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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicodiagnosi e Clinica




Il DSM-5: un "ponte" che reggerà?

Massimiliano Aragona
Associazione Crossing Dialogues, Roma


Abstract

In occasione della pubblicazione del DSM-5, si apre una riflessione epistemologica sulle modifiche nell’organizzazione generale del modo di far diagnosi che il DSM-5 introduce. Si valuteranno sia le modifiche che il DSM-5 ha apportato, sia quelle che il DSM-5 non ha fatto, e sulle ragioni per cui ciò non è avvenuto. Tutto ciò richiederà una lettura del contesto più generale in cui questo dibattito viene a situarsi, ovvero la crisi del modo di far diagnosi introdotto dal DSM-III e le difficoltà che si sono poste di fronte a chi ha tentato di operare una rivoluzione scientifica. L’analisi consentirà così di valutare la situazione attuale e di immaginare i possibili scenari futuri.

Parole chiave: diagnosi, nosologia, nosografia, classificazione psichiatrica, tassonomia, epistemologia


Introduzione

Dopo lunga (13 anni) e “trepidante” (almeno per qualcuno) attesa, finalmente il DSM-5 (American Psychiatric Association 2013), la nuova edizione della “Bibbia” della psichiatria, ha visto la luce. Nei prossimi mesi ci saranno senz’altro numerosi studiosi che si interrogheranno sulle modifiche apportate a questo o quel disturbo, oppure sull’introduzione di nuovi disturbi, e sulle ricadute epidemiologiche, cliniche, terapeutiche, etiche e legali che tutto ciò avrà.

Questo breve scritto vuole invece concentrarsi su un piano più generale, epistemologico, mettendo in luce le modifiche nell’organizzazione generale del modo di far diagnosi che il DSM-5 introduce, e riflettendo su cosa ciò comporti per la nosologia psichiatrica. Ma facendo questo sarà altrettanto importante riflettere sulle modifiche che il DSM-5 non ha fatto, e sulle ragioni per cui ciò non è avvenuto. Tutto ciò richiederà una lettura del contesto più generale in cui questo dibattito viene a situarsi, consentendo così di immaginare i possibili scenari futuri.


La crisi del DSM

In questo paragrafo si faranno delle affermazioni sullo stato della classificazione psichiatrica prima della pubblicazione del DSM-5, in modo da poter meglio comprendere su quale terreno quest’ultimo venga a situarsi. Per esigenze di sintesi ci si limiterà a illustrare il quadro, rinviando il lettore ai testi citati per una giustificazione più articolata di quanto affermato.

Il DSM-III come paradigma kuhniano. Il DSM-III (American Psychiatric Association 1980) ha segnato la nascita di un vero e proprio paradigma scientifico, seppur nel campo limitato della classificazione psichiatrica. Ciò significa che da quel momento in poi le “resistenze” degli oppositori sono state progressivamente ed inesorabilmente vinte, e il modo di far diagnosi del DSM-III è divenuto la diagnosi psichiatrica. Ne è conseguita un’egemonia sulla clinica e sulla ricerca psichiatrica; non solo, l’influenza del DSM è stata così forte da far sì che anche le altre professioni, e addirittura il dibattito quotidiano al di fuori dei contesti tecnici, abbiano finito per adottare lo spirito, il linguaggio e la visione del mondo del DSM. Insomma, qualunque discussione sulla patologia mentale è divenuta una discussione sui disturbi mentali così come concettualizzati dal DSM-III ed edizioni successive (Aragona 2006).

Criteri diagnostici operativi. Una analisi storica (Aragona in press) ha evidenziato come, dei vari elementi di novità introdotti al DSM-III, uno in particolare abbia costituito la vera innovazione capace di far nascere un nuovo paradigma: l’introduzione dei criteri diagnostici operativi. I criteri diagnostici operativi sono l’elemento che, rispetto alle classificazioni precedentemente in uso, rende i disturbi mentali del DSM-III ed edizioni successive specifici ed incommensurabili. Essi sono caratterizzati dall’utilizzo di definizioni esplicite di ciò che il clinico dovrebbe osservare nel paziente (i sintomi), di ciò che egli può desumere dalle informazioni che ha (ad esempio, età di esordio, durata della sintomatologia, frequenza di alcuni sintomi, deterioramento del funzionamento socio-lavorativo, etc.) e di ciò che egli può escludere in base alla sua contemporanea valutazione clinica di altre possibili diagnosi (esclusione di altre diagnosi). La definizione dei sintomi è di solito di tipo politetico, nel senso che non vi sono sintomi che per qualità siano essenziali e più importanti di altri, ma basta avere un numero minimo di sintomi tra quelli elencati nei criteri; occorre cioè superare una soglia diagnostica che è sostanzialmente quantitativa (Aragona 2009a). L’impostazione epistemologica che sottende questa modalità operativa è di tipo neopositivista ed ha come elemento cardine la credenza che i sintomi siano enti direttamente osservabili, e che i criteri diagnostici operino come “regole di corrispondenza” dalle quali, valutata con diligenza la presenza o meno dei sintomi e degli altri criteri elencati, la diagnosi debba emergere automaticamente (Aragona 2013).

La crisi del DSM. Si è suggerito (Aragona 2006; 2009b; 2009c) che le problematiche emerse con l’applicazione sistematica del DSM (ad esempio, eterogeneità dei gruppi di pazienti con diagnosi uguale, eccessiva comorbidity, scarsa capacità prognostica, scarsa selettività terapeutica dei vari disturbi) non fossero problematiche puramente empiriche, ma piuttosto vere e proprie anomalie kuhniane (Kuhn 1962). Ciò significa che non è tanto la natura che è fatta così; piuttosto, problemi di questo tipo emergono perché la nostra impostazione della ricerca è di un certo tipo. In altre parole, questi fenomeni sarebbero in gran parte artefatti del sistema, e il problema sarebbe così grave da mettere in crisi il sistema stesso. In questi casi le crisi scientifiche tendono a perdurare sinché non emerge un’alternativa radicale al sistema, alternativa che, inquadrando la questione in tutt’altro modo, fa sì che i problemi citati (le anomalie, in termini kuhniani) si risolvano. E ciò non tanto nel senso che si trova la soluzione del problema quanto, più spesso, che reimpostando il paradigma generale, il vecchio problema non esiste più, semplicemente si scioglie.

L’attesa per il DSM-V. Così, dopo anni di trionfalismi e di totale fiducia sul fatto che il DSM, dando diagnosi più affidabili, avesse messo i ricercatori sulla giusta strada per scoprire le cause e le cure dei disturbi mentali, alla fine ci si è dovuti rendere conto che il sistema è in crisi. In vista di quello che allora s’immaginava si sarebbe chiamato il DSM-V, gli stessi studiosi chiamati a redigerlo ammettevano che: “Sono state espresse preoccupazioni che l’adozione servile delle definizioni del DSM-IV da parte dei ricercatori possa aver ostacolato la ricerca dell’eziologia dei disturbi mentali. […] la ricerca che si focalizzi esclusivamente nel raffinare le sindromi definite secondo il DSM potrebbe non esser mai in grado di scoprire le loro eziologie sottostanti. Perché ciò avvenga potrebbe esser necessario un ancora ignoto cambio di paradigma” (Kupfer et al. 2002, p.xix). Tra le proposte che allora si vedevano come più adatte a far uscire il sistema della crisi ve ne erano due di particolare peso: il passaggio dalla diagnosi categoriale a quella dimensionale, e il passaggio dalla diagnosi descrittiva a quella basata sull’eziopatogenesi. Se la radicale proposta eziopatogenetica a cinque assi (Charney et al. 2002) appariva già allora di difficile applicazione, viste le ancora scarse conoscenze in materia, una certa fiducia si era diffusa sul fatto che si andasse verso una progressiva dimensionalizzazione delle diagnosi. Insomma, molti avrebbero scommesso volentieri sul fatto che il DSM-V avrebbe eliminato almeno i disturbi di personalità per sostituirli con una valutazione dimensionale della personalità. Ciò che però appariva ormai a portata di mano ha dovuto fare i conti con montanti critiche e proteste, anche da parte dei curatori delle precedenti edizioni del DSM (ad esempio Spitzer 2008; Frances 2009). Ciò ha comportato non solo un allungamento dei previsti tempi di pubblicazione ma anche, come vedremo, importanti cambiamenti del prodotto finale.


Il DSM-5

Rispetto alle edizioni precedenti, il DSM-5 (American Psychiatric Association 2013) introduce importanti cambiamenti nella struttura di base del volume. Ad esempio, viene eliminata la multiassialità e tutti i disturbi vengono posti su un unico asse (compresi i disturbi di personalità), mentre vi sono annotazioni separate per i fattori psico-sociali e di contesto (che prima erano in Asse IV), e per la disabilità (che prima era in Asse V). Gli autori del DSM-5 spiegano che la scelta di eliminare gli assi si accorda con l’annotazione del DSM-IV che l’uso degli assi non implicasse che vi fossero differenze fondamentali tra disturbi posti su assi diversi. Non viene però detto perché si è deciso di eliminarli. Rispetto alla valutazione del funzionamento (ex Asse V) vi è una seconda novità di rilievo, cioè la sostituzione della scala GAF, ritenuta poco chiara e scarsamente validata, con la “Disability Assessment Schedule” dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHODAS). Avendo eliminato gli assi, i vari disturbi (tra cui diverse new entries come lo Skin Picking Disorder, il disturbo disforico premestruale, o il disturbo reattivo dell’attaccamento) sono stati ridistribuiti tra i vari capitoli. Di rilievo c’è che l’ordine dei capitoli non è casuale, ma risponde a due criteri ordinatori: 1) l’età della vita, per cui si comincia dall’età infantile con i disturbi del neurosviluppo, per finire con i disturbi neurocognitivi (demenze, ma non solo), più tipici dell’anziano; 2) una supposta comune diatesi dimensionale sottostante, per cui si andrebbe da disturbi di tipo “internalizing” (emotivi e somatici) a disturbi di tipo “externalizing” (impulsività, uso di sostanze, etc.). Vedremo più avanti come questa non sia l’unica accezione di dimensionalizzazione presente nel DSM-5.

Tra le altre innovazioni, una maggior attenzione alle tematiche culturali e alle differenze di genere. Rispetto alle prime, le vecchie culture-bound syndromes vengono sostituite da una guida all’intervista in ambito culturale, la quale consente di differenziare tra sindromi culturali, “idioms of distress” e “spiegazione o causa percepita” di tipo culturale. Rispetto alle seconde, c’è maggior spazio dedicato alle differenze di genere, nel testo e a volte anche nei criteri.

Ancora, un’altra innovazione di rilievo è la sostituzione della vecchia casella “disturbo non altrimenti specificato” con due categorie tra le quali il clinico è libero di scegliere. Una è quella dei “disturbi non specificati”, l’altra è quella degli “altri disturbi specificati”, nei quali si potranno diagnosticare i disturbi riconosciuti ma che non soddisfano i criteri del DSM (ad esempio, i disturbi sottosoglia). Ciò avrà l’effetto di allargare ulteriormente la platea delle persone alle quali si potrà fare una diagnosi specifica secondo il DSM, realizzando l’incubo dell’iperinclusività e del rischio dell’aumento dei falsi positivi, paventato ad esempio da Wakefield e Spitzer (2002). Gli autori del DSM-5 preferiscono però enfatizzare la controparte positiva di ciò: “il fatto che alcuni individui non mostrino tutti i sintomi indicativi di una diagnosi non dovrebbe essere usato per giustificare una limitazione all’accesso alle cure appropriate” (American Psychiatric Association 2013, p.20).

Infine, un punto importante non è tanto cosa sia cambiato, ma quale cambiamento non è stato fatto. A livello delle diagnosi due sono i mancati cambiamenti rivelatori dello stato delle cose.

Primo, la cosiddetta “Ultra-High Risk Psychosis”, su cui tanti gruppi nel mondo stanno lavorando. Sembrava dovesse entrare senz’altro nel manuale, essendo in discussione solo il nome da darle e altri dettagli. Così non è stato, e ciò perché ha vinto la linea di quanti ritenevano questa novità un favore alle case farmaceutiche, le quali avrebbero allargato enormemente il loro mercato di riferimento vendendo antipsicotici a persone che, pur non rientrando nei criteri diagnostici per schizofrenia o per un’altra psicosi, erano definite a rischio di sviluppare psicosi negli anni successivi.

La seconda mancanza di peso riguarda la proposta di riformulazione in senso dimensionale della diagnosi di personalità. I disturbi di personalità non hanno più un proprio asse specifico, ma per il resto rimangono identici al DSM-IV, e le possibili innovazioni finiscono tra i criteri alternativi da usare per la ricerca, in vista di un ipotetico DSM-6! Quest’ultimo punto introduce un discorso più generale, che si palesa bene nei disturbi di personalità ma che riguarda il DSM nel suo insieme.

All’epoca del DSM-IV il dibattito sui limiti della diagnosi categoriale e sull’alternativa dimensionale era già molto avanti, tanto che i curatori scrivevano: “E’ stato suggerito che la classificazione del DSM-IV dovesse esser organizzata seguendo un modello dimensionale piuttosto che il modello categoriale usato dal DSM-III-R. Un sistema dimensionale classifica le presentazioni cliniche in base alla quantificazione di attributi, piuttosto che attraverso l’assegnazione a una categoria, e funziona meglio per la descrizione di quei fenomeni che si distribuiscono in modo continuo e che non hanno confini netti. Nonostante i sistemi dimensionali aumentino l’affidabilità e comunichino più informazioni cliniche (perché riportano quegli attributi clinici che in un sistema categoriale potrebbero essere sottosoglia), hanno anche seri limiti […] Ciononostante, è possibile che aumentando la ricerca sui sistemi dimensionali e la familiarità con essi, ciò possa anche portare a una loro più ampia accettazione, sia come metodo per comunicare informazioni cliniche che come strumento di ricerca” (American Psychiatric Association 1994, p.xii). Insomma, vi era la sensazione che nel futuro la diagnosi dimensionale (più flessibile e individualizzata) dovesse soppiantare le vecchie diagnosi in disturbi categoriali; i tempi sembravano maturi se non per tutto il DSM, almeno par l’Asse II. Invece, nel tempo sono emersi sempre più chiari gli elementi che indicavano delle problematicità rilevanti: “[la diagnosi dimensionale] non è ancora sufficientemente forte, sia perché presenta dei limiti intrinseci in parte simili a quelli del sistema categoriale, sia perché il campo dimensionale è ancora pre-paradigmatico, e il dissiparsi delle forze tra varie proposte dimensionali alternative e in competizione indebolisce il loro potenziale rivoluzionario. Dunque, il sistema dominante, categoriale, è in crisi, ma per ora il movimento rivoluzionario dimensionale è stato respinto” (Aragona, 2006, p.173). Il DSM-5 non ne illustra le ragioni, però è un fatto che la sua dimensionalizzazione è molto diversa da quella radicale che ci si aspettava (almeno per i disturbi di personalità), e soprattutto il termine dimensionale diventa fortemente polisemico andando a indicare, nello stesso DSM-5:

a) l’unione di disturbi più piccoli in una categoria più ampia, come è ad esempio avvenuto per lo “spettro autistico”. Qui si chiama dimensionale ciò che in passato era stato definito “approccio lumping” o “diagnosi di spettro”;

b) la polarizzazione delle diagnosi tra internalizzazione ed esternalizzazione, che sottenderebbe al livello più fondamentale i singoli disturbi senza però che nel DSM-5 questi si dissolvano (secondo l’approccio ben esposto da Krueger e Eaton (2012)).

c) gli specificatori quantitativi di gravità dei sintomi elencati all’interno di alcuni disturbi del DSM-5;

d) la dimensione sottostante (ad esempio, genetica) che si ipotizza sottenda i disturbi posti in capitoli adiacenti.

Chi ha seguito il dibattito categoriale/dimensionale degli ultimi 20 anni non potrà non notare come da queste accezioni sia scomparso del tutto ciò che più ha animato la discussione negli anni passati, come ad esempio la polemica tra sostenitori del modello dei Big Five da un lato e della SWAP-200 dall’altro.


Conclusioni: ma il “ponte” reggerà?

Come si è visto, facendo seguito a quanto anticipato dall’agenda per il DSM-V (2002), anche il DSM-5 ammette che il modo di far diagnosi introdotto dal DSM-III presenta una serie di rilevanti problematiche che sono inerenti alla struttura stessa del sistema (American Psychiatric Association 2013, p.10). Quando però i creatori del DSM-5 sono andati ad operare drastici cambiamenti, hanno dovuto fronteggiare inaspettate ed inedite polemiche e critiche dall’interno stesso dell’establishment, riunite in un “fronte dei conservatori” preoccupato che troppi cambiamenti avrebbero potuto comportare danni (ad esempio, perdita di informazioni e non confrontabilità con le ricerche operate col vecchio sistema), non compensati dai supposti benefici. La storia ci dice che in gran parte i conservatori hanno vinto e che gli autori del DSM-5 hanno dovuto abbandonare i propri propositi di cambiamento radicale. Però il DSM-5 è solo in parte un sistema in continuità con il DSM-IV. Certamente lo è nel mantenere come nucleo i criteri diagnostici operativi, che in modo neopositivista mantengono inalterata la struttura neokraepeliniana del DSM. Tuttavia dall’altro lato la riorganizzazione, per quanto parziale, prelude ad un’apertura della ricerca agli ambiti transnosografici, alla ricerca di denominatori comuni che trascendono i singoli disturbi. Qui il modello a cui si guarda non è più quello dimensionale (nel senso con cui lo si intendeva negli anni scorsi), ma quello della diagnosi basata sulle disfunzioni cognitive di base, secondo la prospettiva dei Research Domain Criteria (RDoC) lanciata negli Stati Uniti dal National Institute of Mental Health (Insel et al. 2010).

Insomma, per sua stessa ammissione il DSM-5 è “un ponte verso i nuovi approcci diagnostici senza scompaginare l’attuale pratica clinica e di ricerca” (American Psychiatric Association 2013, p.13). Se però: 1) è ormai ampiamente accettato che il DSM così come l’abbiamo conosciuto è in crisi; 2) la prospettiva dei RDoC è ad esso incommensurabile, nel senso che è totalmente alternativa e incompatibile (il DSM essendo basato sulle diagnosi fenomeniche, mentre il sistema RDoC sarebbe basato sulle disfunzioni cognitive); allora 3) un ponte gettato fra due rive così diverse, di cui una rivoluzionaria rispetto all’altra, potrà reggere?

L’impressione di chi scrive è la seguente: nonostante diverse interessanti e utili novità, il DSM-5 è ancora sostanzialmente un prodotto del conservatorismo, un Luigi XVI che per quanto possa provare a fare riforme dovrà inesorabilmente capitolare. Se poi al suo posto potrà subentrare una diagnosi come quella proposta dal progetto RDoC è tutt’altro che scontato, e al momento è difficile fare previsioni attendibili. Ciò che invece è credibile, e in parte sta già avvenendo, è che gli editor delle riviste e i ricercatori si sentiranno sempre più liberi di impostare la diagnosi in modo più rispondente alle proprie esigenze, con un fiorire di proposte alternative che già stanno segnando la fine della dittatura del DSM.


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Indirizzo per la corrispondenza:

Massimiliano Aragona

Associazione Crossing Dialogues

via Trapani 20, 00161 Roma

email: massimiliano.aragona@uniroma1.it


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