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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Medicina di Base e Psichiatria


Partnership e fiducia nella relazione medico - paziente


Francesco Benincasa




Introduzione

Lo scritto che propongo è stato presentato con il titolo Contratto di Partnership tra Medico e Paziente (PPPP: Patient Physician Partnership Paper) al 14° Congresso Nazionale del Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale "Informazione...vuol dire fiducia, la comunicazione professionale medica, le informazioni e le scelte di salute dei cittadini" svoltosi a Rimini dal 16 al 18 Novembre 2001.
Sono grato agli amici del CseRMeG (http://www.csermeg.it) per averne reso possibile la pubblicazione in questa sede.


Una mappa per chi legge

Dopo un breve esame dei mutamenti storici verificatisi nel rapporto medico-paziente, descriverò alcuni modelli di tale relazione. Identificato il rapporto di partnership come il più attuale, affermerò la rilevanza di una informazione e di una comunicazione corrette per agevolare al paziente decisioni autonome basate su valori personali. Esaminerò inoltre il concetto di verità nella scienza e nel rapporto medico-paziente, la sua mutevolezza ed il suo nesso con la fiducia nei rapporti terapeutici. Analizzerò in seguito le dinamiche psicologiche attraverso cui si acquisisce la fiducia. Infine, valutati i principali elementi del rapporto condiviso, illustrerò il PPPP, un modello di contratto di partnership di cui vaglierò criticamente alcuni aspetti. Qualche considerazione conclusiva avrà lo scopo di stimolare la discussione.


1.UN PERCORSO DI AVVICINAMENTO: DAL PATERNALISMO ALLA COOPERAZIONE

La responsabilità verso l'altro non ha tanto la funzione di determinare quanto quella di rendere possibile (Hans Jonas)


1.1 Trasformazioni

La dipendenza del paziente dall'autorità professionale del medico fa parte della tradizione. Dai tempi più remoti il dovere del medico è di soccorrere ed il dovere del paziente è accogliere il suo aiuto come provenisse dal ministro di un culto con potere di vita o di morte; egli agisce per procurare un giovamento oggettivo contro il disordine causato dalla malattia, le sue proposte sono vantaggiose per definizione, la sua responsabilità professionale è più religiosa che giuridica, quindi in caso di errore l'impunità gli è praticamente garantita. Il paziente si deve adattare all'autorità del curante e gli deve subordinazione. Il cristianesimo ha promosso l'immagine del medico buon samaritano che guida il paziente verso la guarigione, così medicina e salute restano doni di Dio sganciati dalla vita quotidiana, dalle leggi umane, dal contesto in cui la malattia si inserisce. Tale tradizione culturale implica che il consenso all'atto medico sia implicito e dato una volta per tutte; il paziente non ha quindi alcun mezzo per opporsi alle decisioni del curante; fino al XIX secolo egli viene considerato come un adolescente, maturo per alcune decisioni e non per altre. La clinica resta uno dei campi in cui il soggetto ha un diritto di scelta a sovranità limitata. Con la modernità il paternalismo non è scomparso, ma si è incrinato; scoperto il potere dell'intelletto e l'esistenza di diritti uguali per tutti, l'individuo può disporre di sé e può fare scelte personali. (Marinelli 1999)
I cambiamenti sociali che hanno favorito la trasformazione dal rapporto paternalistico ad una relazione di partnership possono essere riassunti come segue:
* I cambiamenti nel rapporto M/P fanno seguito allo sviluppo, in una società laica, pluralistica e democratica, del concetto di libertà e autonomia dell'individuo. Per ogni atto medico è necessario un consenso libero ed informato.
* Spinte sociali e storiche hanno modificato la collocazione della medicina; da una scienza d'élite ad un contesto di maggiore democrazia ed uguaglianza
* Il medico ha perso l'autorità di colui il quale assume le decisioni in tutti gli aspetti della cura della salute.
* La tecnologia ha aumentato la complessità dei trattamenti e delle scelte da compiere
* L'aspetto economico è sempre più importante nel condizionare le decisioni. È sempre maggiore la responsabilità per un uso appropriato delle risorse, quindi il medico deve bilanciare il suo impegno nei confronti dell'individuo con i doveri verso la società intera.

A mano a mano che il singolo rapporto medico-paziente si trasforma nel tempo, nella migliore delle ipotesi avviene una evoluzione dalla dipendenza alla partnership; questo cambiamento è spesso frutto di un lavoro del dottore che incoraggia il paziente ad una maggiore autosufficienza, verso una più matura capacità di assumere responsabilità nei confronti della propria salute e verso un utilizzo accorto delle risorse. Va costituendosi un modello di relazione tra medico e paziente che vede rispettata la persona come soggetto in diritto di fare scelte, avere personali punti di vista ed intraprendere azioni sulla base delle sue credenze; la buona alleanza di lavoro che ne risulta, crea una situazione di reciproco comfort e favorisce comprensione e accettazione reciproche oltre che attenzione alle responsabilità sociali.
La difficoltà di tale prospettiva consiste nel mantenere equilibrio tra le conflittuali esigenze del paziente che da una parte cerca l'autonomia e dall'altra sostegno e contenimento. Il clinico stesso non è esente da contraddizioni: da una parte è disposto ad una delega totale di responsabilità, ma dall'altra è allarmato dalla perdita di autorità che ne consegue.


1.2 I modelli

Il modello paternalistico:
Il medico decide ed il paziente esegue con passiva acquiescenza verso le disposizioni dell'autorità professionale; in questo tipo di rapporto il paziente si comporta come un bambino dipendente dal suo maestro. Il risultato deriverà dalla capacità di persuasione del clinico; egli possiede la conoscenza mentre il malato ne è all'oscuro, l'uno può infliggere sollievo o dolore, ricevere confidenze senza darne, può perfino limitare la libertà fisica dell'altro attraverso un ricovero o varie imposizioni di regole. Questa pressione esercitata sul paziente in modo "naturale" costituisce quella che viene chiamata da Balint "la funzione apostolica del medico". A questo ruolo se ne affianca uno complementare da parte del paziente che si sente in obbligo di collaborare, fare il bravo, obbedire. Il medico viene quindi gratificato da questa posizione di sottomissione del paziente finendo per sentirsi invincibile ed onnipotente (Perini, 2001).


Il modello Condiviso:
Il concetto di partnership implica uguaglianza nel potere ma anche nella responsabilità. Secondo questo schema, il paziente deve ricevere una informazione che gli dica qual è i trattamento migliore per lui in maniera che possa essere confrontato con il trattamento che preferirebbe ottenere. È necessario che il clinico usi gentilezza, completezza, buona comunicazione, che cerchi la cooperazione sforzandosi di comprendere qual è il "bene" che il paziente desidera, su quali delle sue considerazioni personali è fondato, in che modo l'obiettivo del trattamento è in armonia con la gerarchia dei suoi valori.
In fondo la caratteristica essenziale del modello di partnership è la sua natura interattiva in cui medico e paziente stabiliscono ogni fase del processo di decisione in maniera parallela; entrambi rivelano le loro predilezioni ed entrambi esprimono il loro parere. Perché ciò possa avvenire, bisogna fornire al paziente un ambiente confortevole che gli permetta di esprimere le sue preferenze sul trattamento, compresa l'opzione di stare in attesa senza precipitarsi a fare qualcosa.


Il modello Informato:
Il paziente sceglie da solo dopo che il medico ha esposto le opzioni. La comunicazione è ad una sola via, dal medico al paziente; il malato ottiene informazioni dettagliate riguardo rischi e benefici e poi decide. Il trasferimento di informazioni è visto come l'unico contributo legittimo del medico: egli si limita a fornire indicazioni ed alternative senza esprimere opinioni personali e cercando di non influenzare per nulla le conclusioni dell'interessato. Si tratta di un modello estremo in cui la libertà del paziente è massima ed il medico assume l'esclusivo ruolo di tecnico esecutore.
Il modello informato, in cui il paziente sembra poter fare a meno del medico, appare come una direzione inesorabile, come se si trattasse di una evoluzione darwiniana come se il rapporto di partnership costituisse solo la tappa intermedia di una trasformazione inarrestabile, le cui conseguenze nell'ambito medico sarebbero pari se non superiori a quelle introdotte da Internet o dalla nuova genetica.


1.3 La realtà

Come è ovvio, nella realtà i modelli sfumano uno nell'altro rendendo il quadro più complesso ed articolato: il modello reale di rapporto con il paziente è intermedio ed ibrido, la flessibilità dei protagonisti è essenziale per poter procedere ad uno scambio che dia risultati pratici accettabili. Per affrontare i piccoli problemi quotidiani non si può pensare a manovre complicate per raggiungere decisioni condivise, mentre invece quando si presenta un problema serio ed esistono diverse opzioni, quando la posta in gioco è alta e non esiste il trattamento giusto, è importante che i valori del paziente siano resi espliciti e considerati con lui nella scelta. Nei casi in cui una decisione può avere conseguenze importanti, il paziente è spesso emozionato, ha bisogno di calma e di tempo, va aiutato a fare emergere la sua capacità di scegliere.
Ogni scelta viene condizionata da numerosi fattori: a) le informazioni fornite da altre fonti oltre quelle mediche mettono a disposizione grandi quantità di dati non sempre fruibili da un punto di vista critico. b) le case farmaceutiche si rivolgono direttamente al paziente attraverso i media. c) la maggior parte delle decisioni viene presa a proposito di malattie il più delle volte auto risolutive di cui non si conosce con precisione il decorso e la natura. d) il consumismo medico è aumentato fino al punto da provocare nel paziente aspettative irrealistiche. La psicologia sociale mette in luce come una discrepanza tra le aspettative e la realtà provochi disagio emozionale e come la soddisfazione dipende dal grado di congruenza tra aspettative e realtà. e) l'enfasi posta sul tumultuoso progresso tecnologico fa credere che la medicina possa fare miracoli provocando aspettative enormi; quando si comunica che nella realtà non è così e che anche malattie banali non hanno soluzione, si provoca una forte delusione dell'utente che finisce per provare rabbia e diffidenza nei confronti delle discipline cliniche e dei medici.
Le difficoltà a decidere si sommano ad altri aspetti della realtà che rendono arduo ai malati districarsi nel campo della salute: l'aumento del numero di medici che si occupa di una singola persona (specialisti) determina la frammentazione del paziente; la sua fatica ad instaurare un rapporto di fiducia solido con un singolo curante causa fraintendimenti ed incomprensioni. Nei luoghi di ricovero le cure sono spesso fornite in maniera anonima da sconosciuti che cercano di imporre una autorità ormai messa in discussione anche a livello sociale e che non si dimostra affatto convincente quando è necessario scegliere la migliore tra numerose opzioni terapeutiche o diagnostiche oppure quando è necessaria una informazione corretta ed approfondita in vista di un consenso che non si limiti alla firma di un modulo. Perché un rapporto sia realmente condiviso è necessario che il medico sia disposto a mettere in comune con il paziente non solo le scelte, ma anche le condizioni di dubbio e di ignoranza tenendo sempre a mente che alcune persone messe di fronte all'incertezza vengono incoraggiate a prendere decisioni, mentre altre diventano ansiose ed incapaci di scegliere.


1.4 Le opzioni del paziente.

Comunicazione, informazione, decisione.
Bisognerebbe che i medici prescrivessero informazioni oltre che ricette: infatti quando un paziente prende una decisione in seguito ad una informazione completa e dettagliata, gli esiti sono migliori e i costi più bassi.
Nell'incontro clinico entrambi i protagonisti sono detentori di abilità che permettono di instaurare un legame di cooperazione ed intersoggettività. Il paziente è un esperto di se stesso, delle circostanze sociali in cui la sua malattia si sviluppa, del suo corpo e della sua personale esperienza di malattia, delle abitudini, dei comportamenti, di valori e preferenze.
Nonostante si dedichi molta enfasi alla necessità che scelte, decisioni, informazioni e responsabilità vengano condivise nel rapporto con i medici, molti pazienti non dichiarano le loro preferenze o addirittura giudicano di non prendere parte attivamente alla gestione della propria salute: i giovani sono più critici ed esprimono chiaramente la loro volontà, mentre gli anziani ed i malati più seri preferiscono essere guidati perché sono abituati ad un modello più paternalistico di rapporto con il medico, oppure temono di prendere decisioni sbagliate ed irreparabili quando si trovano in condizioni di necessità. La preferenza del paziente su un tipo di approccio più direttivo o più collaborativo, varia in base all'età, alla condizione sociale, al fatto di essere fumatore o meno ( i fumatori vogliono decidere di più) e dal fatto che sia presente un problema fisico o psicologico. Nel caso il paziente ritenga di possedere un buon insight e quando è alle prese con scelte relative a malattie mentali (ad es. depressione) o cambiamento di stile di vita, preferisce contribuire alle scelte ritenendo di saperne di sé più del medico. Se si dedica al paziente un tempo adeguato è possibile distinguere quello che assume un ruolo più attivo da chi sceglie un ruolo inerte; un tempo troppo breve della visita può essere un elemento di strappo nel rapporto, un'ostica terminologia medica pone ostacoli alla comprensione e rappresenta un elemento di potere che impedisce la costituzione di un'atmosfera favorevole alle decisioni consapevoli.
In conclusione, al di là delle dichiarazioni solenni e dell'idea attraente che tutti desiderino partecipare alle scelte, non ci sono molte evidenze che i pazienti vogliano davvero collaborare attivamente alle decisioni. Il consumismo ha abituato le persone a voler sapere di più, ma non le ha impegnate ad una maggiore attiva responsabilizzazione; è quindi più saggio non generalizzare ed orientarsi ad ogni singolo paziente per capire quale livello di coinvolgimento ciascuno desideri: uno stesso individuo pretenderà maggiore o minore coinvolgimento a seconda del problema che deve affrontare ed in base ai suoi eventi di vita, al momento che attraversa, alle condizioni di contesto. Così accadrà che in uno stesso pomeriggio il clinico si comporti diversamente con ciascuno dei pazienti e che (ad esempio) il più radicale degli assistiti richieda un atteggiamento direttivo in una situazione in cui non è in grado di utilizzare le sue qualità di autosufficienza.
In un rapporto di partnership tra medico e paziente, capacità umane, informazioni complete, comunicazione efficace, abilità ad ottenere fiducia, sono elementi che promuovono l'evoluzione del rapporto dalla dipendenza verso la collaborazione facilitando le decisioni, l'espressione delle opinioni, la valutazione dei rischi. Nei paragrafi che seguono vengono esaminate alcune questioni relative a queste tematiche.

1.4.1 Comunicazione

Ottimismo: La comunicazione si basa sul rapporto semantico tra enunciazione e realtà in un determinato contesto. (Derrida)

Pessimismo: La comunicazione e l'ambizione educativa sono infruttuose quanto l'ambizione terapeutica. (Bezoari-Fiamminghi)

Secondo Habermas quando si comunica si hanno pretese di validità universale che riguardano la chiarezza, la veridicità, l'onestà che nella situazione discorsiva dovrebbero essere presenti ed integralmente rispettate. Un tale status non esiste ma dovrebbe esistere come ideale regolativo della realtà dei rapporti (Cioffi 1997).
I più frequenti schemi di comunicazione utilizzati dalla coppia clinica sono i seguenti:
Rigidamente biomedica: le comunicazioni si limitano ai fatti esclusivamente clinici.
Biomedico allargato: c'è qualche apertura nei confronti di alcuni aspetti di contesto
Biopsicosociale: il medico considera il paziente immerso nel suo contesto sociale ed è disponibile ad accogliere e ad inviare comunicazioni che si riferiscono alla intera vita della persona.
Consumistico: caratterizzato da un uso del medico che deve rispondere alle domande del paziente in termini strettamente limitati alle sue esigenze. (Roter 1997 )
Quando nel concreto un medico ed un paziente comunicano tra loro, non si trasmettono dei dati asettici, si scambiano anche altri messaggi sotto forma di emozioni, valutazioni sulla relazione in corso tramite comunicazioni implicite, impulsi e pensieri non consci. Ogni azione, perfino ogni movimento fisico assume una funzione di comunicazione; il medico deve esserne consapevole in modo da utilizzare questa risorsa per diventare "Un negoziatore, un consulente, insieme agente del cambiamento e manager della sicurezza" (Perini, 2001).
Comunicazioni confuse producono invece mezze verità che affondano le loro radici nel terreno dell'informazione mancante (Mitchell 1996). Il paziente ha quindi bisogno di demitizzazione, di comunicazioni chiare, di verità; è necessario renderlo più abile a esprimersi sia prestandogli ascolto, sia suggerendogli maggiore consapevolezza dei suoi modi di narrarsi, sia discutendo con lui il significato delle parole usate per spiegare il malessere. È una nozione banale, eppure non si fa caso al fatto che ci si preoccupa troppo poco degli elementi che favoriscono o inibiscono le persone a chiedere chiarimenti e informazioni; spesso il paziente sente di non avere a disposizione una situazione ambientale favorevole a porre domande: il tempo è limitato, lo studio affollato, il medico interrompe subito. Tanto vale tacere o assumere le informazioni che con più calma si possono ottenere dai giornali, dalla TV, dal farmacista, dal vicino di casa.

1.4.2 Informazione

La struttura delle conversazioni che forniscono informazioni mostra che le persone che stanno dialogando conoscono cose diverse e condividono un argomento comune. Una conversazione efficace implica che siano riconosciute ed affrontate le parti mancanti di una conoscenza e credenza condivise. (Fonagy)

Quando il paziente riceve informazioni in maniera adeguata, è più probabile che prenda decisioni autonome, diverse da quelle del medico; nelle spiegazioni fornite al paziente, di solito si sottolineano gli aspetti positivi e si sottostimano i rischi o gli effetti collaterali, oltretutto si tende a dare suggerimenti prescrittivi piuttosto che facilitanti. Si dovrebbero invece dare indicazioni sulla storia naturale della malattia e sui risultati che si possono realisticamente ottenere per modificarne il decorso. Il materiale stampato che si distribuisce negli studi medici è spesso inadeguato: eccessivamente semplicistico e consolatorio o, al contrario, troppo tecnico ed incomprensibile. La tecnologia interattiva e l'ascolto di narrazioni audio sembrano permettere al paziente maggiore coinvolgimento e maggiore identificazione, con conseguente aumento della comprensione del problema; se il soggetto si sente direttamente implicato, gli si riduce il conflitto decisionale e lo si stimola a giocare un ruolo più attivo nel prendere decisioni senza aumentarne l'ansia, così da ridurre l'incertezza nelle scelte e da promuovere maggiore equilibrio tra i suoi orientamenti personali ed i suoi valori.
In tempo di Internet le valutazioni dei pazienti hanno molte possibilità di basarsi su dati più certi rispetto al passato; più agevolmente di una volta, possono ottenere una lista dei possibili risultati per agevolare una decisione che tenga conto delle alternative, che mostri ogni possibile esito, positivo o negativo, in termini di fastidio, dolore o vantaggio di una procedura diagnostica o terapeutica. Attraverso Internet il paziente ha accesso diretto alle informazioni ed ha scoperto i trucchi del prestigiatore, le informazioni sono uscite dalla bottiglia come il genio di Aladino. Il medico guarda il paziente come il mago che vede svelati i suoi segreti e come un mago, il medico deve inventare nuovi trucchi, sviluppare nuove abilità; da una navigazione guidata da lui ad una in cui egli abbia un ruolo di messa a punto della posizione. Da timoniere a nostromo: in particolare nelle malattie croniche, il medico deve abbandonare il ruolo di guida per assumere quello di indicatore di un sentiero da percorrere in compagnia. Il curante al paziente informato tramite Internet: "È magnifico che lei abbia consultato Internet, mi faccia vedere cosa ha trovato, così glielo spiego".

1.4.3 Decisioni, valori, opinioni, rischi

Le decisioni si basano su una valutazione dei rischi, sui valori personali, sulle opinioni. In caso il paziente scelga in modo contrario alle convinzioni del medico, è necessario impostare discussioni senza pregiudizi; il soggetto ha filtrato le informazioni attraverso il suo sistema di credenze e ha deciso se ciò che gli viene raccomandato è possibile e desiderabile nel contesto della sua vita quotidiana; è quindi fondamentale che il clinico ne identifichi i valori, i quali possono variare da una volta all'altra di fronte a scelte differenti e si basano su convinzioni individuali assolutamente soggettive.
I valori che sembrano guidare le scelte sono i seguenti
* Convenienza: quale opzione è più breve e rapida?
* Sicurezza: Che cosa dà maggiori garanzie di eradicare la malattia?
* Sopravvivenza: quanto è lunga la sopravvivenza a seconda della decisione?
* Salute: fino a che punto è possibile tornare alla normalità?
* Integrità del corpo: quale scelta manterrà al corpo la maggiore integrità?
Elemento chiave per prendere una decisione riguardo la salute è la conoscenza di che cosa è più probabile che accada, eppure di fronte ad una decisione importante chi è malato è spesso confuso e di conseguenza incompetente. Se viene coinvolto in una scelta consapevole, è probabile che essa corrisponda meglio ai suoi valori, se si tiene conto del fattore temporale, che è uno dei valori più personali, è probabile che la sua scelta sarà più ponderata. Va da sé che non tutti i casi sono uguali e che non ci possa essere un approccio standardizzato per tutti; in particolare ci sono alcune situazioni in cui è più facile mettere al corrente il paziente e altre in cui è possibile farne a meno. Le situazioni in cui è imperativo rendere esplicite le scelte del paziente (Taylor 2000):
- Quando ci sono differenze rilevanti nell'esito della malattia (morte rispetto a disabilità)
- Quando ci sono grandi differenze tra le probabilità di complicazioni dei vari trattamenti
- Quando la scelta implica compromessi tra gli esiti a breve e a lungo termine
- Quando da una delle scelte può derivare una piccola speranza in una grave situazione
- Quando l'apparente differenza tra opzioni è marginale
- Quando un paziente è particolarmente poco propenso ad assumersi dei rischi
- Quando un paziente attribuisce una insolita importanza a certi possibili risultati
Il medico è abituato ad un repertorio di valutazioni riproposte sempre uguali sulla base della sua esperienza ed in base al genere di conoscenze che possiede a proposito di un problema. Quando la decisione viene concessa al paziente tutto cambia; si ritiene solitamente che egli non abbia i mezzi per giudicare consapevolmente i fatti, inoltre il modo in cui le varie opzioni gli vengono presentate hanno un' importanza critica nel determinare la sua scelta. Le decisioni dipendono si dalle indicazioni mediche, ma soprattutto dalle preferenze del soggetto, dal suo giudizio sulla qualità della vita e da circostanze determinate dalle sue credenze sociali e religiose, oltretutto le persone compiono scelte differenziate anche nei vari stadi della malattia, quindi non si può utilizzare un criterio rigido. Per giungere ad una decisione condivisa, anche il paziente deve possedere competenze, deve sapere che tipo di rapporto vuole, essere consapevole di ciò che capita, saper chiedere e sapere cosa vuol sapere. Chi soffre di una malattia cronica spesso impara le malizie del mestiere di malato ed impara a raggiungere l'informazione desiderata attraverso l'esperienza; più che su un piano di conoscenza formale, egli può conseguire questa competenza attraverso quel genere di esperienza della malattia che gli permette di percepire con esattezza i segnali del suo organismo e gli consente quella confidenza tramite la quale chiedere ed ottenere dal medico ciò che la sua conoscenza del corpo reclama. Il malato chiede: "Cosa farebbe lei al posto mio?". Non si accontenta dell'informazione, vuole anche un'opinione, desidera che il curante sia coinvolto, che gli stia a fianco e lo sostenga nella scelta. Molti clinici pensano di potersi limitare a fornire una informazione corretta senza partecipazione personale, mantenendo un atteggiamento asettico ed estraneo. La presentazione neutrale viene considerata l'ideale rispetto ad una presentazione che enfatizzi i lati positivi o negativi di ogni scelta, ma c'è da chiedersi se esista davvero o sia un miraggio.
La neutralità nelle scelte terapeutiche o diagnostiche si abbina da un lato al mito della non direttività come tendenza ad evitare la manipolazione, come sollecitudine ad analizzare ogni influenza esercitata sul paziente e come atteggiamento di rispetto nei confronti suoi e della sua autonomia; dall'altro essa si identifica con la possibilità di assumere una posizione "meta" e di cogliere quanto sta accadendo nella scena terapeutica come continuamente co-determinato da ambedue gli attori (Scano 2000).
Una concreta condivisione migliora i risultati dell'incontro, un atteggiamento di intesoggettività mescola fecondamente lo stile di relazione dei due protagonisti del convegno clinico con la loro abilità di acquisire, elaborare e comprendere le informazioni importanti.
Ci sono persone che non intendono correre alcun rischio, altre che accettano di bilanciare rischio e beneficio ed alcune che sono disponibili agli azzardi: la scelta definitiva di fronte ad un dilemma medico può risultare da un negoziato che avviene prima all'interno del nucleo familiare ed in seguito tra un medico partecipe ed un paziente fiducioso.
Alcuni medici navigati affermano: "Io spiego tutto, ma metto le cose in modo che alla fine il paziente finisca per fare quello che voglio io". Spiegazioni su infermità e trattamento vengono presentati in maniera manipolatoria, così che dati apparentemente oggettivi, si rivelino ad una analisi più approfondita, imbeccate caratterizzate dalle personali convinzioni del medico. Il clinico smaliziato è ben consapevole di quanto la forma con cui presenta i fatti possa modificare le valutazioni del paziente e quanto spesso egli debba decidere in una situazione dominata dall'ansia di una notizia inquietante appena ricevuta. In simili condizioni è giocoforza che il malato si affidi a qualcuno che lo sollevi dalla fatica di scegliere proprio nel momento più critico. È necessario evitare sia il percorso della neutralità assoluta sia quello della mistificazione sleale, verso un orientamento in cui vigano onestà intellettuale e partecipe consapevolezza della soggettività.


2. VERITÀ

Il medico che ha paura della verità deve imboccare un'altra professione (D.W. Winnicott)
2.1 Verità, Sincerità, Fiducia
Per verità si intende solitamente una qualità assoluta, che non prevede sfumature, intenzioni, paragoni (si parla di verità parziale, ma vuol dire che di un fatto costituito da vari elementi, solo alcuni sono veritieri; i singoli elementi non possono essere quasi veri). Ci sono ragioni psicologiche per le quali si dà molta importanza alla verità di un'asserzione: non è affatto indifferente se è vera o se non lo è; cambia tutto se si scopre che non è vera, che chi l'ha riferita ha mentito. Nell'ambito del discorso vero/falso, è determinante l'intenzione di chi parla; sulla dicotomia menzogna/sincerità si costruisce una parte fondamentale del rapporto di fiducia. Per aver fiducia bisogna credere che l'interlocutore dica la verità, quindi il concetto di verità deve essere accostato a quello di sincerità, cioè una definizione di stato si trasforma in una definizione di intenzione, di azione.


2.2 Definizioni ed un breve ripasso filosofico

Si può definire la verità secondo due accezioni: una verità è legata alle informazioni scientifiche in possesso del medico ed una è la verità della relazione, nella quale oltre le notizie tecniche, deve esistere anche una verità personale tra medico e paziente, una chiarezza che riguardi il sapere ed il non sapere, l'ignoranza e il conosciuto. La verità è il soggettivo dolore, il soggettivo malessere di ogni singolo paziente; l'unica, relativa, irrinunciabile certezza da cui si può partire.
Tramontata l'antica nozione di verità come adequatio, corrispondenza tra realtà e proposizioni che la definiscono, s'è venuta affermando una concezione di verità dapprima come coerenza e poi come conformità a regole, una verità quindi senza pretese metafisiche ma con validità limitata ai contesti d'applicazione. Per Nietzche non esistono né verità né falsità, ma solo prospettive differenti sulla realtà. Quando si conosce si valuta, ossia si organizza la realtà secondo il prospettivismo dei valori attraverso i quali ciascun uomo esprime la singolarità della propria esistenza.
William James riteneva invece che la verità tendesse a coincidere con l'utilità e, in particolare, con l'utilità dell'individuo. Ogni verità è sempre legata al contesto esistenziale ed ambientale del soggetto conoscente. L'evoluzione più avanzata sul versante filosofico é quella operata dalla scuola di Oxford, i cosiddetti analitici, ed in particolare Strawson che sostiene una interpretazione performativa (dicendo di qualcosa che è vero non si constata niente, esser vero non è una proprietà di qualcosa, ma si afferma o approva un certo senso: si è d'accordo). Horwich, invece dà una concezione minimale di verità: "Ogni proposizione specifica la propria condizione per esser vera". La condizione risulterebbe la condivisione di una credenza. Sarebbe allora proprio la credenza che connette verità, significato e mondo per una comunità data di parlanti (Cataldi). La verità è la momentanea rappresentazione di certe opinioni e concezioni, che sono il risultato del predominio a livello individuale e sociale di precisi criteri, interessi, rapporti di forza. Oggi prevale l'opinione secondo cui non esiste un'unica verità intorno alle cose; esistono tante verità quanti sono i sistemi concettuali con i quali ci si organizza, si descrive e si conosce la realtà. Posto un certo sistema concettuale, la verità e la falsità non dipendono da convenzioni o da scelte arbitrarie, ma dal concetto di verità e dai criteri di verificazione che vigono nell'ambito del sistema e che regolano in modo vincolante le operazioni eseguite al suo interno ( Cioffi 1997).


2.3 Evoluzione della scienza, evoluzione della verità

Tramontato il mito del positivismo ottocentesco di poter definire vera una teoria quando risulta in accordo con i fatti, si può continuare a parlare di verità scientifica?
I medici che esprimono dubbi nel corso della visita, tendono a costruire attraverso le parole un rapporto di fiducia maggiore di chi non esprime incertezza e dà al paziente più informazioni; di solito il medico esprime più apertamente le incertezze sue o della scienza con i pazienti che vogliono avere più informazioni e che pongono più domande.
Tra la gente ci sono due opposti atteggiamenti nei confronti della scienza: a) la scienza è traditrice, falsa, truffaldina, guasta il mondo e la natura. b) la scienza deve essere in grado di risolvere ogni problema; essa scienza viene da alcuni respinta per affidarsi all'irrazionale mentre altri alla scienza si affacciano come ad una fede con il rischio garantito della delusione.
Il concetto di scienza include quello di evoluzione e cambiamento; chi la crede statica, si affida ad un dogma destinato a crollare. Per Kuhn la sua evoluzione avviene con un meccanismo simile all'evoluzione Darwiniana, non un avvicinamento alla Verità, ma una comprensione più raffinata e dettagliata della natura. Il progresso esiste, ma non lo si può intendere come sviluppo conoscitivo verso una Verità assoluta; il sapere procede non verso qualcosa (la Verità) ma a partire da uno stadio di maggiore ignoranza verso una maggiore conoscenza.
La Scienza non è la Verità. Scientifico vuol dire soltanto "proceduralmente corretto" quindi, in una visione ristretta, forse "vero" nel senso di es-atto, conseguente, risultante (Cataldi). Compito dello scienziato non è trasformare le proprie idee in verità dimostrate, ma considerarle come ipotesi, come congetture sempre falsificabili, cioè considerate valide fino a quando non vengono smentite.
Da Cartesio fino all'induttivismo positivista la scienza avrebbe dovuto fondare una conoscenza inoppugnabile, eppure nel corso della sua evoluzione è apparso chiaro che essa non deve competere con le religioni perché costituisce il mondo delle ipotesi che elimina per definizione ogni potenzialità di pervenire alla verità. Per Popper non esiste un criterio di riconoscimento della verità; il suo concetto di conoscenza di sfondo cioè l'insieme di ciò che non viene messo in discussione ogni volta "per ragioni pratiche", giustifica l'idea che esista un punto di partenza per il progresso conoscitivo. Si tratta di un insieme di teorie e di congetture che provvisoriamente sono da considerare non-problematiche e costituiscono quindi una base di "verità". Un procedimento analogo avviene nell'ambito della medicina generale dove la conoscenza di sfondo dei pazienti costituisce un solido supporto su cui il singolo medico può fondare la sua base di verità costruita su un contesto sociale e culturale noto. Il concetto di verosimiglianza di Popper sostiene che quando si devono confrontare due verità tra loro (ad esempio l'opinione di medico e paziente, l'opinione di due medici o due scuole) si deve stabilire un criterio secondo cui una è più verosimile dell'altra; l'idea di una verità assoluta ha solo valore regolativo, ma si possono preferire le teorie che si spera possano essere più vere di altre: la medicina basata sulle prove di efficacia (ad esempio) non è la verità, ma rappresenta quanto di più verosimile ci sia in circolazione. La verità scientifica è quindi fluida, transitoria, sempre sull'orlo della confutazione sperimentale, dura il tempo necessario a falsificarla (Erill 2000). Il pubblico è spesso esposto al pendolo dell'ansia (Satolli 1997): in attesa di verifiche o confutazioni, vengono affermate verità tanto assolute quanto contraddittorie, quindi la gente non sa più a chi credere. Le persone hanno bisogno di fidarsi, possono scegliere la fede in qualcuno che sostenga di possedere la verità, o la fiducia in chi sostenga l'esistenza del dubbio, dell'incertezza e di gradi diversi di certezza in continua evoluzione.
Gli utenti si rendano conto del limite del potere medico, facciano i conti con l'incertezza e lo scetticismo, con il fatto che le verità contenute nelle evidenze scientifiche non sono mai neutrali (Tognoni 1997), che cercare un secondo parere non regala la verità ma alimenta un sano scetticismo nei confronti del potere della scienza (Domenighetti 1997). Un accesso più consapevole alle cure può avvenire attraverso maggiore chiarezza, maggiore grado di verità, maggiore consapevolezza dell'incertezza, minore paternalismo.


3. FIDUCIA


3.1 Definizioni

La differenza tra fede e fiducia consiste nel fatto che chi ha fede crede che l'altro sia onnipotente, chi ha fiducia gli si affida dopo essersi interrogato su di lui, sulle aspettative che nutre, dopo aver chiarito i dubbi. Il concetto di fiducia è collegato con l'affidare a qualcuno qualcosa da custodire; al medico viene affidata la salute, ma mentre in passato la consegna era totale ed acritica, al giorno d'oggi il paziente desidera il controllo su ciò che ha lasciato in custodia; si tratta di una fiducia limitata che ha provocato la caduta di un mito della medicina: l'icona del dottore che prende in consegna totale la salute e la volontà del malato è tramontata. Si affida la propria salute e ci si fida dell'esperto fare a patto di conoscere le sue strategie e le sue ragioni.
La fiducia è un sentimento che dà una qualità particolare ad una relazione e costituisce uno dei fondamenti della struttura sociale; essa viene anche definita come una salda credenza basata sull'esperienza in considerazione di qualità come onestà, veridicità e giustizia (Rosser 1998), è un atteggiamento affettivo diretto verso l'esterno, che implica una sensazione di sostegno, confidenza e tranquillità riguardo il fatto che certi atti e comportamenti si verificheranno o (se spiacevoli) non si verificheranno. È una convinzione stabile che è stata messa in discussione in passato, ma che è stata confermata da esperienze positive ed è probabile che non verrà più messa in dubbio. Tramite la fiducia è quindi possibile abbandonare aspettative irrealistiche e fare previsioni sulla base di un esame di realtà.
Al contrario la sfiducia si definisce come assenza di sicurezza e affidabilità e la diffidenza come prudenza sospettosa, scettica e dubbiosa riguardo la possibilità di consegnarsi in cura a qualcuno. La mediazione tra fiducia e scelta è costituita dall'informazione e dalla comunicazione.


3.2 Psicodinamica

La fiducia può essere fornita da una persona supportiva, rispettosa, empatica, partecipe, che non se ne approfitta, che incoraggia l'uso della parola per esprimere pensieri e sentimenti e che tenta di trovare il significato della sofferenza del paziente, fornisce l'opportunità di riorganizzare le esperienze e ricercare soluzioni più adattive (Fonagy 2001). Perché la fiducia si sviluppi si deve creare anche un complesso di elementi sociali di regolarità, certezza, coerenza, serietà entro cui vengano considerati desideri e bisogni.
Come chiunque, il paziente ricerca idealmente un amore incondizionato e perfetto, che offra la possibilità di arrendersi passivamente a cure fidate e attente. (Balint 1983)
Per affidarsi, le persone proiettano il loro oggetto buono interno in nuovi oggetti emergenti (ad esempio il medico), creando così la base dell'apprendimento e della conoscenza; alla fiducia è collegata la gratitudine, che si basa sulla sicurezza di godere di una buona fonte di nutrimento fisico o mentale (Kernberg 1980 ).Quando ci si affida a qualcuno, deve esistere la convinzione che non si subiranno tradimenti o aggressioni.
Tra fiducia e dipendenza esiste un rapporto che va compreso a fondo; il senso comune attribuisce alla dipendenza una accezione negativa ed in effetti chi è assoggettato viene sottilmente disprezzato, mentre chi viene descritto come "fiducioso negli altri" riceve una connotazione favorevole.
Nel corso della vita, molti stati quali l'immaturità, la malattia, la vecchiaia, rendono deboli dal punto di vista fisico o psicologico e quindi dipendenti, tuttavia il malato ambulatoriale ancora padrone delle sue capacità di discernimento, a differenza del malato ricoverato in ospedale mantiene un possesso della sua persona che gli permette di concedere la fiducia conservando la consapevolezza di sé e del proprio stato. La fiducia si concede consapevolmente sotto continuo controllo e perché progredisca deve essere mantenuto un alto livello di informazione e di comunicazione tra le parti: il medico che rende partecipe il paziente, ne aumenta la competenza, la consapevolezza di sé, ne evita la soggezione e ne promuove la capacità di assumere responsabilità nella cura della propria salute.
La sicurezza si sviluppa attraverso l'identificazione con persone che ne siano degne attraverso esperienze positive, contiene la percezione e il giudizio sull'altro attraverso una seria e reiterata valutazione delle capacità professionali e relazionali di condividere le decisioni e di assumersi responsabilità. Se un paziente non ha fiducia, non comunica; perché si consegni alla cura, è necessario che possieda qualche elemento di realtà che gli consenta di paragonare la fiducia fantasticata (incondizionata) alla fiducia che può realisticamente aspettarsi. La differenza tra la fiducia e la dipendenza consiste nella valutazione realistica delle aspettative.
Chi prova fiducia è meno ansioso nei confronti dei pericoli perché sa che verso di lui esiste simpatia e compassione e sa rilassarsi se sperimenta sicurezza, anche se è cosciente del fatto che in alcune situazioni è necessario essere diffidenti. Riassumendo, il paziente fiducioso è convinto che il medico comprenda qualcosa dei suoi problemi, spera nel processo terapeutico e pensa che se prenderà parte al processo clinico potrà guarire; è uno che riconosce i limiti del suo interlocutore, non lo considera onnipotente, sviluppa il suo sentimento attraverso un graduale esame dei dubbi, non attraverso una speranza illimitata di effetti portentosi.


3.3 I fattori che creano e mantengono la fiducia

L'età, il sesso del paziente, l'aspetto del medico, il fatto che il curante sia stato consigliato da qualcun altro e (negli USA) il modo in cui il medico viene retribuito, sono fattori che influiscono sul grado di sicurezza, mentre all'opposto, la gentilezza durante le visita, la discussione delle opzioni, il contatto di sguardi, un trattamento alla pari, sembrano elementi secondari nell'induzione di fiducia. In un rapporto clinico, gli elementi che favoriscono la fiducia sono gli stessi che facilitano la soddisfazione del paziente. Il senso di affidamento risulta dal grado di reciproca dipendenza tra paziente e medico: l'uno si aspetta che l'altro si faccia suo agente e che quando si devono prendere decisioni che coinvolgono specialisti o medici ospedalieri, si dia da fare per i suoi interessi .
Numerosi altri fattori contribuiscono a creare e mantenere la fiducia: la ricerca delle ragioni reali della visita, il rispetto delle opinioni e delle sensazioni, la capacità di prodigarsi e di prendere in carico la persona, la dimostrazione di competenza nella diagnosi e nel trattamento, la abilità di confortare, la attitudine ad incoraggiare a porre domande, la volontà di dare spiegazioni e informazioni, il rispetto per la conoscenza che il soggetto ha di sé, la capacità di accettare l'amore e l'odio del paziente senza intenti vendicativi e senza che si aspetti da lui soddisfazioni emozionali.
È scontato che la fiducia sia stimolata dall'affidabilità e dalla chiarezza: quando non c'è risposta a qualche quesito lo si deve rivelare senza timore; il curante che riconosce i limiti della scienza rende il paziente più realista e meno magicamente consegnato ad una illusione di onnipotenza della medicina. L'affidabilità consiste nel proteggere i pazienti dall'imprevedibilità; dietro l'inaffidabilità si nasconde il caos dell'impensabile e quindi la somatizzazione. Ai fini dell'accrescimento della fiducia non è mai tempo perso utilizzare la propria immaginazione con cautela per entrare nelle riflessioni, nelle emozioni, nelle speranze e nei timori dell'altro; è imperativo mantenere il suo senso di identità personale, assicurargli riservatezza e ricordare i vincoli etici della professione (Winnicott 1990 ).


3.4 A cosa serve la fiducia

La fiducia non ha uno scopo pratico nel momento in cui nasce, ma se ci si attiene ai fatti e ci si pone in un'ottica pragmatica, ci si accorge che maggiore la fiducia, maggiore la soddisfazione del paziente, la sua compliance e la continuità della cura. In presenza di un paziente fiducioso è possibile che il medico riesca ad impostare un rapporto in cui l'attesa e lo sviluppo dei fatti clinici trovino uno spazio senza la necessità di ricorrere ad esami di laboratorio dal significato esclusivamente difensivo.
In questo modo si produce un abbattimento dei costi e si favorisce una osservazione della storia naturale della malattia; se si riduce la pretesa di guarire subito o di non ammalare affatto o di non morire mai l'atmosfera diventa meno affannosa. Quando un paziente diffidente non accetta di stare a vedere che il suo malessere prenda una forma comprensibile (non si dimentichi che il 40% dei problemi in MG sono indifferenziati e non classificabili), cercherà altri medici ed altri esami in un doctor shopping che innalzerà i costi ed il malessere di entrambi i protagonisti del rapporto. I pazienti che non ricevono una diagnosi e restano sospettosi, peggiorano la loro ansia temendo di essere affetti da malattie gravi; in queste circostanze, oltre l'aumento della spesa pubblica, esiste il rischio di un danno jatrogenico prodotto da esami superflui. La fiducia aiuta il paziente ad accettare il modo in cui il MG gli spiega le notizie relative alla sua salute e consiste nell'accettare di farsi con-vincere ad una decisione piuttosto che ad un'altra. Un paziente consapevole decide di farsi con-vincere, di fidarsi, di affidarsi; secondo questa accezione la fiducia perde il suo tradizionale carattere istintivo per acquisirne uno consapevole. Consapevolmente si può scegliere di dipendere in parte da un'altra persona senza mai abbandonare la guida di sé in un moto alternato di delega e di deroga, in un processo condiviso ed intersoggettivo.


4. UNA OPPORTUNITA' PRAGMATICA: UN CONTRATTO


4.1 Consensi e contratti

La nozione del paziente come partner possiede una analogia con la richiesta di consenso informato messa in atto all'inizio di un trial quando si firma un ICD (Informed Consent Document); il contratto di partership non consiste solo di una evoluzione dettata da una democratica apertura nei confronti dell'utente, ma anche di un cambiamento radicale dettato da esigenze medico legali. Negli USA, ad esempio, è prassi comune stendere un contratto con i pazienti ai quali vengono prescritti farmaci che possono dare dipendenza: il contratto specifica come e perché il soggetto sta usando quel farmaco e che l'utente non deve chiedere ad altri medici di prescrivergli quel prodotto; se il paziente rompe l'accordo, il medico cesserà di prescrivergli il farmaco. In maniera analoga tra gli psicologi clinici e gli psichiatri ed i loro pazienti a rischio di suicidio, si stipula un accordo secondo cui si chiede di contattare il proprio terapeuta prima di qualunque momento critico. L'efficacia di questi mezzi è tutta da confermare, ma dimostra la tendenza a trasporre anche in ambito clinico i principi che finora venivano riservati alla somministrazione di farmaci in un trial clinico controllato.


4.2 Forma e proprietà del PPPP

Il Patient Phisician Paper Partnership è un modello concepito da Rosser, medico canadese, per favorire l'intesa con il paziente, fornirgli le informazioni più accreditate riguardanti la sua patologia, mettere per scritto un vero e proprio contratto tramite il quale pianificare i procedimenti diagnostici e terapeutici che verranno seguiti nel corso della malattia. Il modello di Rosser contiene tutti gli elementi che potrebbero trasformare una semplice relazione clinica in un rapporto condiviso; viene messo a disposizione del paziente uno stampato dedicato al problema in questione (ad esempio il mal di schiena) che chiarisce cause e meccanismi fisiopatologici in gioco, propone mezzi diagnostici diversi, descrive la storia naturale della malattia, contempla la possibilità che non si intervenga affatto sul problema, descrive infine le varie opzioni terapeutiche e l'eventuale necessità di follow up con le scadenze ritenute più idonee al monitoraggio della patologia. Ciascuna delle informazioni fornite deriva da una accurata analisi delle più accreditate evidenze disponibili ed è sottoposta frequentemente ad una revisione in base ai cambiamenti sopravvenuti nel frattempo nelle linee guida. Il paziente porta con sé lo scritto, lo analizza, lo valuta con chi vuole, poi torna dal curante dove il documento viene sottoscritto e conservato da entrambi.


4.3 Qualche commento e qualche conclusione

È innegabile che un modello di contratto come quello presentato da Rosser possieda dei vantaggi, tuttavia la sua utilità può risultare massima qualora venga utilizzato soprattutto come canovaccio per un dibattito e come base per la realizzazione di strumenti più flessibili che non come prototipo da riprodurre.
Se ne esaminino alcuni aspetti positivi: 1) le decisioni importanti vengono prese al di fuori da situazioni di forte emotività. 2) il paziente ha la possibilità di portare a casa il materiale illustrativo, ci pensa con calma, condivide con i familiari o con gli amici i pro e i contro di ogni scelta. La valutazione definitiva è il risultato di un negoziato che avviene all'interno del nucleo familiare o della rete sociale prima ancora che tra paziente e medico. 3) al tradizionale bilancio rischio-benefici attuato tramite una rigorosa informazione riguardo le migliori prove di efficacia disponibili, si affianca una valutazione che tiene conto delle caratteristiche, dei valori e delle scelte del singolo paziente. Un insieme di diritti, doveri e aspettative di benefici indirizzati all'individuo.
Soppesati gli aspetti vantaggiosi, va detto che sotto altri profili il PPPP appare come una procedura burocratica che ha il solo scopo (peraltro non disprezzabile) di definire la responsabilità del clinico e quella del paziente nell'accingersi ad una terapia; da un ulteriore punto di vista appare un vero e proprio scarico di responsabilità da parte del sanitario.
Un ideale contratto di partnership può essere tutto questo e molto di più: se è vero che di fronte a decisioni difficili il paziente deve essere lasciato libero di decidere, è altrettanto vero che un medico accorto deve proporre una opzione alternativa attraverso la quale favorire la crescita della capacità riflessiva e creare le condizioni perché nessuno debba rimpiangere la risoluzione raggiunta, soprattutto nei casi in cui né il buon senso né le evidenze sono sufficienti a prendere decisioni a cuor leggero ( ad esempio: idratare o no in fase terminale? Nutrire o no in fase terminale? Quale opzione terapeutica per un minore?). Le informazioni disponibili anche al di fuori del tempo della consultazione devono offrire al paziente elementi di valutazione basati su una riflessione ponderata e dargli la possibilità di districarsi tra le incognite e i vantaggi che gli si prospettano. Le informazioni scritte che aiutano la scelta vanno considerate parte del progresso nelle conoscenze e aggiornate di frequente, a mano a mano che le prove di efficacia evolvono ( a mano a mano che la verità cambia). Il paziente che riceve un elenco di tutte le opzioni possibili tenendo conto delle sue circostanze di vita e delle sue preferenze (compresa la possibilità di non intervenire affatto), riduce il conflitto decisionale e raggiunge scelte più consapevoli e responsabili.
Un contratto di partnership deve avere anche la funzione di utilizzare in pratica le informazioni ottenute attraverso una valutazione critica della letteratura al fine di dare al paziente il maggiore beneficio possibile; obbliga quindi il clinico ad una continua opera di aggiornamento, nella prospettiva non solo di fornire il meglio, ma anche di fornire ciò che serve o evitare tutto ciò che non è utile.
Ogni contratto di partnership dovrebbe concludersi con un piano di azione da formalizzare in svariati modi: da un gradimento espresso verbalmente in modo informale ad un formale contratto scritto e sottoscritto dai due attori.
La proposta di Rosser, per quanto stimolante ed innovativa, presenta alcuni intoppi di ordine sia pratico che concettuale; è infatti improponibile formulare una scrittura su misura per ogni paziente ed è altrettanto utopico pensare che un accordo formalizzato e standardizzato possa risultare soddisfacente per ciascuna delle persone che si rivolgono al medico o per ciascuna delle situazioni problematiche che gli vengono quotidianamente sottoposte nella maggior parte dei casi autorisolutive.
Un ipotetico contratto di partnership non dovrebbe persuadere nessuno nel senso tradizionale di convincere attraverso qualche tipo di retorica: sarebbe auspicabile una totale assenza di ambiguità tra gli attori dell'incontro, ma dato che le decisioni cliniche sono sempre emotivamente connotate, è impossibile sterilizzare il campo come in chirurgia; sarebbe quindi necessario che la coppia fosse in grado di considerare la presenza delle emozioni non come interferenze sgradite, ma come segnali necessari ad orientare le scelte.
Al medico il compito di svelare ambiguità, atteggiamenti difensivi, paure, di modo che il paziente possa assumere le proprie responsabilità di decidere con massima consapevolezza, dopo avere riunito i suoi aspetti emotivi e quelli razionali. Per essere veramente innovativo ed utilizzabile, un contratto di partnership non può quindi limitarsi alla somministrazione di una informazione asettica e corretta addossando al paziente una responsabilità totale ed oppressiva, deve anche progettare uno spazio per la condivisione e lo sviluppo dell'intersoggettività in cui si mescolino in maniera creativa lo stile interpretativo di medico e paziente e la reciproca abilità di acquisire, elaborare e comprendere l'uno dall'altro le informazioni e le convinzioni rilevanti.


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