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PSYCHOMEDIA
CICLO VITALE
Identità di Genere



Il femminile in Cosa Nostra

Francesco Flocca* e Serena Giunta*


*Psicologo. Interno Cattedra di Psicologia Clinica Università di Palermo (Prof. G. Lo Verso)


Mogli, madri, figlie, amanti...donne fedeli ad oltranza; fedeli ad un mondo regolato da ferree leggi che ne de-formano la loro stessa identità.
E’ possibile paragonare la questione del femminile in Cosa Nostra ad un raccordo anulare ove confluiscono tutte le arterie più segrete, più misteriose di questo mondo criminale "maschile". Un luogo comune voleva che le donne siano ignare delle attività degli uomini della famiglia. Nella cultura mafiosa tradizionale, infatti, la donna è sempre stata estraniata dall’organizzazione Cosa Nostra, all’interno della quale non le era riconosciuto alcun ruolo, ma le leggi dell’inconscio ( ed anche la cultura dell’omertà familiare) si oppongono all’apparenza e ci dicono che esse in qualche modo siano sempre state consapevoli di quanto accadeva loro intorno. Oggi si ritiene che le donne, non solo sappiano dell’attività criminale del marito, ma che costituiscano una “centralità sommersa” all’interno dell’organizzazione mafiosa (Principato T., 1997)
Nonostante questa apparente esclusione e non riconoscimento del femminile all’interno di Cosa Nostra, bisogna tenere presente che l’organizzazione possiede un nome di genere femminile (“Mafia”, “Cosa Nostra”, “Famiglia”, “Cupola”), e rivela al suo interno una gerarchia di tipo familiare che rimanda continuamente
all’ immagine protettiva della figura materna, infatti l’uomo d’onore è appellato come mammasantissima e gli affiliati picciotti. Nella cultura siciliana, che evoca la cultura matriarcale, caratteristica dell'area mediterranea, la donna-madre offriva rassicurazione e accudimento e legava indissolubilmente gli individui alla propria famiglia.
Il ruolo fondamentale della donna di mafia diviene cruciale nel momento in cui si cerca di osservare il fenomeno mafia da un punto di vista psicodinamico; molti dati rilevanti contrastano la convinzione che l’universo psichico di Cosa Nostra sia attraversato da atteggiamenti misogini. Vogliamo dire che da un punto di vista psichico le donne hanno sempre avuto un grande potere dentro questo mondo. La misoginia può essere casomai evidenziata, dal punto di vista della modernità occidentale, nell’esclusione delle donne (ma in un certo senso anche degli uomini) dal mondo delle relazioni extra familiari, da quello della soggettività e da quello della sessualità.
L’analisi del ruolo ricoperto dalla donna all’interno dell’organizzazione Cosa Nostra porta alla luce quattro tipologie fondamentali dell’essere donna: madre, moglie, figlia, amante.
La letteratura psicologica ha evidenziato come il rapporto con la madre, e con tutto il mondo familiare, permetta la fondazione della vita psichica: la madre è il veicolo privilegiato per la trasmissione dei modelli mentali condivisi dalla collettività che concepisce il nascente.
Nella famiglia mafiosa i figli vengono cresciuti dalla madre che in-forma la loro identità personale ed il loro destino di futuri uomini d’onore e future matri ri famigghia..
“Crescere il proprio figlio nell’illusione della sua supremazia significa per la donna legarlo a se, fargli da testimone, da garante di questa superiorità, alla quale lei partecipa illusoriamente a titolo di madre, significa però anche istillargli,confermargli un disvalore, latente o manifesto, del femminile. Valorizzando in questo modo il materno, le madri contribuiscono a devalorizzare il femminile, le donne” (Siebert R., 1994). In questo modo ella spinge i figli maschi verso un destino di violenza e di morte e le figlie femmine verso un destino di donne-madri custodi della stabilità familiare e garanti della supremazia dei maschi. In queste condizioni, è la “madre-istituzione” l’elemento fondamentale della trasmissione del pensiero mafioso ed assume all’interno della famiglia il significato temibile di istituzione totale: la sola che detiene il potere di vita e di morte (madre-istituzione-famiglia) ( Fiore I., 1987).
Per la donna appartenente ad una famiglia mafiosa, appunto per il ruolo che a lei è istituzionalmente assegnato, riveste una importanza fondamentale essere madre, a tal punto che è esemplificativo il caso, drammatico di Vincenza Marchese (Proc. di Palermo, interrogatorio di A. Calvaruso, 23/10/96), che si è suicidata perché non aveva figli. Ella, inoltre rimproverava il marito, il boss Leoluca Bagarella, addossandogli questa colpa come punizione divina per aver ordinato di uccidere il piccolo Di Matteo, figlio del pentito Santo Di Matteo.
Secondo la descrizione di T. Buscetta, la moglie del mafioso è lo stampo del marito. Non parla, perché addestrata a tacere e a restare chiusa nel suo mondo; e non si sa fino a che punto è infelice (Biagi E., 1986). Le donne sono, però, apparse anche sulla scena pubblica per difendere l’onore dei loro cari. Emblematiche di questo universo femminile sono le parole espresse dalle mogli di alcuni uomini d’onore.
Mariella Teresi, moglie di Bontade, pochi giorni dopo la morte del marito : “Ha letto cosa hanno scritto di lui i giornali? Ebbene, io sono orgogliosa di essere stata sposata a un simile grande uomo.
La compagna del latitante Bernardo Provengano, Saveria Palazzolo, in stato interessante, chiamata dai carabinieri per sapere dove fosse nascosto il marito rispose: “Ma scusate ,i figli si fanno solo con i mariti?”
Antonina Brusca, dopo l’arresto dei figli dichiarò ai giornalisti: “Io i miei figli li ho tirati su bene, con la religione”.
Come si può ben vedere da queste storie, nella famiglia mafiosa il senso di appartenenza ad una storia ed il compito di continuare a replicare la stessa trama si declina secondo modalità fondamentaliste, intediamo dire che la famiglia perpetua ed eternizza se stessa nella trasmissione di modelli identificatori a “nascenti” predisposti ad accoglierli, attraverso l’utilizzo del potere genitoriale.
Ma come afferma A. Caleca (1999), Cosa Nostra è un fenomeno criminale che sta modificandosi, si adatta ai cambiamenti che dalla realtà esterna vengono imposti; a questo adattamento verso l’esterno concorrono determinati accomodamenti interni. Nel nostro caso sembra di assistere ad un processo emancipativo del ruolo femminile all’interno dell'organizzazione mafiosa, sembra stia mutando il modo di essere donna all’interno della “famiglia”.
Le indagini condotte negli ultimi anni hanno fatto emergere che ruoli di primaria importanza, tradizionalmente affidati da Cosa Nostra solo dagli uomini, vengono gestiti con competenza anche dalle loro mogli. Emblematici i casi di M. Catena Cammarata, sorella di Pino, capo della famiglia di Riesi; di Carmela Scalisi, figlia di Antonino, patriarca mafioso di Adrano che hanno consentito la sopravvivenza dell’associazione in assenza dei loro cari. Di maggiore spessore la figura di Giuseppa Vitale, sorella di Leonardo, Vito e Michele, boss del mandamento di Partitico, il cui ruolo di spicco all’interno dell’organizzazione Cosa Nostra viene confermato anche dai collaboratori di giustizia (Principato T., 1999).
Un caso eclatante dell’influenza che la consorte, oggi, esercita sul marito mafioso lo si evince dalla testimonianza di Maria Fedela Bologna, moglie di Antonino Guarino uomo d’onore vicino alla famiglia dei Vitale. La donna esprime nel corso di un interrogatorio la conflittualità causata dalla sua richiesta al marito di non portare a termine l’esecuzione di un omicidio ordinatogli dalla famiglia di appartenenza
(Lo Verso G., Lo Coco G., 2003).
Mafiosi si nasce e si diventa! Si nasce mafiosi in quanto è difficile entrare a far parte di Cosa Nostra se non si appartiene ad una famiglia mafiosa. Si può diventare mafiosi per “educazione”, per convinzione, per costrizione, per paura, per ignoranza, per numerose altre ragioni che il complesso mondo delle anomalie sociali di una realtà storicamente definita, continuamente produce e riproduce; “il mafioso viene costruito” (Lo Verso G., 2003).
Dalle varie esperienze cliniche con soggetti appartenenti a famiglie mafiose è emerso che in questo tipo di famiglia non è inconsueto, negli ultimi anni, trovarsi in presenza di adolescenti che vivono con sofferenza la possibilità di crearsi una propria identità, differente, a volte, dal già istituito familiare (Lo Coco G., 1999). Questo quadro potenzialmente psicopatogeno è determinato in questi soggetti dalla presenza di una realtà sociale in cui vigono modelli e valori trasmessi dalla cultura di massa radicalmente in antitesi a quelli del loro mondo familiare: la scuola, la TV, il gruppo dei coetanei (Zizzo G., 1999).
Un cordone ombelicale, difficilmente troncabile tiene uniti i figli alle “famiglie”.
Emblematico della forte presenza di un modo tradizionale di essere figlia all’interno di Cosa Nostra è il caso di Maria Concetta Riina che in un’intervista a “Panorama” (n° 48, 1995) non ha avuto la minima incertezza nel definire il padre “Don Totò”, “il migliore dei padri possibili, vittima dei pregiudizi di una società ostile”.
Per quanto riguarda un modo alternativo, rispetto ai codici di Cosa Nostra, di vivere da adolescente all’interno di queste famiglie vogliamo citare due casi. Il primo riguarda la storia di Laura, figlia di un mafioso, che infrangendo il codice dell’omertà ha accettato di parlare di sé e della propria famiglia d’origine mafiosa tanto da affrontare, durante il colloquio, argomenti che fino ad un decennio addietro erano tabù, e rientravano nell’ordine del “non detto”.
Di maggiore impatto è la storia di Maria, appartenente ad una “antica” famiglia mafiosa, di un quartiere di Palermo. Per Maria non è semplice raccontare la sua storia e allo stesso modo le è complesso riattraversare quei passaggi pregnanti della sua vita che tanta sofferenza le hanno procurato, ma qui “la fede in Dio” è stata la sua unica forza che le ha permesso di andare avanti, che le ha dato il coraggio di lottare ogni giorno; ma la caduta del monolitismo di Cosa Nostra nell’immaginario di Maria subentra alla morte di suo padre, ucciso dalla stessa organizzazione, e alla successiva scomparsa di suo fratello a due mesi dalla morte del padre . L’aspetto “alternativo” che rende queste due storie differenti dalle altre riguarda la possibilità di riattraversare e rielaborare quei codici familiari saturi che erano stati tramandati ad entrambe, consentendo loro una possibilità di “pensiero su” (Lo Verso G., 1998)
Non esistono solo questi due modi di essere donne in Cosa Nostra, realmente vi sono tanti modi quante sono le storie uniche ed irripetibili di queste donne; certamente di interesse particolare risulta essere il ruolo ricoperto dalle amanti.
Le amanti di mafia sembrano sicuramente dotate di maggiore autonomia e libertà di pensiero, a differenza delle donne-mogli di mafia le quali devono essere scelte con cura all’interno dell’elite mafiosa perché saranno loro, con il loro comportamento, le garanti dell’onore della famiglia, il tradimento infatti è punito con la morte; esempio agghiacciante è l’uccisione di Rosalia Pipitone ad opera del padre il boss dell’Arenella, quartiere di Palermo, Antonino Pipitone poiché aveva avuto una relazione extra coniugale.
Le amanti di mafia sono donne che riescono a mettere nella relazione con il proprio uomo (mafioso), connotazioni affettive qualitativamente insature, ovvero attraversate da quote di personalità fondate sull’autenticità, e non sull’identicità con i codici “familiari”. Dal punto di vista psicodinamico sono donne che si pensano più come soggetto, che riescono a prendere distanze dal modello dogmatico della matri ri famigghia. Da questo punto di vista sembrerebbe che gli uomini riscoprano con le amanti un rapporto più intimo, fondato anche sulla “parola”: alle amanti si possono raccontare cose non narrabili alla madre dei propri figli. In molti casi, infatti, le mogli riferiscono di fatti soltanto intuiti, proprio perché il marito non si confida apertamente con loro, mentre le amanti spesso apprendono le verità dalla voce dei loro uomini (Camassa A., 1998).
Una nota a parte merita il rapporto tra donna e pentitismo poiché accomuna tutte le tipologie fino a qui trattate. Nella decisione degli uomini di collaborare un ruolo preponderante spetta alle donne e sicuramente pesante influenza è stata esercitata dall’universo femminile sul fenomeno dei collaboratori di giustizia. Sono state le donne spesso ad impedire all’ultimo momento la decisione di collaborare; sono state le donne a tacciare di infamia i propri figli o mariti che collaborano con lo stato; sono state queste donne che di fronte all’infamia e all’abbandono della “famiglia” hanno optato per la morte. Vanno ricordate a riguardo donne come Rosalia Basile, moglie del pentito Vincenzo Scarantino, la quale ha ripudiato il marito pubblicamente al punto di rivelarne l’omosessualità, il massimo disonore per un mafioso; Rosa Vernengo, moglie di F. Marino Mannoia, che chiede, con il totale consenso del padre, la separazione dopo il pentimento del marito, ripudiando la sua identità di moglie di un infame salvaguardando l’identità forte dettata dal suo cognome. Diversa è la storia di Agata Di Filippo, sorella di Pasquale ed Emanuele uomini d’onore che hanno deciso la di collaborare con lo Stato, la quale ha tentato di suicidarsi a causa della perdita dell’onore di donna di Cosa Nostra; più drammatica la storia di Vincenza Marchese conclusasi col suicidio, causato anche dalla vergogna di avere un fratello pentito.
Il fenomeno della collaborazione ha implicato anche figure femminili in prima persona, donne che alla stregua di Pandora hanno aperto il vaso e svelato all’esterno le atrocità compiute dalla Grande Famiglia; sono i casi in cui essendo gli uomini della famiglia “posati” (abbandonati da Cosa Nostra) o uccisi, le donne si affidano all’unica istituzione, alternativa a Cosa Nostra, in grado di soddisfare il loro desiderio di vendetta: lo Stato.
Rientra in questa tipologia di donne di mafia Rita Atria che collabora con la giustizia dopo la morte del padre, uomo d’onore della famiglia Accardo, e del fratello; simile la decisione della cognata, Piera Aiello, la quale non provenendo da una famiglia mafiosa ha trovato minori ostacoli alla sua decisione di collaborare .
Diversa risulta essere la modalità di rapportarsi col fenomeno del pentitismo riscontrabile nell’ amante, una donna soggetto e non donna istituzione, della quale è possibile innamorarsi e costruire un rapporto intimo. In diversi casi sono state le amanti ad aiutare uomini come Buscetta, Mannoia, Drago a collaborare con la giustizia (Scarpinato R., 1998).
Anche in questo caso la collaborazione con la giustizia può nascere dal sentimento della vendetta nei confronti di chi ha ucciso la persona amata come soggetto, e non verso chi ha ucciso la persona che incarnava l’onore della “famiglia”.
Dall’analisi di questi casi si può sicuramente affermare che anche la mafia ha conosciuto nuove realtà, nuovi valori familiari, che “forse” ne hanno incrinato la dogmatica e tradizionale stabilità ed è proprio questo “forse” che non ci consente di mettere un punto in questa pagina in continua trascrizione.

Bibliografia

Biagi E., 1986, Il boss è solo, Mondadori, Milano.

Caleca A. (1999), Cosa Nostra: una realtà in trasformazione, , in Lo Verso G. et al. (a cura di) Come cambia la mafia.Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambia, Franco Angeli, Milano.

Cigoli V. (1997), Intrecci familiari, Milano, Unicopli.

Fiore I.,1997, Le radici inconsce dello psichismo mafioso, Franco Angeli, Milano.

Lo Coco G. (1998), Famiglia e crisi del pensiero familiare nello psichismo mafioso, Terapia familiare, 56, 61-72.

Lo Verso G.(a cura di), 1998, La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano.

Lo Verso G., Lo Coco G., Mistretta S., Zizzo G. (a cura di), 1999, Come cambia la mafia.Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambia, Franco Angeli, Milano.

Lo Verso G., Lo Coco G.,2003, La psiche mafiosa. Storie di casi clinici e collaboranti di giustizia, Franco Angeli, Milano.

Principato T. (1999), Lo psichismo mafioso femminile fra tradizione e trasformazione, in Lo Verso G. et al. (a cura di) Come cambia la mafia.Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche in un paese che cambia, Franco Angeli, Milano.

Siebert R. (1994), Le donne, la mafia, Il Saggiatore, Milano.


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