PSYCHOMEDIA Telematic Review
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Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA
Area: Medicina di Base e Psichiatria
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La sensibilizzazione del medico di famiglia all'uso di se stesso come strumento diagnostico e terapeutico: l'esperienza della Ussl 26 di Melegnano, Milano
Andrea Pergami, Antonio Guerrini, psichiatri e Emilio
Gnocchi, Ip Afd
Ho sempre trovato utile avere in mente l'immagine ideale
del medico di famiglia descritto da Robert Louis Stevenson, "...discrezione
sperimentata da centinaia di segreti, tatto assicurato da migliaia di momenti
di difficoltà e, soprattutto, un atteggiamento caratterizzato da
coraggio e da una disposizione di spirito eraclea". Nello stesso tempo,
è salutare avere in mente anche un ideale di cattivo medico, e il
dottor Startsev descritto da Anton Cechov è il candidato migliore
per questo tipo di medico "Quando entrava nell'ambulatorio, egli perdeva
abitualmente la sua pazienza e sbatteva violentemente il suo bastone per
terra. - La prego di limitarsi a rispondere alle mie domande - gridava in
modo scortese rivolto ai pazienti - E meno parole!"
Kenneth Sanders A matter of interest. Clinical notes of
a psychoanalyst in general practice, Roland Harris Trust Library, London,
1985, p.12.
"Il mio primo compito, perciò, è
di formulare il problema che stiamo per esaminare. Eccolo, brevemente: perché
succede così spesso che, nonostante i più sinceri sforzi da
entrambe le parti, il rapporto tra medico e paziente è insoddisfacente,
e persino causa di infelicità?
O, in altre parole, perché succede che il farmaco "medico",
nonostante una prescrizione apparentemente scrupolosa, non funziona come
era stato previsto? Quali sono le cause di questo indesiderabile sviluppo,
e come lo si può evitare?"
Michael Balint Psychoanalysis and general practice, International
Journal of Psychoanalysis, 47, p. 54, 1966.
"Ritengo che una vita mentale di gruppo sia essenziale
per la pienezza della vita individuale, indipendentemente da qualsiasi necessità
temporanea o specifica, e che la soddisfazione di questo bisogno debba essere
cercata per mezzo della partecipazione ad un gruppo."
Wilfred R. Bion Experiences in groups, Tavistock Publications,
London, 1961 (Trad, it. Esperienze nei gruppi, 1979, Roma, Armando, p.61).
Una breve premessa storica .
La nostra idea riguardante il coinvolgimento dei medici di famiglia nella
gestione del disagio psichico del paziente non è nuova ed ha illustri
predecessori. Infatti, è noto sin dall'antichità il ruolo
che il medico può avere nella gestione delle problematiche emotive
e affettive del suo paziente. Gli scritti di Freud (1912) all'inizio del
secolo e, più recentemente alla fine degli anni cinquanta, le opere
del gruppo degli "indipendenti" della psicoanalisi britannica
(Michael e Enid Balint, John Bowlby, Tom Main, Donald Winnicott) hanno progressivamente
ampliato il campo dell'intervento psicoanalitico "al di là del
divano" trasferendo nella comunità le scoperte freudiane (Rayner,
1995). In particolare, Michael Balint, figlio anch'esso di un medico di
famiglia, ha sempre cercato nuove modalità per utilizzare il metodo
e l'esperienza psicoanalitica anche nella pratica medica generale. Sin dall'inizio
degli anni cinquanta, Balint, insieme alla moglie Enid, diede vita al Tavistock
Institute e al Cassel Hospital di Londra a incontri settimanali di gruppo
della durata di due - tre anni con i medici di famiglia per discutere i
problemi professionali ed emotivi causati dal rapporto medico - paziente
(Balint, 1961). I principali dati che emersero dai "gruppi Balint"
possono essere riassunti come segue:
- il paziente si presentava dal medico con un disagio fisico
che aveva spesso una base psicologica;
- sulla base di questo primo assunto, venne messa in discussione
la tradizionale consuetudine della diagnosi medica "per esclusione"
che prevedeva una diagnosi sui dati clinici ed eventualmente strumentali
e solo in un secondo momento una diagnosi psicologica;
- la potenziale influenza del comportamento del medico (Balint
usò la metafora della somministrazione del "medico come farmaco"
al paziente con la conseguente possibilità di effetti terapeutici
positivi e negativi);
- la "funzione apostolica" del medico che venne
definita come "la necessità di provare al paziente, al mondo
intero e soprattutto a se stesso che (il medico) è buono, gentile,
esperto e utile";
- venne criticata la "collusione dell'anonimità
"cioè la situazione per la quale nessun medico veniva ritenuto
responsabile del destino dei pazienti difficili. Questo fattore ebbe notevole
importanza nelle discussioni all'interno dei gruppi: l'esplorazione dei
sentimenti controtransferali dei medici nei confronti dei pazienti e dei
colleghi spinse infatti numerosi medici a rendersi conto della necessità
di una formazione personale di tipo psicoanalitico o psicoterapeutico nel
rapporto medico - paziente (Gask & McGrath, 1989). Il "metodo Balint"
ha trovato grande diffusione negli ultimi cinquanta anni non solo a Londra
e in Gran Bretagna ma anche in Europa ed in America (Rayner, 1995) anche
se, nel corso degli ultimi anni, si è comunque assistito ad una progressiva
modificazione delle tecniche utilizzate per fornire capacità psicoterapeutiche
ai medici di famiglia (Garcia, 1997).
Dopo avere proposto una "intervista prolungata"
con il paziente da parte di un medico con una impostazione emotiva interna
ed esterna di derivazione psicoterapica che doveva portare ad una "diagnosi
globale", Balint utilizzò successivamente una psicoterapia "focale"
descritta successivamente dal suo allievo David Malan in numerosi libri
e ancora oggi utilizzata con successo da numerosi psichiatri (Malan, 1979).
La realizzazione di questa tecnica, diretta alla elaborazione
di una o più aree problematiche del funzionamento del paziente, si
rivelò comunque poco utilizzabile nella Medicina di base dove il
tempo limitato e l'elevato numero di pazienti non consentiva una adeguata
applicazione. Balint parlò quindi nei suoi ultimi libri di una tecnica
psicologica "lampo" ("flash téchnique") che è
stata poi conosciuta universalmente nel libro "Sei minuti per il paziente"
(Balint, 1973). Anche questa tecnica ha però trovato numerose difficoltà
nella sua applicazione pratica alla luce delle sempre più complesse
richieste poste dal Servizio Sanitario Nazionale al medico di famiglia.
È infatti esperienza comune di tutti i medici di famiglia non avere
a volte neanche sei minuti per parlare con i pazienti anche se il suggerimento
di Balint di fornire ad alcuni pazienti almeno un colloquio "prolungato"
è entrato a far parte della pratica quotidiana di molti medici.
Nel corso degli ultimi anni, le principali critiche alle
idee di Balint sono state fondamentalmente quattro:
1- i medici formati con il metodo Balint si focalizzano
troppo sui fattori psicologici rimpiazzando il ruolo medico con la "curiosità"
psicologica (nei paesi anglosassoni, il termine "to Balint" è
stato spesso usato per descrivere ironicamente i medici di famiglia che
offrivano interpretazioni a pazienti che non le avevano chieste (Zigmond,
1978; Garcia - Campayo, 1995);
2 - è stata contestata l'importanza centrale delle
teorie psicoanalitiche nel modello Balint e l'esclusione di altri modelli
eziologici (ad es. il modello cognitivo - comportamentale);
3 - è stata dibattuta la necessità di un
training psicoterapico individuale per i medici;
4 - è stato infine suggerito che una corretta applicazione
del metodo Balint richiede abilità verbali che la maggior parte dei
medici di famiglia, anche se motivati al training, non possiede.
D'altra parte, i più recenti contributi della psicoanalisi
nell'area della Medicina di base hanno suggerito che la relazione medico
- paziente dovrebbe disporre di "un insieme di fattori che diano il
quadro interno ed il quadro esterno affinché, in un dato momento
dei rapporti diacronici sanitario - paziente, possa sorgere una reciproca
comprensione ed una disponibilità, da parte del professionista, ad
approfondire l'aspetto psicologico la cornice o quadro professionale viene
utilizzata per aumentare in ogni colloquio la disponibilità (emotiva)
del tecnico, cosa possibile se, ad un certo livello, si riusciranno a cogliere,
più o meno profondamente, elementi di transfert e controtransfert
che si verificano nella relazione terapeutica" (Garcia, 1997).
Come abbiamo iniziato a pensare a un gruppo per i medici di famiglia
Nella vita non vi sono che inizi
Madame De Stäel
Ciò che dura è quello da cui si comincia
Charles Wright
La nostra pratica clinica quotidiana di operatori della
salute mentale ha portato frequentemente la nostra équipe psichiatrica
a collaborare con i medici di famiglia per la gestione clinica e terapeutica
dei pazienti. Nel corso dei frequenti colloqui telefonici e più saltuari
incontri di persona, ci siamo resi conto che il medico di famiglia era spesso
depositario di informazioni a noi sconosciute riguardanti sia la storia
attuale che pregressa dei nostri pazienti psichiatrici ma anche di notizie
di carattere psicologico e sociale sulle persone affettivamente significative
(familiari e partner). Inoltre, avevamo constatato che il medico di famiglia
si trovava a gestire praticamente da solo non soltanto quel significativo
gruppo di persone (stimato da numerose ricerche nel 25 - 35% del totale
dei pazienti) che si recano negli ambulatori della Medicina di base con
un disagio psichico "minore" (per lo più di tipo ansioso
- depressivo) (Goldberg & Huxley, 1992) ma anche numerosi pazienti psicotici
acuti e cronici con gravi problemi familiari e socio - assistenziali (Nazareth
et al, 1996; Burns & Kendrick, 1997). A causa della pressione emotiva
alla quale erano sottoposti, i nostri medici di famiglia sperimentavano
sentimenti di isolamento lavorativo, impotenza terapeutica, inadeguatezza
professionale e insoddisfazione per il proprio ruolo con il rischio di sviluppare
una situazione di cronico stress lavorativo ("la sindrome del burn
- out") (Mayou, 1987; Pergami et al, 1998).
Tenendo conto dei precedenti storici che abbiamo brevemente
descritto nella premessa storica, abbiamo quindi proposto ai nostri medici
di famiglia una versione aggiornata, riveduta e corretta del "gruppo
Balint" (che noi abbiamo chiamato "gruppi di sensibilizzazione
all'uso del medico come strumento diagnostico e terapeutico"). In particolare,
abbiamo utilizzato gli apporti fondamentali della psicoanalisi kleiniana
(Klein, 1946) e post - kleiniana (Bion, 1961, 1963, 1965, 1970) alla esperienze
della psicoterapia individuale e di gruppo (Joseph, 1989; Bollas, 1989;
1991, 1995, 1996; Green, 1991; Ogden, 1992; Alvarez; 1995; Rayner, 1995;
De Masi, 1997; Garcia, 1997). Il nostro gruppo con i medici di famiglia
ha inoltre privilegiato un approccio psicodinamico ai "bisogni"
del paziente nella relazione con il medico all'interno del quale il medico
stesso rappresenta una nuova figura all'interno di una "équipe
allargata" che include psichiatri, psicologi, assistenti sociali e
infermieri specializzati (Zapparoli et al, 1988; Gabbard, 1991; Gnocchi
et al, 1991; Guerrini, 1989, 1992, 1994; Zapparoli & Segre, 1997). Tale
modello "integrato" rappresenta da molti anni la matrice comune
della formazione degli operatori di salute mentale dell'Unità operativa
di Psichiatria dell'Azienda Ussl di Melegnano dopo la riforma psichiatrica
introdotta dalla legge 180 (Pergami, 1992; Pergami et al, 1996; Pergami
et al, 1997). Questo modello di intervento è stato ulteriormente
arricchito dall'utilizzo di tecniche specifiche ("problem - based approach")
che facilitano il riconoscimento dei disturbi psichici nei pazienti da parte
del medico di base e determinano il miglioramento della capacità
di intuizione e definizione della disagio psichico (Goldberg & Huxley,
1992; Bellantuono et al., 1992). Questa integrazione di diversi modelli
di intervento (psicodinamico e cognitivo) è stato possibile anche
grazie alla pluriennale esperienza effettuata da uno di noi conduttori (A.P.)
a Londra e Manchester nell'ambito della Psichiatria di comunità e
della Medicina di base anglosassone (Pergami, 1993, 1994).
Strutturazione e contenuti del gruppo di formazione
Bisogna allenare il talento, tutto qui. Per
istinto si può anche fare a botte ma se combatti con uno bravo e
non hai allenamento, le prendi
Ernest Hemingway
Insieme ai medici più motivati a riconoscere il
proprio disagio psichico nella loro quotidiana attività lavorativa
con i pazienti, abbiamo pensato di formare un gruppo composto da una dozzina
di medici che, dall'autunno '96 a tutt'oggi, si è riunito il giovedì
dalle 13 alle 15 con frequenza quindicinale presso l'Ospedale Predabissi
di Melegnano (Milano) sotto la coordinazione di un primario psichiatra che
è anche psicoanalista della Società psicoanalitica italiana
(A. G.) e la conduzione di uno psichiatra (A. P.) e di un infermiere con
funzioni direttive (E.G.), entrambi con una formazione psicoterapica ad
orientamento psicodinamico. A turno, uno dei medici presentava un caso clinico
"difficile" e le problematiche incontrate nella gestione clinica,
psicologica e socio - assistenziale del paziente. Tutti i partecipanti al
gruppo erano invitati a collaborare alla discussione dei casi clinici esposti.
Dopo l'esposizione del caso clinico, che spesso veniva interrotto dai partecipanti
per chiarimenti o per ottenere ulteriori informazioni anamnestiche, si apriva
una discussione collettiva. Il nostro compito di coordinatori e conduttori
del gruppo era quello di favorire la discussione dando particolare rilievo
alle dinamiche relazionali del rapporto medico - paziente.
Il programma del training prevede uno svolgimento nell'arco
di tre anni (10 incontri annuali per un totale di 30 incontri). La prima
parte (10 incontri) è finalizzata alla sensibilizzazione del medico
di famiglia ai bisogni emotivi del paziente e alla osservazione e riconoscimento
dei suoi sentimenti nei confronti del paziente; la seconda parte (10 incontri)
permette di sperimentare le informazioni e gli strumenti relazionali appresi
durante i primi 10 incontri con l'ausilio di tecniche di audio - registrazione
ed eventuali "vignette" (role playing); la terza parte (altri
10 incontri) consiste nella revisione critica e supervisione degli strumenti
e delle tecniche relazionali. Gli argomenti principali dei tre anni del
corso sono illustrati nella Tabella 1:
Tabella 1. Gli argomenti principali del corso di formazione
PRIMO ANNO
| SECONDO ANNO | TERZO ANNO |
I disturbi psichici e la Medicina di base: stato attuale e prospettive | I disturbi psichici più comuni nella medicina generale | Il paziente come insegnante per il medico |
La relazione tra disturbi psichici e disturbi somatici | I disturbi psichici più comuni nella Medicina di Base: i disturbi dellumore (con particolare riferimento ai disturbi depressivi) | La paura del medico di famiglia ed il contenimento psicologico dellaggressività del paziente |
Il problema del riconoscimento del disagio psichico da parte del medico di famiglia | I disturbi psichici più comuni nella Medicina di Base: i disturbi psicotici | La sessualità del paziente |
Le caratteristiche del medico di famiglia che influenzano il riconoscimento del disagio psichico e la relazione medico-paziente | Il trattamento psicofarmacologico dei disturbi psichici nella Medicina di Base (1 parte) | La noia del medico e il controtransfert |
Le caratteristiche del paziente che influenzano il riconoscimento del disagio psichico e la relazione medico-paziente | Il trattamento psicofarmacologico dei disturbi psichici nella Medicina di Base (2 parte) | Come, quando, perché prescrivere uno psicofarmaco |
Come migliorare labilità del medico di base nel riconoscimento del disagio psichico del paziente | Il trattamento psicologico dei disturbi psichici nella Medicina di Base (1 parte) | Integrazione del medico di famiglia con i servizi psichiatrici territoriali e ospedalieri |
La gestione dei disturbi psichici da parte del medico di famiglia | Il trattamento psicologico dei disturbi psichici nella Medicina di Base (2 parte) | |
Il primo contatto con il paziente con disturbi psichici | Lapproccio integrato psicologico e psicofarmacologico al paziente nella Medicina di Base | |
Il riconoscimento dei meccanismi di difesa del medico di famiglia | La famiglia del paziente | |
Il riconoscimento dei meccanismi di difesa del paziente | Il problema del tempo del medico di famiglia durante il colloquio con il paziente | |
Alcune osservazioni in margine alla nostra esperienza
Colui che sempre si sforza e cerca,
noi lo possiamo salvare
Johann Wolfgang Goethe
Cosa è successo all'interno del gruppo di sensibilizzazione
per i medici di famiglia? Sin dai primi incontri, siamo stati colpiti dalla
costante presenza di tutti i medici agli incontri. Il gruppo ha fornito
immediatamente ai partecipanti (e anche ai conduttori!) una fondamentale
capacità di sostegno per pensare, rilassarsi e astenersi per un po'
dal frenetico agire quotidiano funzionando da "contenitore" per
la "rêverie" e da fattore favorente l'introiezione di fattori
quali solidarietà, speranza e aiuto (Bion, 1961, 1963, 1965). In
questa ottica, non appare sorprendente la scelta, decisa dai medici in un
incontro preliminare, dell'orario (dalle 13 alle 15), del giorno infrasettimanale
(giovedì) e della sede ospedaliera (luogo poco comodo per i medici
che lavorano sul territorio). Avere infatti un luogo dove riunirsi per "pensare
in comune" ha trovato tutti i medici disposti anche a "saltare"
il pranzo o il riposo quotidiano prima dell'ambulatorio pomeridiano per
partecipare al "gruppo". In particolare, uno dei medici ha chiesto
di essere presente addirittura ad un secondo gruppo appena formato così
come non è stato infrequente ricevere telefonate di "giustificazione"
per eventuali assenze (tale evento può essere interpretato come un
eccesso di "autoesigenza" per la presenza di un Super - Io di
gruppo dominante) (Bion, 1961, 1970; Garcia, 1997). Un medico ci diceva:
"vengo qui volentieri perché per me è come una vacanza,
una festa dove posso parlare di tutto senza sentirmi giudicato e senza sentire
quello che dico come una confessione". Tale forte motivazione a partecipare
al gruppo ci ha quindi permesso di fornire interpretazioni e chiarimenti
non soltanto sul comportamento dei pazienti "difficili" ma anche
sui comportamenti controtransferali degli stessi medici. La partecipazione
attiva al gruppo ha infatti consentito da una parte di sviluppare una "mentalità
di gruppo" (Bion, 1961) superando l'isolamento affettivo ed emotivo
nel quale il medico di base opera quotidianamente e dall'altra di favorire
una adeguata comprensione dei meccanismi di identificazione proiettiva ed
introiettiva che si verificavano tra medico e paziente, tra i medici e i
conduttori e tra i vari membri del gruppo (Klein, 1946; Bion, 1961, 1963,
1965).
Inizialmente, sono emersi dai medici sentimenti di confusione,
impotenza e insicurezza (uno dei medici si chiedeva e chiedeva al gruppo:
"Quello che accomuna me e il paziente è il disagio... e non
riesco a gestire né il mio disagio né quello del paziente";
un altro continuava dicendo "Ma adesso... dobbiamo fare una diagnosi
medica o una diagnosi al medico?" E un altro ancora si chiedeva: "Quando
ho capito il problema del paziente, sono più tranquillo... però
il mio "fai da me" a cosa mi serve adesso? Che tipo di aiuto e
supporto posso dare al paziente?"). Si poteva verificare la sorpresa
dei partecipanti al gruppo nel discutere più volte un caso "banale"
dal punto di vista strettamente medico che appariva però complesso
dal punto di vista psicologico ed assistenziale. Si riusciva ad ammettere
prima con difficoltà e poi con sempre maggior confidenza che era
proprio, per usare ancora le parole di un medico, "l'ovvietà
della quotidianità" a provocare le reazioni emotive più
intense.
A poco a poco, con il passare degli incontri, la confusione,
i dubbi, i timori, la consapevolezza dei limiti personali si perdevano lasciando
spazio ad una fase evolutiva "depressiva" con l'elaborazione e
la eventuale riparazione della crisi iniziale (Klein, 1946; Bion, 1970).
Si modificava gradualmente quindi quella situazione di un "gruppo in
assunto di base" (Bion, 1961) dove imperavano desideri ed emozioni
primitive (la "non - speranza") per lasciare lo spazio ad una
accettazione dei limiti delle proprie capacità con una riparazione
non onnipotente (Zapparoli & Segre,1997). In questo modo, è stato
possibile per i nostri medici acquisire una sensazione di potenza ed attività
"relativa" verso i pazienti rifiutando sia gli atteggiamenti rifiutanti
che quelli improntati ad una eccessiva disponibilità. Nel primo caso,
uno dei medici affermava all'inizio degli incontri: "Se un paziente
mi rompe o mi disturba troppo... lo sbatto fuori dallo studio!... Non mi
interessa niente delle eventuali conseguenze!". Lo stesso medico affermava
all'inizio del secondo anno degli incontri di formazione: "io sono
sempre la stessa persona... ma è cambiato il mio modo di stare con
i pazienti". Al contrario, un altro medico diceva: "Ogni volta
che il paziente o la famiglia chiedeva aiuto, io andavo da loro anche di
notte Mi sentivo schiacciata dal mio stesso comportamento con un vissuto
di impotenza, confusione e immodificabilità della situazioneNon sapevo
più che cosa facevo". Il rafforzamento della speranza e il graduale
superamento della situazione "depressiva" lasciava lo spazio alla
solidarietà, alla speranza e alla fiducia fornita dal gruppo con
l'acquisizione di un nuovo desiderio di pensare in comune (Meltzer, 1978;
Bion, 1961, 1970). Parafrasando Balint senza averne letto i libri, uno dei
medici ha affermato: "Ammettere gli errori è possibile nel gruppo...
qui curiamo lo "strumento" medico...noi siamo il "nuovo"
farmaco...anche se è un farmaco che può avere degli effetti
collaterali". Il gruppo ha fornito quindi una insostituibile funzione
di sostegno che nel corso del tempo ha anche assunto le caratteristiche
di un "narcisismo di gruppo" (Bion, 1961; Green, 1992): i medici
parlavano con orgoglio ai colleghi del "loro" gruppo (uno dei
medici affermava ridendo: "Ci chiamano il gruppo degli psichiatri!").
Questa situazione, se da una parte ha condotto, su sollecitazione spontanea
di altri medici di famiglia interessati all'esperienza dei colleghi, alla
formazione di un secondo gruppo di formazione per altri medici di famiglia,
ha meritato una particolare attenzione da parte di noi conduttori per evitare
lo smarrimento della funzione terapeutica del gruppo. Abbiamo rifiutato
la schematica contrapposizione tra il desiderio del medico di diventare
psicofarmacologo e/o psicoterapeuta privilegiando al contrario il riconoscimento
del "bisogno espresso" sia del medico che del paziente (Zapparoli
et al, 1988). Nel nostro gruppo, alcuni componenti del gruppo si erano infatti
auto - eletti "specialisti in psicologia" e il gruppo ha lavorato
per evitare di creare dei "piccoli mostri freudiani" caratterizzati
da una rigida e caricaturale impostazione psicoanalitica pseudo - terapeutica.
Dal punto di vista della conduzione pratica del gruppo,
abbiamo riscontrato l'efficacia di un modello formativo che prevedeva la
presenza contemporanea di due docenti dove le competenze psichiatrico -
psicoterapiche dello psichiatra sono state integrate da quelle assistenziali
- psicoterapiche dell'infermiere psichiatrico esperto in ambito riabilitativo
nel contesto di un modello integrato mediato dalla Psichiatria a orientamento
psicodinamico (Zapparoli, 1988; Zapparoli & Torrigiani, 1994; Gabbard,
1995; Zapparoli & Segre, 1997). Tale "doppia docenza" è
apparsa particolarmente gradita e idonea per rispondere alle richieste emotive
e libidiche del gruppo di base, in primo luogo per la nostra tendenza di
conduttori a perdere la nostra individualità in funzione delle richieste
del gruppo diventando "oggetti di bisogno" dei nostri medici di
famiglia (Bion, 1961, 1963, 1965; Zapparoli et al, 1988). In questo modo,
la veicolazione delle informazioni non appare solo provenire da un collega
psichiatra che "insegna" teoricamente ai colleghi come comportarsi
con i pazienti ma diviene una esperienza condivisa adeguatamente supportata
dalla pratica del collega infermiere esperto in tecniche psicoterapiche
da verificare "sul campo" (Gnocchi et al, 1991, 1992). Nelle discussioni
per la gestione clinica dei casi più difficili (che ha incluso anche
pazienti psicotici seguiti anche dai servizi psichiatrici territoriali e/o
ospedalieri), il medico di base ha assunto spesso la funzione non intrusiva
di "oggetto non qualificato" all'interno di una "équipe
allargata" (Zapparoli, 1988; 1992). Infatti, al di là dell'atteggiamento
transferale esclusivo del paziente con lo psichiatra (la "follia privata"
del paziente psichiatrico) (Green, 1991, 1992), la logica dell'onnipotenza
paranoidea di alcuni pazienti ha potuto essere ridotta proprio grazie all'intervento
del medico di famiglia che è intervenuto come operatore non psichiatrico
"deanimato" (Zapparoli, 1987, 1988) e quindi non pericoloso sulla
"follia pubblica" del paziente, cioè sulla sua dimensione
socio - ambientale riconoscendo anche al paziente la possibilità
di essere "diverso" (Zapparoli, 1992; Zapparoli & Segre, 1997).
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