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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psichiatria e psicologia dell'emergenza

Esperienze di interventi psicologici in pronto soccorso

di Silvia Bellini, Milvia Castelli, Elisabetta Novello, Graziella Stacchio



Il seguente articolo presenta il lavoro di quattro colleghe psicologhe, di orientamenti teorici differenti, che hanno condiviso il complesso percorso di sviluppo di un progetto sperimentale, nel contesto di un Pronto Soccorso.

Circa cinque anni fa, ci è stato proposto di partecipare come psicologhe tirocinanti ad un progetto di intervento psicologico in Pronto Soccorso (di seguito abbreviato in “PS”). Questo tipo di attività aveva lo scopo di osservare i bisogni e le aspettative delle persone, le quali vivono il PS come una situazione di stress e di ansia causata dalla sofferenza fisica, dal malessere psicologico, dall’impossibilità di soddisfare i propri bisogni e a volte a tempi di attesa molto lunghi.

Il nostro compito, dunque, era quello di mettere in pratica quattro elementi essenziali utili a creare una tempestiva relazione empatica: accoglienza, ascolto, comunicazione e disponibilità.

Riferendosi al concetto di umanizzazione, nel testo “Pronto Soccorso Triage” (Trabucco G., Buonocore F., 2007), si parla di umanizzazione delle cure considerando l’intervento psicologico nell’emergenza non come sostitutivo di quello psichiatrico, bensì espressione di una modalità di accoglienza della sofferenza psichica dei pazienti e dei loro familiari, che consenta di prevenire l’impatto potenzialmente traumatico dei danni subiti, di qualsiasi natura essi siano. Gli autori, inoltre, propongono un approccio globale ai problemi del paziente ed in questa prospettiva la presenza continuativa dello psicologo, in corridoio o nello studio, rappresenta lo spazio di elaborazione del vissuto soggettivo che controbilancia una necessaria oggettivazione dell’intervento medico. Lo psicologo, inserito nello staff del PS, svolge anche la funzione di trait-d’union nei confronti dei familiari, sostenendoli nelle informazioni sul percorso ospedaliero, sulle procedure diagnostico-terapeutiche adottate e sui percorsi di cura; li aiuta, inoltre, a fronteggiare le angosce e i sentimenti di impotenza che si sviluppano, specie di conseguenza alle comunicazioni più destabilizzanti.

Al di là della schematicità dei progetti, si è pensato si potesse inserire una modalità, di pensiero e di lavoro, capace di offrire un processo relazionale alle condizioni suddette.

Il PS è il luogo dell’emergenza-urgenza, dove approdano pazienti e/o loro parenti ed amici ricolmi di angosce, paure, preoccupazioni, forti stati d’ansia, dolore fisico e psichico. A questi possono accompagnarsi anche stati di rabbia e frustrazione, di fronte alla minaccia di perdita della propria identità e un senso di spaesamento, spesso vissuto dalla persona come perdita del proprio confine corporeo e disorientamento spazio-temporale.

Questo per far capire che durante le malattie, minacce al proprio corpo e via dicendo, vi è la possibilità di ritrovare forme di sentimenti arcaici che possono far vivere delle forti emozioni, a volte quasi incontrollabili.

Attraverso il contributo della Klein, si può presto notare come ci sia la necessità di dislocare la propria ansia, come esista un pregnante contatto con le emozioni primarie. Il PS può, spesso, essere un luogo in cui si può ritrovare un contatto con le emozioni più primitive, come la regressione temporanea: gli elementi primitivi e temporanei, infatti, sono velocissimi a presentarsi quanto ad annullarsi, in base alla condizione psicofisica del momento. Tuttavia, in quei momenti, non tutti i pazienti sono in grado di mantenere il controllo su queste emozioni. Il nostro lavoro, dunque, è quello di riuscire a contenerle in modo empatico ed orientato a dare un senso e una direzione/collocazione a ciò che la persona sta vivendo.

LA DIMENSIONE SPAZIO-TEMPORALE NELL’EMERGENZA

In psicologia dell’emergenza, le dimensioni di spazio e di tempo non appartengono ad un contesto provvisto di setting definito, bensì è compito dello psicologo trasformare le due dimensioni in coordinate strutturate in quel contesto specifico, concretizzando il saper essere ed il saper fare. Tenendo in considerazione le difficoltà legate a tale contesto – quello in cui operavamo era privo di una stanza predisposta a sportello psicologico - lo spazio si limita alle sale, a volte affollate, ai corridoi sprovvisti di sedie per i familiari in attesa ed al passaggio di un cospicuo numero di persone che, nelle varie vesti, percorrono su e giù quei pochi metri di suolo, tracciato da linee multicolore utili a facilitare l’orientamento verso altri reparti. Uniformarsi a questo spazio significa anche rispettare lo spazio di ogni altro operatore che vi lavori, soccorritore che vi acceda, paziente che vi sosti, familiare disorientato e non essere d’intralcio nelle fasi di trasferimento del paziente all’ambulatorio medico preposto. La compresenza di molti utenti nella stessa sala d’attesa assume un notevole rilievo nell’impostazione e nella gestione dell’interazione e della privacy.

Il setting

Fin dall’inizio della nostra esperienza, è risultato subito chiaro il dover fare i conti con l’esigenza di creare una modalità operativa strutturata, per saper adattare la nostra professionalità sulla base delle esperienze fatte e del proprio specifico orientamento. Il contesto del PS, a nostro avviso, è in continua trasformazione e la difficoltà maggiore incontrata è stata quella di modellare il setting classico in un ambito di emergenza. Dal momento in cui il progetto è iniziato e con il passare del tempo, si è cercato di affinare una metodologia comune, frutto dell’esperienza vissuta. Il camminare nei corridoi, il vedere le persone in difficoltà rannicchiate nel proprio dolore, l’incontrare vari tipi di urgenza/emergenza, l’operare a stretto contatto con medici e personale paramedico, ha permesso di individuare uno stile di riferimento interno ed amalgamarlo con il setting di riferimento sviluppato e da noi condiviso. Attraverso frequenti intervisioni tra colleghi, l’originaria differenza di orientamento è divenuta risorsa, tradotta in strategie comuni, utili ad accogliere e ad ascoltare in modo mirato le persone che transitavano in PS. Si sono così delineati dei criteri di intervento, mirati ad affrontare e gestire le più svariate circostanze. Le riflessioni che più spesso risuonavano, erano le seguenti: “Che tipo di bisogno ha questo paziente? Sarà sufficiente un solo incontro, talora di pochi minuti, per rispondere alle sue necessità? Il nostro avvicinarsi alla persona risulterà invadente?”. Le risposte sono emerse attraverso l’osservazione e lo svolgersi della relazione di sostegno specifico. Abbiamo desunto che lo sguardo assume valenza metodologica, in quanto si rivela un indispensabile strumento per misurare l’intervento da attuare. I volti che abbozzano un lieve sorriso, i lineamenti che si distendono, i singhiozzi e le lacrime che diventano valvola di sfogo di emozioni e sensazioni, il non detto, tutto ciò ci ha guidato nel regolare la giusta distanza/vicinanza relazionale, che si esplica con il sostegno, gli sguardi, la presenza del professionista in quel preciso momento e luogo, con quella persona.

Il tempo psicologico

Spesso, abbiamo osservato che l'utenza vive questa condizione come spiazzante, destabilizzante e di grande incertezza rispetto a ciò che seguirà.

L’attesa assume il carattere di sospensione e diventa la parola dominante. Il tempo della visita, di eventuali analisi o controlli, della comunicazione di una diagnosi, della consegna del foglio di uscita e via dicendo, sono elementi significativi per il professionista, utili a cogliere il bisogno del paziente di comprendere ciò che gli sta succedendo, di capire l’iter diagnostico, di potere esprimere le proprie paure e di essere ascoltato e contenuto nelle proprie emozioni.

In riferimento alla teoria di Bion (Lopez Corvo, 2006), “La tolleranza alla frustrazione implica una presa di coscienza del lasso di tempo che intercorre tra la presenza e l’assenza dell’oggetto, cioè di quello che una personalità che evolve riconoscerà più tardi come la nozione di tempo. […] L’incapacità di distinguere il passato, dal presente e dal futuro, è responsabile di sentimenti di tedio, di tautologia interminabile o ipseità […]”. Come può essere vissuto il tempo dagli utenti in PS? Abbiamo supposto che dentro di loro tutto avvenga a due velocità: quella della realtà esterna, che appare percepita come rallentata e ovattata, a causa del senso di sospensione trasmesso dall’attesa e dal luogo asettico; e quella della realtà interna, in cui si scatenano quasi immediatamente elementi tra i più primitivi ed estemporanei, che le persone manifestano in maniera soggettiva.

E’ un tempo che assume una dimensione dilatata, a causa dell’attesa e dell’incertezza della propria condizione, fatto che spesso si è notato generare un profondo senso di impotenza nell’utente, rispetto agli eventi. Il dialogo e la relazione che si creano tra psicologo e paziente sono intrisi di questi elementi e hanno la funzione di trasformare una condizione forse disgregata e disgregante in un’esperienza probabilmente in grado di restituire un contenuto ed una forma, a ciò che è in atto.

Nello specifico, gli orari dei turni del servizio psicologico diventano flessibili nel momento in cui l’approccio con la persona non può concludersi in un tempo prestabilito. Si entra in corsia annullando la percezione temporale e cercando di calarsi nel vissuto cognitivo - emozionale dei singoli soggetti. Ovviamente, ci si adatta al tempo tecnico che si applica all’attribuzione dei codici in triage, ai tempi di decorso della somministrazione di un farmaco, alle eventuali emergenze, agli orari ed ai turni dei medici. Una delle principali funzioni, da noi svolte, è stata di accogliere la sofferenza emotiva delle persone senza trascurare quella fisica, al fine di agevolare l’integrazione delle due dimensioni.

ESEMPI DI INTERVENTI SUL CAMPO

Nei casi di seguito riportati ci siamo premurate di modificare i dati per salvaguardare la privacy delle persone coinvolte.

Oltre lo sguardo

Lungo la corsia, nell’intento di rasserenare un paziente sul decorso della sua pratica, odo dei lamenti provenire dalla stanzetta in entrata, dove i soccorritori del SUEM sono occupati nel sistemare una donna arrivata da poco. Inizialmente non intervengo perché attendo che gli operatori dell’emergenza svolgano la loro prassi e mi sposto nel corridoio adiacente per scorgere i volti delle persone in attesa. C’è un anziano che riposa dolorante su una sedia, con una flebo al braccio, c’è una giovane signora che si lamenta della storta al polso e le porto del ghiaccio istantaneo, nessuno appare particolarmente agitato. Mentre mi dirigo verso il triage per prendere il sacchetto del ghiaccio, mi ritrovo ad osservare quel minuto corpo di donna circondata da tre soccorritori, disposti a semicerchio. Mi interrogo su quale possa essere la problematica che la riguarda. Termino quello che stavo facendo e mi dirigo verso l’entrata per capire se posso essere d’aiuto. La paziente nella barella ha le convulsioni, è agitata e indossa la mascherina per regolare l’ossigenazione e non stacca lo sguardo dalla soccorritrice, che le tiene le mani e la sollecita a respirare lentamente, come a ricercare un appiglio in questa fase acuta di agitazione. Chiedo spiegazioni e uno dei soccorritori mi fornisce informazioni sul caso, richiedendo il mio intervento per poter proseguire nel loro servizio. Cautamente, mi inserisco fisicamente tra le due, svincolando sia la donna dall’attaccamento alla soccorritrice che la soccorritrice, la quale fatica a sottrarsi da quei due occhi che richiedono la sua presenza. Mi avvicino e mentre la soccorritrice stacca le mani, le faccio trovare le mie; nello scorrere via dei due sguardi, le porgo il mio. Estraneo fino a quel momento, lentamente viene carpito. Le dico, con tranquillità, di respirare profondamente e di ascoltare, attraverso le sue mani e le mie appoggiate sopra, il movimento della sua pancia, che da affannato comincia a rallentare e, dopo un momento di sospensione, riprende con ritmo più lento. Dirige gli occhi lateralmente in alto, si sgancia dal mio contatto oculare e si blocca. Non so ancora se la crisi è passata, la richiamo per vedere se è cosciente, mi risponde. Dopo qualche minuto sembra che il momento critico si sia attenuato, lei sembra seccata di quel vissuto, si toglie la mascherina e chiede di una persona che non è lì presente. Arrivano i genitori, non ben accetti dalla figlia, li avviso di lasciarla serena perché non si è ripresa da molto e raccolgo quelle poche informazioni che mi fanno capire la recidività dell’episodio d’ansia. Mi allontano perché possano rimanere nella loro intimità familiare e condividere questo momento di sofferenza. Non ritengo efficace spingermi oltre verbalmente. Resto ancora un po’ lì silente, saluto, mi allontano e ritorno in corsia.

Dal non verbale, al non detto, al rivelato

Dalla nostra esperienza, abbiamo colto che l’osservazione - quale strumento di intervento - può facilitare l’instaurarsi dell’alleanza relazionale, che spesso si traduce nel cogliere l’evidenza attraverso l’incontro di sguardi. Un fattore di rilievo può attirare l’attenzione dello psicologo, innescando il susseguirsi di una serie di osservazioni attive e passive con l’esplicarsi di possibili azioni strategiche di aggancio del paziente. Talora questo elemento è chiaro: ad esempio, una persona che sta piangendo o che è visibilmente crucciata. L’osservare piccoli dettagli, il cogliere segnali di apertura che l’altro rimanda, senza che ne sia particolarmente cosciente, ci consente di tramutare quel momento in un intervento di supporto psicologico. Il linguaggio non verbale, inoltre, assume una valenza metaforica decifrabile in elementi significativi, per tradurre ciò che accade: quello che rimane nel non detto, nel non esprimibile sia a causa dei tempi del PS (“sto per essere chiamato”, “devo andare a fare i controlli”) che dello spazio dedicato all’ascolto (sale affollate, corridoi).

Il caso di seguito riportato funge da esempio quale fattore attivante di una strategia di intervento.

Sto parlando con una signora in una delle sale di attesa. Mi sento distratta. Non ha tanta voglia di aprirsi. Il mio sguardo è rivolto spesso alla ragazza seduta accanto a lei. Inizialmente penso sia la figlia della signora. Ha un braccio ingessato, è molto giovane, è rannicchiata su una piccola sedia, accanto a tante persone sedute a schiera. C’è molta gente in quella sala. La sua postura trasmette un atteggiamento scostante, il suo viso è giovane e il suo braccio penzola. Colgo, ogni tanto, il suo sguardo verso di me, forse incuriosito o forse diffidente, e mi chiedo se avvicinarla o no. Mentre sto parlando con l’altra signora, ad un certo punto, la ragazza si inserisce con una battuta nella conversazione e sento che ora è il momento giusto. Chiedo alla signora se è sua figlia e mi risponde di no. La ragazza mi dice: “ io sono qui per il mio braccio”. Il mio istinto mi porta verso di lei. La stanza è troppo affollata, sento il bisogno di tutelarla per la sua giovane età e anche per garantire il suo spazio. In questo momento avverto tutti i limiti del setting, ma sento che devo continuare. Mi arriva la sua diffidenza, per cui cerco di essere più discreta possibile. Le parlo piano e le chiedo come sta. Il suo volto cambia espressione, si fa teso e rigido. Mi risponde dicendomi “insomma, sono qui”. Quel braccio ingessato colpisce la mia attenzione e comincio da quel particolare.

Le chiedo: “Cosa è successo al braccio?”. Lei mi risponde che ha dato un pugno contro il muro. Dentro di me varie immagini cominciano a delinearsi. Che significato ha quel pugno per lei? Verso chi era diretto e a chi avrebbe voluto darlo? E quanta rabbia avrà dentro, per dare un colpo tale da rompersi il braccio? Così le chiedo: “A chi volevi dare questo pugno?”. Lei mi risponde che era molto arrabbiata con i suoi genitori, che le mancano tanto e che si sente sola. La conversazione ha dei ritmi a singhiozzo, lei risponde a monosillabi.

La sua storia mi affascina e si sta intessendo di elementi che quel braccio racconta. Mi colpisce molto il suo essere lì, sola, ad affrontare una situazione come quella del PS. Le chiedo se vive con i genitori e dove abita e comincio ad esplorare il suo ambiente esterno. Mi racconta che vive in una struttura, dove accolgono persone con problematiche varie. In questo momento, sento un pugno allo stomaco e mi chiedo: “Cosa ci fa qui? Quale storia sta vivendo, ora nella sua vita?”.

Il suo sguardo, quando mi parla, è rivolto in più direzioni, evita i miei occhi. Mi racconta che in questa struttura si sente sola, che i suoi genitori la vanno a trovare una, due volte la settimana. Mi arriva la pesantezza della sua storia, la sua confusione nel raccontarmi la mancanza dei genitori, la sua difficoltà a capire cosa ci faccia lì in quella struttura, il suo sentirsi inascoltata. Cosa sarà successo di tanto grave da essere lì? Sta cominciando a fidarsi di me ed inizia a raccontare le sue giornate nella struttura, ne prova vergogna. Le verbalizzo che è difficile vivere questa situazione da sola ma che il suo essere lì deve avere un senso per lei. La ragazza annuisce, dicendo che “forse è meglio così”. Sento che ha bisogno di parlare, necessita di maggiore privacy. Le chiedo se si vuole spostare in un luogo più tranquillo e lei scatta dicendomi di no, giustificandosi col timore di perdere il suo turno di visita. Mi accerto che stia bene e che abbia voglia di continuare. Il suo volto si illumina, stavolta, di un sorriso. Il discorso continua con il racconto della sua relazione con la madre, esprimendo il desiderio di averla accanto a sé. La sento vicina a me. Ha bisogno di essere rassicurata e sostenuta nell’affrontare la situazione e nel pensare di poter cambiare le cose imparando a chiedere aiuto. La sento commossa e sfiduciata riguardo alla possibilità che le possa succedere qualcosa di bello. Le faccio sentire la mia vicinanza dicendole che, se vuole, resterò con lei finché non la visiteranno. Sento che ha ancora delle cose da dirmi. Quando le chiedo di suo padre, si rattrista, cambia espressione. Mi dice che è meglio non parlare di lui “E’ una persona brutta, nella mia vita”. Vedo la sua paura e il suo smarrimento. Le prendo le mani e gliele stringo. Mi racconta che quando aveva 10-11 anni, il padre ha abusato di lei. Il suo braccio ingessato era arrivato in PS per raccontare una storia che aveva da svelare molti contenuti della sfera psichica. Arriva il gelo. Mi racconta che, a fatica, ha da poco iniziato a parlarne con gli altri, e di quanto senta il senso di colpa. Colgo tutta la sua solitudine. Le stringo la mano con tenerezza. Questa esperienza è stata così dolorosa per lei, che non sa a chi appartengano le colpe e forse quel pugno avrebbe voluto darlo a suo padre. A parlarne, il suo volto comincia a poco a poco ad illuminarsi. Le spiego la necessità di continuare a chiedere aiuto alla struttura, l’importanza di essere ascoltati e il bisogno di dare un senso a quello che le sta succedendo. Non ho più rivisto quella ragazza e non so cosa quell’incontro le abbia lasciato, ma quel braccio ingessato ha incontrato in PS uno psicologo, che ha ascoltato e favorito un dialogo tra la persona e se stessa, dando voce alla sua storia.

Contenimento di un lutto

Come ben espresso da Zuliani e De Antoni (Zuliani A., De Antoni L., 2002), di fronte ad un decesso “occorre sempre ricordare che è assolutamente normale che, in questi momenti, vi siano delle reazioni emotive molto intense; possono manifestarsi attraverso esternazioni eclatanti, attraverso il congelamento delle emozioni, o attraverso forme di regressione nei comportamenti. Possono inoltre manifestarsi incredulità verso l'accaduto, ira, sensi di colpa […]. Non sono da escludersi reazioni come svenimenti, mancanze di respiro, scene di disperazione, eccetera. Chi si assume il compito di informare dovrebbe essere preparato ad affrontare anche queste situazioni di emergenza. Inoltre se queste sono reazioni vitali, probabilmente occorre una certa prudenza nel volerle eliminare. Oggi molti studi avanzano dubbi sull’efficacia dell’uso dei sedativi in queste situazioni: sussiste la preoccupazione di attutire, assieme alla sofferenza, anche le capacità rielaborative delle persone.”.

Ed ancora “vi è sempre un tempo per la sofferenza che permette il dispiegarsi del tempo della convivenza con il dolore e con l’elaborazione del lutto. Spesso si assiste ad una sorta di rifiuto della realtà perché è la realtà stessa che grida forte l’assenza della persona amata (De Pellegrini, 2002). Altre volte c’è rabbia e senso di colpa per non essere riusciti, magari in modo del tutto soprannaturale, ad impedire la morte del congiunto”.


Proprio un lunedì mattina apro, lentamente la porta dello stanzino che ci è stato assegnato per cambiarci. Nel caso di un decesso in PS, è questa stessa stanza ad essere preposta a luogo ove ospitare le eventuali salme, per il tempo necessario a svolgere le pratiche del caso. E’ tutto buio, sento un lamento, un pianto, conferme, appunto, di un decesso. Decido di chiudere la porta per lasciare lo spazio e il tempo alla persona di cullare il proprio dolore. Mi chiedo, allora, dove posso appoggiare il mio cappotto e la borsa, ma non trovo soluzione. Il personale del PS mi suggerisce di entrare ugualmente e di cambiarmi in silenzio. Faccio come dicono e trovo anche una mia collega. La salma si trova davanti ai nostri armadietti e dall’altra parte della stanza noto, seduta su una sedia, una signora, presumibilmente un familiare. Esco e rimane dentro, temporaneamente, la mia collega. Ad un certo punto una volontaria mi confida, in un modo che sento sbrigativo e superficiale, di aver dato alla signora un calmante, poiché aveva notato una certa instabilità. Decido, allora, presa un po’ dalla curiosità e al contempo dalla preoccupazione, di iniziare l’intervento. Rientrata nello spogliatoio, trovo la signora inginocchiata a terra, con la testa tra le mani: con il corpo si culla, come a dar sollievo a quel forte dolore della morte che penetra, che dilaga nel cuore, nella pelle, in ogni dove non dando tregua. La donna talvolta delira chiamando, con tono sempre più elevato e metallico: “Papà, papà. Perché non mi risponde? È arrabbiato con me”. È una voce distaccata dal corpo, fredda, sembra quasi appartenere ad un’altra persona, ad una presenza invisibile, fantasma. Sento, dunque, una forte scissione in lei e cerco di riancorarla alla realtà, facendole domande molto semplici, a bassa voce (per non spaventarla) e lentamente. Lei mi risponde con tono sofferente e sembra che sia più in sé: sento che il puzzle corporeo - mentale si è ricomposto, anche se di lì a poco, improvvisamente, regredisce. Sento che le parole non sono sufficienti e decido di andare oltre il mio solito setting, attuando un intervento attraverso il contatto fisico. Decido di utilizzare il tocco della mia mano, che le permetta di ritornare a percepirsi compatta e in contatto con il proprio strato epidermico, il quale funge da ponte tra il suo mondo interno e quello esterno. Mentre la tocco, la donna inizia a raccontarmi la storia della malattia del padre e nell’ascoltarla, mi rendo conto che ha ripreso contatto con la realtà. Una leggera carezza sulla schiena, una piccola pressione fanno sentire il familiare non più solo con il proprio dolore.

Mi sono chiesta, dopo questo intervento, se esista, in questo caso, un confine tra il “patologico” e il “normale”, se esista un patologico, se esista un normale, se si possa formulare una diagnosi. Estendo la mia riflessione alle varie esperienze in PS, e mi chiedo in quanti casi le reazioni delle persone siano dettate dall’evento contingente e quanto ci siano, se ci sono, dei precedenti più sul versante del disturbo psicologico. Infine, rifletto su quanto sia utile e necessario entrare nella sfera personale dell’individuo, in quell’unico momento, fino a dove spingersi e quali altri elementi guardare.

Sulla terra di confine

Un esempio di come muoversi in questo confine sottile ed un setting poco definito, come quello finora descritto, si trova nel caso riportato di seguito.

Mi trovo in una saletta generalmente dedicata ad utenti che già sono stati visitati una prima volta e che sono in attesa di accertamenti. Ci sono solo due pazienti, uno dei quali accompagnato dalla figlia. Sto parlando con una signora anziana, quando entra un'infermiera che spinge un uomo su sedia a rotelle. L'infermiera mi chiede se sono una delle psicologhe e, allontanateci, mi dice se posso parlare con il paziente e raccogliere informazioni, poiché l'uomo è privo di documenti ed è arrivato in PS in seguito ad una rissa.

Rientro nella saletta, mi scuso con la signora con cui stavo parlando pochi minuti prima e mi rivolgo all'uomo. Mi presento, gli spiego il mio ruolo in PS e gli faccio qualche domanda. E' straniero. E' di poche parole. Presenta escoriazioni alle mani e al volto ed ha una flebo al braccio. Noto la sua aria guardinga che mi trasmette anche qualcosa d'altro, che non riesco a spiegare a parole. So di avere bisogno di prendermi il tempo per capire quanto in là posso spingermi con questa persona con le mie domande e so di dovere essere molto sincera nel dirgli perché gli sto chiedendo il suo nome. Gli spiego che c'è stata una richiesta specifica di aiuto da parte del personale del PS. Se lui può fornire il suo nome, forse possono aiutarlo un po' meglio. Mi dà un nome e cognome. Le sue risposte sono scarne. Gli domando se è da tanto tempo in Italia e se è sposato. Mi risponde che è qui da alcuni anni e che la moglie è scappata con un altro. Lo dice con tono freddo e duro, ma non rivela altro. Solo quando gli domando se ha figli, tradisce un addolcimento del volto, si forma una crepa su un viso che appare difficile da scrutare. Ha un bimbo di pochi anni, di cui mi dice il nome. Comprendo che più in là di così non posso andare. Mi allontano, riferisco al Capo Sala che è al triage: una breve ricerca al computer dà esito nullo sotto quel nome. Rientrata in saletta, dico all'uomo che se avesse bisogno o voglia di parlare, sono disponibile. Fa cenno di si col capo e ci salutiamo.

Mi allontano di pochi passi, torno a parlare con la signora anziana che stavo seguendo prima dell'arrivo di questo paziente. La mia attenzione è sulla signora ed al contempo, con la coda dell'occhio, di tanto in tanto, osservo l'uomo, silenzioso. Noto che ha un leggero tremito alla mano più malmessa e che l'avvicina al volto, alla guancia: va verso la bocca, pare voglia togliersi qualcosa dalla bocca.

C'è qualcosa di strano ma non so cosa. Monitoro la situazione. I sensi sono in allerta. Ad un tratto, l'uomo emette un forte grido e lo accompagna con un gesto violento: il braccio - libero dalla flebo – è teso verso di me. Un altro urlo. In pochissimo, il mio cervello rincorre ipotesi e verifiche, come fosse un alveare impazzito. Le domande e le risposte si affollano: “Sta avendo un attacco di rabbia e vuole scagliarsi contro di me o contro la signora con cui parlavo?” “No, è fermo e continua ad urlare.” “Ha un principio di crisi pantoclastica?” “No.” “Sta avendo un malore?” “Sì, sta avendo qualcosa di molto grave a livello fisico!”.

Mollo tutto e corro nel corridoio per chiedere aiuto. L'adrenalina scorre a fiumi, la sento nel fremito del mio corpo, la testa mantiene il controllo e la lucidità, vedo un operatore del SUEM, dico che ho bisogno di aiuto ma capisco che la mia voce non esce come vorrei. Non posso non farmi sentire. Comincio a sbracciarmi verso l'operatore e dico “Aiuto, qui, serve aiuto!”. Mi vede, molla la valigetta che porta con sé, mi segue correndo nella saletta, dove l'uomo intanto ha cominciato ad avere le convulsioni e si fa molta fatica a manovrarlo. In più c'è la flebo. La stacco dal sospensorio, seguo l'operatore, arrivano rinforzi e l'uomo viene portato in una sala d'emergenza. Tra infermieri, l'operatore del SUEM e la dottoressa in sala, ci sono almeno cinque persone che cercano, invano, di mettere a sedere l'uomo, il cui volto sta intanto diventando cianotico. Io resto fuori, sulla soglia, in silenzio ad osservare. Ad un certo punto, la dottoressa solleva lo sguardo e, accortasi della porta aperta, dice di chiuderla.

Pochi istanti, ed il mio pensiero va ai due pazienti, entrambi anziani, rimasti nella saletta e che hanno assistito a tutta la scena. Torno da loro, li rassicuro. Chiedo come stanno, mi dicono che hanno preso paura. Dico loro che anch'io ho sentito paura e che abbiamo condiviso un momento molto intenso.

Resto con il dubbio di quello che è successo all’uomo (un attacco epilettico? Un principio di ictus? Un infarto?) e di quello che è accaduto dopo che le porte si sono chiuse. Cosa ne è stato di lui? Qual era la sua storia fino a quel giorno e come si sarà svolta dopo? E' sopravvissuto?

Svolgere servizio in questo tipo di contesto, quello dell'emergenza ed urgenza, fa si che si conviva con molte situazioni che rimangono aperte, che sono appena abbozzate, ma non per questo meno significative di altre situazioni che presentano tempistiche più lineari.

CONCLUSIONI E RIFERIMENTI TEORICI

Nell’esperienza raccolta, abbiamo osservato la presenza di un movimento bidirezionale all’interno della relazione tra psicologo e paziente, e come la cura, nei nostri interventi, possa essere presa in contropiede da reazioni, da parte dei pazienti stessi, imprevedibili e violente, scollegate o disarmoniche rispetto al punto di sviluppo dell’interazione in atto. Il lancio improvviso di una “bomba” emotiva, una rivelazione apparentemente non contestualizzata e che in quel momento può non trovare margine di intervento effettivo, ci hanno fatto riflettere sul fatto che a volte anche il paziente si spinge “oltre” e che ciò va tenuto presente nei nostri interventi. Talora, il paziente trasmette la sensazione di utilizzare lo psicologo come strumento utile per “fare qualcosa” della sofferenza irrisolta e attiva, appartenente alla vita della persona “al di fuori de” l’evento che lo ha condotto in PS in quel momento. Lo psicologo, per il ruolo che riveste forse nell’immaginario collettivo, diviene il tronco a cui aggrapparsi durante un naufragio, dove l’istinto detta le azioni. Una delle sensazioni con cui si può venire, dunque, a patti è il senso di frustrazione, poiché ci si può trovare nudi di fronte ad una realtà assetata del bisogno di essere riconosciuta nella sua umanità e la propria professionalità esiste in modo diverso che nella stanza di uno studio. Spesso si riesce a realizzare in poco tempo un incontro tra il proprio e l’altrui profondo. E’ come se ci fossero un tempo ed uno spazio interiori che si creano tra psicologo e paziente, il cui confine è spostato in profondità, a livello più ancestrale, rispetto a quello del setting tradizionale. La figura dello psicologo deve essere in grado di valutare quanto è spostato e spostabile tale confine interno tra sé e l’altro, quanto sia utile trattenersi dall’andare oltre e mettere in conto la possibilità di oltrepassare impropriamente ed inavvertitamente questo confine nel qui ed ora dell’emergenza/urgenza. Di fondamentale importanza, per la tutela propria ed altrui, è il lavoro di conoscenza di sé, che sostenga lo psicologo negli interventi in un contesto simile.

In PS abbiamo osservato che si riscontra una variabile multi - dinamica, caratterizzata da imprevedibilità, flessibilità, tempestività, novità. Ciò richiede che la nostra presenza sia funzionale per trasformare in possibilità il disagio in corso per l’utente, di essere accolto e ascoltato nel suo dolore, riducendone il carico di tensione.

Nel corso di questi anni, gli incontri avvenuti con i pazienti ci hanno dato modo di valutare positivamente, attraverso un confronto critico e costruttivo, la nostra presenza in corsia. L’inserimento degli psicologi in PS, all’interno di un protocollo più strutturato, darebbe la possibilità di creare una rete di relazione sinergica con il personale ospedaliero e con le strutture del territorio. La richiesta di bisogno e di sostegno - emersa - evidenzia come un gran numero di persone ricerchi nella nostra presenza (a volte riconosciuta, a volte discussa, a volte ignorata) uno spazio di ascolto, di condivisione, di sfogo delle proprie sofferenze ed anche un aggancio verso la realtà quotidiana, che in tali contesti è stata interrotta.

Considerando il carico lavorativo quotidiano del personale ospedaliero (medici, infermieri, operatori, volontari) in contesti di emergenza/urgenza, sarebbe utile l’avvio di incontri formativi psicologici per migliorare la comunicazione tra le varie figure professionali, per ridurre il carico di stress e per diminuire gli eventuali fattori di rischio di burn out.

Riteniamo, pertanto, che il cambiamento possa avvenire attraverso una presa di consapevolezza della qualità delle relazioni e della comunicazione tra individui, in un clima che favorisca l’incontro con l’altro.

A questo punto, per svolgere qualche considerazione teorica, viene da sottolineare come l'incontro in un luogo come il PS è un incontro in cui la relazione del sé con l'altro è di capitale importanza, tanto più che il corpo sofferente (proprio o altrui) e ciò che può suscitare a livello di emozioni sono tra gli indiscussi protagonisti.

Partendo dalla teoria dell'attaccamento (Bowlby, 1976) e dalla teoria evolutiva di Stern, negli ultimi decenni si è arrivati a comprendere e a teorizzare “il ruolo fondamentale che l'altro riveste nella regolazione della sicurezza” e ad individuare “nel rapporto del Sé con l'altro, nel senso del Sé e dell'altro, il principio organizzatore primario, cioè non derivato o secondario, dello sviluppo infantile. In questa nuova ottica, che costituisce senza alcun dubbio una svolta storica sul piano teorico e metodologico, il Sé in rapporto con l'altro diventa la prospettiva organizzante fondamentale della crescita (…). “ (Cavaleri, 2003, p.157).

Ci si potrebbe porre la domanda se tale principio, valido in età evolutiva, sia da estendersi ed applicarsi quale principio organizzatore della relazione, di qualsiasi relazione, e dunque anche della interazione che si crea tra psicologo e paziente in situazione di emergenza o urgenza.

Se partiamo dalle considerazioni del neurobiologo Damasio sul rapporto esistente fra mente, cervello e corpo, attraverso la sua ricerca, si giunge alla conclusione che “sia nell'evoluzione del genere umano, sia nella crescita di ogni singolo individuo, la ragione si sviluppa attraverso la guida dei meccanismi delle emozioni e dei sentimenti o, meglio ancora, dei meccanismi di regolazione biologica, di cui emozioni e sentimenti sono l'espressione più naturale.” (Cavaleri, 2003). La razionalità viene esercitata grazie a emozioni e sentimenti e “in questa prospettiva, ciò che in genere viene definita “mente” non può nascere e sussistere senza quella cornice fondante che è il “corpo”: “... le nostre azioni migliori e i pensieri più elevati, le nostre gioie e i nostri dolori più grandi, tutti impiegano il corpo come riferimento” (Damasio, 1995, 24, Op. Cit. in Cavaleri, 2003).

Cervello e corpo interagiscono e vi è un ambiente in cui “l'organismo vive e agisce. Questo ambiente giunge all'organismo per opera del corpo in attività”. Gli scambi e le interazioni che l'organismo ha con l'ambiente avvengono “in un luogo entro il confine del corpo, quale che sia il senso (il tatto o qualsiasi altro) impegnato, perché gli organi di senso esistono in una data locazione entro la vasta mappa geografica di tale confine” (Damasio, 1995, 315-316 Op. Cit. in Cavaleri 2003).

Abbiamo dunque un corpo e un cervello in interazione, a loro volta in interazione con l'ambiente, attraverso il confine del corpo (Cavaleri, 2003).

Nell’incontro tra utente e psicologo in PS, si possono declinare varie dinamiche di interazione, tra cui “i fenomeni transferenziali non saranno che una delle modalità possibili dell'esteriorizzazione delle risonanze armoniche possibili generate dalla compresenza di due storie singole, di due campi che si incontrano e si fondono momentaneamente, di due gamme d'onde che si sincronizzano spazialmente e temporalmente. Si può immaginare che ciò che prende forma nella compresenza dell'incontro sia la sintesi di ciò che rimaneva allo stato potenziale […], alla stessa stregua di un'emittente radio che inonderebbe l'ambiente del suo flusso di parole e musica, ma non avrebbe una vera esistenza (ek-sistere) se non quando un ricevente adeguato non si fosse sintonizzato sulla giusta frequenza.”. (Robine, 2006).

Vorremmo soffermarci su quanto espresso dall'accompagnatrice di una paziente, in uno scambio di poco più di dieci minuti. Una donna sui 45 anni, medico venezuelana, che accompagnava la propria madre. In attesa di essere ammessa in uno degli ambulatori, dove stavano visitando la madre, e udendo cosa stessi facendo lì in PS, replicò con un sorriso e disse che quello che stavamo facendo era importante. Aggiunse anche, all'incirca: “Nei nostri ospedali non abbiamo quasi nulla, i mezzi tecnici scarseggiano, spesso i parenti dei pazienti portano loro da mangiare e li assistono. Voi qui siete molto avanzati tecnologicamente, ma avete da recuperare il contatto umano. Continuate così”.

Desideriamo concludere ricordando un contributo di Bleger, nel quale egli sottolinea l’importante impegno di psicologi a rimanere nel campo istituzionale, osservando il coraggio e la responsabilità di gestire le risorse proprie ed altrui, utilizzando il sapere psicodinamico sui gruppi e le istituzioni in modo da non subire i meccanismi primitivi, ma per poter avviare processi di trasformazione e prevenire eventuali disturbi primari. Tutto questo agevolato grazie ad una significativa preparazione di tipo sia professionale che personale, la quale possa cedere, all’esperto stesso, strumenti utili a fronteggiare qualsiasi evento e/o reazione improvvisi, siano essi mentali o fisici.

BIBLIOGRAFIA

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