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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Medicina di Base e Psichiatria

Sull'esperienza di un Gruppo Balint extra istituzionale a Crema:
il resoconto di una seduta


di Giancarlo Stoccoro* e Franca Beatrice**



L’esperienza è una strada tortuosa
che la mente –paradossalmente-
preferisce alla mente stessa
con la presunzione di far strada

Proprio al contrario – Quanto contorta
l’autodisciplina dell’uomo –
che lo costringe a scegliersi con le sue stesse mani
i dolori cui è stato destinato in precedenza.
(Emily Dickinson, in Silenzi, 1864)


“Me ne resi conto per la prima volta all’accademia militare e più tardi indossando la divisa della fanteria. E adesso di nuovo: come ogni creatura si trovi in certo modo ad affrontare solo quella difficoltà che è a livello delle sue forze, anche se poi le supera di molto.

Peranto fin da bambino credo di aver pregato soltanto per la mia difficoltà, che mi fosse concessa la mia e non, per errore, quella del falegname o del cocchiere o del soldato, perché nella mia difficoltà voglio riconoscermi”.
(Rainer Maria Rilke, Il Testamento)



Il gruppo Balint extra istituzionale di cui qui presentiamo il resoconto di una seduta, come il precedente (vedi Sull’esperienza di un gruppo extraistituzionale a Crema), prevede un incontro mensile della durata di due ore e la co-conduzione di uno psichiatra e di una psicologa, entrambi psicoterapeuti, affiancati da una recorder, psicologa anch’essa.
Questo gruppo, diversamente dal precedente, accoglie fra i suoi partecipanti non solo medici ma anche appartenenti ad altre categorie professionali nella cui consuetudine lavorativa sia però evidente la centralità, come per i medici, della relazione con l’utente o con il paziente: così in questo gruppo sono stati inseriti tre insegnanti, un educatore, una fisioterapista, una assistente sociale, un medico dentista, un medico di base, un neurologo, oltre ai due conduttori e la recorder.
In questo incontro emerge il problema della comunicazione di diagnosi al paziente ma, ancor di più, la questione del rispecchiamento fra medico e paziente, fra professionista e utente, che spesso interviene quando l’uno ritrova nell’altro parti, caratteristiche, che riconosce anche come proprie.
Le difficoltà emotive che da ciò scaturiscono, e le relative difese messe in campo in questi casi, emergono chiaramente nel gruppo, in particolare in un gruppo eterogeneo come questo, in cui è ancor più probabile che qualcuno si identifichi con il paziente e qualcun altro con il curante.
Altro tema emerso in questo incontro è quello dell’abbandono, ma più in generale dell’aggressività, dell’utente nei confronti del professionista: anche in questo caso il lavoro del gruppo e la presenza in esso di professionalità diverse sembra aver consentito e facilitato una elaborazione più ampia intorno alla relazione fra persone e quindi aver messo in particolare rilievo l’importanza formativa e l’aiuto nella pratica quotidiana, per ciascun partecipante, di uno spazio di riflessione su questi temi.

Partecipanti:
3 insegnanti (I1, I2, I3)
1 educatore (E)
1 fisioterapista (F)
1 assistente sociale (A)
1 medico dentista (MD)
1 medico di base (MB)
1 medico neurologo (MN)
2 conduttori (GS, FB).
1 recorder

MN, alla sua prima partecipazione al gruppo, dopo le presentazioni, propone una situazione che lo ha particolarmente coinvolto.
MN: si tratta di una vicenda accaduta in ambito ospedaliero alcuni mesi fa; mi si presenta un collega, con cui ho avuto spesso rapporti di collaborazione professionale, che, in quanto neurologo, mi chiede una informale consulenza rispetto a sintomi di cui soffre da qualche giorno quali inceppamento della parola e disagio suo nel notare che, pur pensando un certo vocabolo, a volte si trovava a pronunciarne poi tutt’altro. Trovandoci già in ospedale, e sempre in un clima rilassato e scherzoso, dico al collega che potevamo andare a fare una TAC e mi occupo io stesso di chiedere ai colleghi della TAC se era possibile infilarlo subito, fra un appuntamento e l’altro. Questo avviene e dall’esito della TAC appare immediatamente, chiara e inconfondibile, la presenza di un tumore cerebrale. A quel punto c’è un enorme imbarazzo-difficoltà in tutti, i tecnici si defilano e anche gli altri colleghi è come se mi lasciassero solo a gestire questa situazione, difficilissima anche per me perché il collega si è immediatamente reso conto, ha visto lui stesso sul computer, la presenza della neoplasia. Gli è cambiato il mondo improvvisamente, era entrato in ospedale da medico e ora si trovava a essere paziente esposto a una malattia grave di cui lui aveva però piena consapevolezza e rispetto a cui non ha potuto usufruire di alcun filtro, alcuna cautela nella comunicazione della diagnosi.
GS: tu ti sei trovato di fronte a una persona totalmente consapevole, non era possibile usare mediazioni. Pensavo anche al fatto che noi ci coinvolgiamo soprattutto di fronte a cose che possono riguardare anche noi direttamente, e quindi quanto la possibilità, anzi la inevitabilità di una identificazione con il paziente. Ciò che ci consente di lavorare è considerare il paziente altro da noi, altrimenti, essendo noi medici in contatto con la morte, se non ponessimo una certa distanza, forse non potremmo avere una lunga vita professionale. Che cosa ha colpito di più MN? A noi non interessa tanto il lato tecnico ma il fatto che è proprio questa la situazione che ci hai portato, e non un’altra, magari più recente.
FB: mi ha colpito molto l’inizio di questo racconto, lo stile leggero e sorridente con cui è apparentemente iniziata…c’è stato un dire “ma sì, …facciamo una TAC,…”, come se una TAC fosse uno scherzetto, una sorta di svalutazione di quel che stava avvenendo.
MN: io speravo in realtà che si trattasse di un disturbo vascolare, spesso questi sintomi sono espressione di un disturbo circolatorio, a volte anche regressivo, per cui pensavo che potesse essere questo. Anzi io volevo trovare un piccolo disturbo vascolare e l’ipotesi tumorale era stata da me già rimossa, del genere pacca sulla spalla!
FB: io credo che ci sia proprio questo “io volevo che fosse un disturbo vascolare”. Un medico di fronte a un medico” vi è stato un rispecchiamento. Chiunque altro avrebbe avuto un atteggiamento diverso. Chiunque di noi si sia trovato in cura da un amico o da un collega può aver vissuto questo desiderio di semplificazione, mentre quando siamo pazienti e basta, per esempio, ci vengono poste anche le ipotesi di diagnosi differenziale…e poi si valuta. Vi è stata un certo timore identificatorio che ha portato una sorta di “fretta” risolutiva della relazione più che una fretta diagnostica.
MN: io percepivo l’ansia del collega che si aspettava che io gli dicessi qualcosa.
FB: e allora riemerge il problema della distanza, che ogni tanto salta fuori: come si fa a fare un mestiere come il nostro, come il vostro, se non c’è un minimo di distanza? Inoltre oggi ci incontriamo con la precarietà, la caducità dei ruoli…
MB: deve essere stato drammatico per questo collega sentirsi in un attimo dall’altra parte della barricata, lui che lavora lì in un attimo non si è più sentito una persona con il camice.
MN: è successo anche nella realtà…ha tolto il camice per fare l’esame e non lo ha più rimesso! Mi ha colpito talmente che mi ricordo ogni particolare; per me dire “facciamo una TAC” era un modo per eliminare un dubbio che non avrei voluto neanche avere! Avrei voluto trovare un disturbo vascolare o nulla…invece non è stato così.
I3: il problema va visto anche dalla parte del paziente, non si può trovare qualche cosa valido per tutti. Il medico, come l’insegnante ha a che fare con delle persone, quello che va bene per uno non va bene per l’altro e quindi è una strada che spetta a noi trovare; siamo unici e irripetibili, dobbiamo fare uno sforzo continuo di conoscere le persone, lavorando su di loro e su di noi, non serviamo a niente e a nessuno se non conosciamo il paziente. E’ inutile porsi il problema in senso teorico, bisogna calarsi dentro, è uno sforzo immenso.
MN: direi che l’insegnante conosce di più la persona perché spesso il medico ha dei contatti fugaci, soprattutto noi medici ospedalieri visitiamo pazienti inviati dai medici di base, per cui c’è già una idea di patologia. In ospedale si fa un iter diagnostico e successivamente la diagnosi, la persona viene vista 2/3 volte, stanno da noi alcuni giorni e noi non abbiamo il tempo di conoscere la persona, forse a volte non ne abbiamo la disponibilità, ma ci sono dei limiti reali, forse un’insegnante ha più tempo per conoscere l’allievo.
I3: quello che voglio dire è che, purtroppo quando si lavora con delle persone si diventa un poco missionari, e la missione costa. Dobbiamo seguire la persona, conoscerla e curarla, diversamente rischiamo di non fare bene il nostro lavoro, anche se costa. Non troveremo noi delle strade generiche, l’ideale è lottare perché chi fa il medico o l’insegnante abbia del tempo da dedicare veramente agli altri, la qualità anziché la quantità, non è così nella situazione attuale.
GS: nello specifico, tornando alla situazione è stato qualche cosa di inaspettato, fuori dalle regole, qualsiasi esse siano. Questo caso è importante per il coinvolgimento emotivo, c’è sempre qualcosa che ci sorprende. Inoltre MN ha detto che gli altri si erano dileguati e quindi lui si è trovato anche da solo!
MN: sì, è stato come un’esplosione, niente era più come di consueto.
GS: tu, quindi ti sei trovato a non essere più il collega di, ma il medico del collega, inoltre tu ti sei sentito completamente solo nell’affrontare questo momento.
MN: sì. una grande responsabilità e anche un grande imbarazzo perché il collega-paziente aveva chiaramente capito la gravità della situazione.
FB: è stato un passaggio brusco per tutti: questo collega che lascia “improvvisamente” il camice, ma anche i panni dell’amico, del conoscente, per rivestire, in pochi secondi, tutt’altri panni; mi chiedevo inoltre se gli effetti immediati di un tumore cerebrale che, credo, produce rilevanti inabilità, al di là del grande discorso del rischio di vita, della vita e della morte, abbiano avuto un loro peso.
MN: se ci si riferisce ai disturbi della comunicazione, è un altro elemento perché il collega ben conosceva gli aspetti del tumore cerebrale. Gli è cambiata quindi la vita da un momento all’altro, sono situazioni che cambiano tutti gli aspetti della vita.
GS: anche a un altro paziente l’avrebbe cambiata, la differenza è in te.
MN: avrei potuto addolcire la cosa se fosse stato un paziente non medico, avrei potuto cercare di non appesantire, nei limiti del possibile, invece con lui sono intervenute immediatamente tutte le domande specifiche (e adesso?, che cosa?, come?, quando?, chemioterapia?…) a cui abbiamo dovuto dare delle risposte nell’immediatezza dell’evento: se proprio devo fare una autoanalisi ero forse un poco alleggerito perché almeno il problema della comunicazione della diagnosi era superata, sapendo che lui sapeva non c’era più bisogno di comportamenti particolari, però è stato un colpo.
MD: credo che tu ti possa essere sentito anche a rischio personale: se è successo a questo mio collega di “lasciar appeso il camice” potrebbe accadere anche a me.
MN: questo è vero, tante volte non riflettiamo sulla caducità della nostra vita se non quando è minacciata la vita dei nostri cari, di noi stessi o in situazioni come queste. In realtà situazioni di questo tipo ne vedo tutti i giorni.
MD: penso a quanti di noi hanno scelto di fare il medico proprio per “superare” il problema della morte, per avere una corazza, c’è forse una illusoria sensazione di intangibilità se si sta dall’altra parte.
GS: c’è qualcuno dei non medici che vuole intervenire?
E: una domanda che mi era venuta è questa: se dopo 6 mesi dovesse ripresentarsi un altro collega, con sintomi simili o diversi ma sempre nella sfera neurologica, come si comporterebbe?
MN: sarei sicuramente più schivo, meno “garibaldino”, meno “compagnone”, un poco più preoccupato.
GS: tu per primo avevi quasi escluso questa eventualità, in qualche modo c’è stata un’ansia nel cercare di risolvere subito, è significativo che fosse con te, fino a quel momento, dall’altra parte della barricata, veniva con te a fare consulenze a altri.
E: a me è capitato (io lavoro con ragazzi tossicodipendenti che quindi portano una sofferenza psicologica e fisica) di trovarmi in qualche misura dall’altra parte: l’anno scorso in maniera improvvisa, una notte dopo una banale influenza per cui sono stato male, con vomito e altro, mi è scattata una forte depressione, e in poco tempo mi sono trovato dall’altra parte, non provavo una sofferenza normale come ciascuno di noi può avere ma, invece, una forte sofferenza psicologica. Il lavoro che poi ho fatto è stato nel senso del poter cogliere la sofferenza dell’altro senza doverci passare dentro. Questo mio momento di sofferenza è stata come una lezione di vita per me, che mi ha permesso di cogliere, di imparare a entrare attraverso la relazione con la mia sofferenza, in contatto con la sofferenza dell’altro che avevo davanti, e quindi, adesso, a vivermi la sofferenza degli altri in modo meno giudicante e più empatico. Mi è rimasto dentro e quindi penso che ogni esperienza possa dare qualcosa.
MD: vorrei capire da MN se dopo questa esperienza anche per lui è cambiato qualcosa, come diceva Ma rispetto al suo momento di vita.
MN: direi che in particolare non ho notato un cambiamento rispetto al mio modo di operare, quell’esperienza con il collega è rimasta dentro di me come abbastanza isolata, il mio abituale modo di operare (mio e della mia équipe, lavorando io in collaborazione con colleghi) non mi sembra sia cambiato molto, nella comunicazione della diagnosi, che faccio abbastanza gradualmente, anche se forse manca la personalizzazione della comunicazione stessa, ma a questo proposito si potrebbe aprire un grande capitolo, bisognerebbe conoscere davvero le persone! Direi comunque che non è cambiato molto nel modo di operare..
MD: a me veniva in mente sempre il problema della distanza, la capacità di saper comunicare, di poter porgere un messaggio, mantenendo anche la giusta distanza…ma quale è questa giusta distanza?! E’ sempre difficile non far percepire al paziente le nostre inquietudini. Bisogna costruire un ponticello fra noi e il paziente ma su questo ponte non bisogna poi rimanere troppo a lungo, occorre anche salvaguardare sé stessi.
GS: mi sembra che MN abbia vissuto una impasse perché il problema era il collega che diviene paziente e anche una questione con sé stesso, proprio per quel che dicevi tu delle motivazioni a scegliere la professione del medico.
FB: continuano ad emergere passaggi di ruolo repentini, immediati, da cui forse bisogna difendersi perché altrimenti non si riesce a lavorare ma, nello stesso tempo,di cui non bisognerebbe avere troppa paura, occorre lasciarli emergere, con tolleranza, perché riguardano noi tutti. Probabilmente anche per me in quanto persona che ha scelto di lavorare come psicologa il fatto che qualcuno non abbia il “possesso” del proprio cervello, risulta particolarmente inquietante…ciascuno ha i propri paletti, questo è tollerabile e quello, invece, no.
MD: certo è più tollerabile l’idea di perdere una gamba piuttosto che l’uso della parola.
GS: c’è una sorta di fantasia non medica, come se il tumore cerebrale fosse il più pericoloso, in realtà non sempre è così, vi sono tumori molto più devastanti (il pancreas, per esempio), ma MN è stato colpito in quanto neurologo che cura questi tumori e non altri.
FB: era solo un riportare a dei nostri paletti immaginari, non reali. Quando questi paletti crollano è difficile e occorre mettere le mani in pasta, seguendo anche l’indicazione di E, per poi venirne fuori un poco differenti, solo un poco, non radicalmente, non del tutto consapevolmente; se MN ha portato questo caso oggi è perché qualcosa è rimasto, qualcosa lo ha cambiato.
GS: se volete c’è tempo ancora per parlare di un’altra situazione, magari non medica.
-----segue un lungo silenzio nel gruppo----
GS: è difficile parlare d’altro!. L’opportunità di portare a un gruppo un vissuto del genere può essere una occasione di rigenerare, rigenerarsi. Mi viene in mente una situazione del precedente Balint, quando un collega che aveva già partecipato a molti incontri si era trovato in una situazione spiacevole alcuni giorni prima dell’incontro di gruppo, e che ha poi riferito di aver subito immaginato che l’avrebbe poi raccontata al Balint; non credo che ci si possa “abituare” né che la comunicazione di una diagnosi possa diventare “di servizio”, invece credo sia più immediato immedesimarsi col paziente e quindi cercare la comunicazione più adeguata se poi abbiamo anche noi un luogo, in cui riportare i nostri vissuti.
MN: la dimensione pubblica è particolarmente pesante, di solito il parente o il paziente dovrebbe andare nello studio del medico per eventuali rimostranze o per delle comunicazioni che richiedano una certa delicatezza.
FB: una reazione di rabbia o di negazione di fronte a un lutto credo che voi la dobbiate mettere nel conto; la volta scorsa parlavamo della reazione di negazione di un paziente…non dico che questo sia obbligatorio e, in qualche modo prevedibile, ma…quasi! E’ forse una buona cautela se tutte queste comunicazioni cerchiamo di farle avvenire in ambito privilegiato, privato. Dobbiamo capire che un avvenimento così grave come un lutto sembra aver bisogno di un colpevole. Anche MN era solo e senza contenitore di nessun genere. Penso anche agli insegnanti che devono comunicare a un ragazzino che sarà bocciato…c’è anche chi si suicida di fronte a una bocciatura!
GS: c’è anche chi fa una strage, vedi quel che è successo in Germania, quel ragazzo che ha ucciso 14 insegnanti, alcuni studenti, un poliziotto e sé stesso! C’è una situazione che riguarda voi insegnanti, o magari anche qualcuno come mamma, speriamo non così drammatico, che può ricordare questo genere di situazioni cambiamenti?
MD: Sabato scorso mio marito è andato a parlare con i professori, e lui ha fatto praticamente da registratore, ha semplicemente ritenuto l’informazione e poi ha riferito tutto a nostra figlia con la pretesa di essere ascoltato altrettanto meccanicamente, senza guardarla in faccia, mentre lei diventava sempre più tesa, fino a che è scoppiata in lacrime: così alla fine erano in due da consolare: lei piangeva e lui si sentiva in colpa. In effetti io gli ero grata perché aveva passato a scuola tutto il pomeriggio, risparmiandolo a me, solo che poi la comunicazione era stata fatta in maniera automatizzata.
FB: come il computer di MN, che aveva fornito tutte le informazioni senza mediazione umana!
MB: certe volte ci sono situazioni strane che non riesci a capire e che non ti erano mai successe, in anni di professione. Mi ricordo l’anno scorso, avevo un paziente di 60 anni, un uomo che stava benissimo, non aveva nessun problema, aveva soltanto una artrosi piuttosto grave alle ginocchia e una pressione di 90/150, che noi consideriamo un valore limite. Ogni tanto veniva a misurare la pressione, gli avevo fatto anche fare la lastra del torace e tutto ciò che è previsto dal protocollo in questi casi. Andava tutto bene, non aveva niente, per cui io ho avuto un atteggiamento di attendismo. Mi sembrava opportuno aspettare per non aggredirlo farmacologicamente; per le ginocchia faceva fisioterapia. Qualche giorno prima di Natale arriva a casa mia un regalo di valore consistente, lo ha ricevuto mia madre perché io non ero in casa, e mia madre mi riferisce che il paziente avrebbe detto di ringraziarmi per la mia disponibilità e così via. Ho scritto un biglietto di ringraziamento ma…il 16 gennaio di quest’anno (mi ricordo anche le date!) viene da me richiedendo un controllo del colesterolo e dei trigliceridi: ho convenuto con lui che dopo un anno era il caso di farli e glieli ho prescritti. Ci siamo salutati cordialmente…e il 22 di gennaio mi ha ricusato, scegliendo un medico che ha lo studio a 100mt. dal mio. Non ho nessuna idea di cosa possa essere accaduto: il 16 gli ho prescritto gli esami, il 22 mi ha ricusato (alle 10.05!). L’unica interpretazione che posso dare è che forse è andato dal medico della moglie. Ma non so se l’altro medico è il medico della moglie, non è neanche possibile che abbia cambiato per motivi di vicinanza a casa sua , visto che i 2 studi sono vicini. Mi sono chiesto il significato del regalo!
E: chi ha dato tanto vuole ricevere tanto..
FB: la motivazione di quel regalo è interessante, la disponibilità…forse si riferiva a quella futura oltre che a quella passata. Ci sono i pazienti che desiderano essere curati, ma anche accolti.
MB: il medico di base si trova spesso di fronte a questo, bisognerebbe però far capire al paziente che non è opportuno un uso consumistico delle risorse sanitarie. Alcuni pazienti anziani vengono in studio perché non sanno cosa fare, e allora vengono a misurare la pressione.
GS: l’ultima paziente di ieri, si tratta di una persona con la quale ho impostato un sostegno e viene in modo discontinuo, senza un setting preciso. Questa persona mi ha chiesto che cosa, quale psicoterapia stavamo facendo, e poi si è data la risposta da sola, commentando che io ero l’unica persona con cui lei poteva parlare. A volte il medico è investito da questo ruolo. Oltre la patologia è importante la relazione, il ruolo che rivesti per quella persona, anche per gli insegnanti, come nel caso portato da I1 qualche volta fa
I1: quella ragazza era venuta a sfogarsi con me per le “attenzioni” di un ragazzo handicappato che si toccava i genitali tutte le volte che la incontrava: questo comportamento la faceva piangere forse perché faceva fatica a comprendere la situazione particolare di questo ragazzo; lei è venuta a parlare con me non tanto in quanto insegnante ma soprattutto in quanto persona e donna..
FB: io credo che ci sia il bisogno di pensare che qualcuno bada a te, si “prende cura” di te, e in questo senso si sceglie l’interlocutore: il dare molto anche in senso concreto potrebbe essere un modo per assicurarsi altrettanto accudimento in tutti i modi che sono in potere del medico. Attenzione ai prossimi grandi regali e, più in generale a ciò che non è in sintonia con la situazione!
MD: ci si chiede perché con qualche paziente siamo riusciti ad entrare in empatia e in altri casi no, indipendentemente dal fatto che la terapia abbia funzionato o meno. Forse c’è qualcosa che ci sfugge.
I1: tanti pazienti badano al come, al modo, con cui vengono comunicate le terapie e le diagnosi, non soltanto alla cura in sé.
GS: forse c’è in noi anche l’idealizzazione del rapporto continuativo: a volte ci sono anche relazioni usuranti, come con i pazienti psichiatrici. Inizialmente pensavo in maniera critica al passaggio di pazienti fra un medico e un altro, poi invece mi sono accorto come questo potesse avere una certa utilità, nel senso del rivitalizzare, con un altro terapeuta, il rapporto e quindi il lavoro stesso. A volte anche i lavori incompleti possono essere utili, cambiamo noi ma cambiano anche i pazienti, non è detto che sia stato buttato via tutto.
FB: credo sia vero anche se oggi colpisce la precisione delle date riportate e l’intensità dei sentimenti in gioco: un abbandono sembra essere un grande attacco alla nostra autostima così come per i nostri utenti un mancato accudimento, reale o immaginario, può causare l’abbandono stesso.



* Giancarlo Stoccoro
Medico chirurgo, specialista in psichiatria, psicoterapeuta
Via Salvo D'Acquisto 14 - 26010 Pianengo (Cr)
g.stoccoro@libero.it

** Franca Beatrice – Psicologa, Psicoterapeuta
viale Papiniano 22/A – 20144 Milano –
franca.beatrice@fastwebnet.it

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