esperienza del vivere e del soffrire.

Dalla posizione costruttivista, consapevole del proprio sistema gnoseologico che prevede tra i suoi principali presupposti l'esistenza della visione prospettica, appaiono centrali concetti quali esperienza, comunicazione, significato, e il sapere considerati come "realtà in costruzione", realtà che si svelano partendo da una condivisione di azioni e di prassi e che possono caratterizzare la costruzione di un sapere.
La nostra concezione dell'essere umano, (e della sua identità) è inteso come parte integrante di una comunità, di una storia di pratiche e di senso pre-esistenti a lui ed esistenti-con lui. Tale "co-esistenza" rimanda ad una matrice biologico-storica condivisa, che consente l'accesso e la partecipazione alle "prassi del vivere" e, allo stesso tempo, proprio grazie a questa intersoggettività o condivisione di orizzonti, rende possibile la riflessione cosciente sulla propria personale ed unica esperienza del mondo.
Ripensare alla conoscenza, come suggerisce Armezzani (2004), appare inevitabile; in accordo con l'autrice, riteniamo che all'interno del movimento costruttivista si stia animando un rinnovato atteggiamento scientifico che non persegue l'assolutezza dello sguardo impersonale o lo "sguardo da nessun luogo " di cui parla Nagel ma che propone una scienza dell'esperienza; una scienza in cui la soggettività non solo non rappresenta un ostacolo ma è la struttura stessa della conoscenza, "soggettivo non come contrario di oggettivo ma il modo stesso in cui conosciamo, l'unico modo di cui ci è dato disporre" (Armezzani, 2004).
é da questa prospettiva che vorremmo guardare la malattia mentale, tenendo sempre in primo piano la nostra esperienza di clinici, che ci rimanda costantemente al quesito: perché è così ovvio quanto faticoso pensare ed accettare che quando l'oggetto di studio non è più una "cosa" ma un fenomeno come la paura, l'amore, la vergogna, la noia , la speranza, i metodi naturalistici evidenziano i loro limiti?

Conclusioni

In linea con il principio cardine dell'Orientamento Costruttivista, ovvero la consapevolezza della presenza di molteplici prospettive, abbiamo ritenuto opportuno, oltre a far emergere la crisi in cui imperversa il Manuale Diagnostico della Malattia Mentale, ricostruire il percorso del concetto di Psicopatologia: prima dal punto di vista della scienza medico/psichiatrica poi dalla prospettiva Psico-Filosofica-Storica- Focaultiana.
Prescindendo dall'indeterminatezza del fenomeno umano, nel corso del tempo si è cercato di semplificare qualcosa di complesso e che ha nella sua complessità la propria essenza: la persona, trasformata, attraverso una doppia operazione, prima di astrazione, poi di oggettivazione, a mero organismo, estraneo al proprio mondo esperienziale e storico culturale.
Partendo da questi presupposti, riteniamo necessario guardare la specificità della malattia mentale, prendendo in considerazione non solo l'assenza di alcune capacità ma soprattutto la presenza di quelle facoltà che ne caratterizzano il senso, "facendo più affidamento all'uomo stesso".
Ne risulta che la malattia non possa prescindere dalla storia individuale e dal fatto che il caos e la sofferenza convergano trovando la loro coerenza-essenza nella struttura personale del malato.
Inevitabili le implicazioni cliniche e terapeutiche. La visione più ricca proposta muove il clinico verso un atteggiamento di comprensione e di conseguente condivisione. Elementi indispensabili per una costruzione di una relazione terapeutica solida e rivolta al cambiamento.
Meno evidenti le implicazioni riguardo una "classificazione" della psicopatologia che, al momento sembra trovarsi in una difficile empasse: riduttiva e insufficiente tanto alla ricerca che alla pratica clinica. A nostro avviso, l'astrazione e la generalizzazione raggiunte ci parlano di "menti che non sono di nessuno"!
La nostra aspettativa è quella di una revisione totale dell'orizzonte della classificazione che parta da presupposti di avvicinamento e comprensione e non di isolamento/alienazione; che muova da curiosità ed interesse ri-considerando il valore del sentire umano e il senso della persona nella sua interezza.

Bibliografia

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Note:

1) Massimiliano Aragona, 2006 Aspettando la rivoluzione. Oltre il DSM-V: le nuove idee sulla diagnosi tra filosofia della scienza e psicopatologia. Editori Riuniti. Questo paragrafo scaturisce proprio dalla riflessione e dal confronto nato tra di noi dopo la lettura di questo testo.
2) Furio Di Paola, 2000 L'istituzione del male mentale. Critica dei fondamenti scientifici della psichiatria biologica. Ed. Le esche. Manifestolibri srl
3) Ivi, p. 129
4) R.E.Kendell, J.E.Cooper, A.J.Gourlay, J.R.M.Copeland, L.Scarpe, B.J.Gurland, Diagnostic criteria of American and British psychitrists. Archves of General Psychiatry 1971; 25: 123-130. Gli autori sottopongono a 450 psichiatri esperti, inglesi ed americani, otto videotapes di interviste diagnostiche. La richiesta era quella di fare una diagnosi secondo i criteri dell'8^ edizione dell'ICD (International Classification of Diseases), criteri molto simili a quelli del DSMII, per cui entrambi i gruppi avevano dimestichezza con il tipo di classificazione.
5) Massimiliano Aragona, 2006 p.83
6) Come l'ateoriticità del DSM o all'opposto il suo essere troppo parrocchiale. Il suo concentrarsi troppo sullo status, cioè sull'analisi dei sintomi, sul qui ed ora (trascurando l'evoluzione della patologia, il decorso). L'essere adinamico, ignorare cioè l'eziopatogenesi e la fisiopatologia. L'essere eccessivamente riduzionista.
7) Aragona, p. 80
8) Furio Di Paola, 2000 L'istituzione del male mentale, p.36
9) Michel Foucault, Storia della Follia. BUR
10) Foucault racconta che i contemporanei di Colbert si erano già rivolti la domanda che sarà poi formulata da Voltaire: "e che? Non possedete ancora il segreto di obbligare tutti i ricchi a far lavorare tutti i poveri? Voi non avete ancora i primi rudimenti dell'organizzazione politica". (pag 68).
11) Foucault arriva a ri-costruire una relazione tra internamento e crisi economica del paese: "...l'internamento assume un altro significato. La sua funzione repressiva si trova rafforzata a causa di una nuova utilità. Non si tratta più allora di rinchiudere i senza lavoro, ma di dar lavoro coloro che sono stati rinchiusi e di farli così servire alla prosperità comune. L'alternanza è chiara: mano d'opera a buon mercato nei periodi di pieno impiego e di alti salari; e in periodo di disoccupazione riassorbimento degli oziosi protezione sociale contro l'agitazione e le sommosse. Non dimentichiamo che le prime case d'internamento appaiono in Inghilteraa nei centri più industrializzati del paese.....Tutti gli internati devono lavorare".
12) Per un'analisi del concetto di persona come "unità concreta di atti" e relative implicazioni sociali e psicologiche vedi De Monticelli R. L'ordine del cuore, Ontologia del nuovo e La Novità di ognuno.

* Massimo Esposito, Psicologo Psicoterapeuta, Docente ATC - Studio Multiverso Via degli Scipioni, 245 Roma
m.esposito@cognitiva.org
Emanuele Guarracino, Psicologo Psicoterapeuta, Docente ATC - Studio Multiverso Via degli Scipioni, 245 Roma e.guarracino@cognitiva.org
Roberta Zaratti, Psicologa Psicoterapeuta, Docente ATC - Studio Multiverso Via degli Scipioni, 245 Roma r.zaratti@cognitiva.org

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