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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Terza Età



Lavorare con i "vecchi": difficoltà e prospettive

Antonio Zuliani



Pochi temi, come quello della vecchiaia, sono rimasti per molto tempo relegati ai margini dell'elaborazione culturale moderna e risentono di luoghi comuni, anche tra molti addetti ai lavori. Per esempio, si sente spesso auspicare il ritorno ad una sorta di "età dell'oro" durante la quale la vecchiaia sarebbe stata onorata e rispettata.
Al di là della dubbia veridicità di questa affermazione, si tratta comunque di una semplificazione del problema che dimentica che, se il vecchio ha avuto in passato un ruolo rilevante nella società, ciò è stato possibile all'interno di una collettività statica, dove il suo patrimonio culturale si poteva identificare con quello della comunità che lo circondava. Oggi in un assetto sociale dinamico nessuno, né vecchio né giovane, sembra essere più in grado di assumere questo ruolo.

Quindi appare indispensabile affrontare il problema con molto realismo, visto che certamente quello della vecchiaia è un fenomeno sociale moderno e in continua espansione. Basti pensare che l'O.M.S. prevede per il 2020 un aumento della popolazione mondiale del 95% rispetto al 1980, mentre la popolazione anziana crescerà probabilmente del 240%: Inoltre, non solo il numero degli anziani cresce, ma tra di essi c'è un numero sempre crescente di persone che vive più a lungo in una situazione di malattia e che, quindi, ha sempre più bisogno di servizi sanitari e sociali.
Come scrive Dario Bellezza: "Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità / avanza tremenda / vecchiaia e dura / un eternità"

Questo breve flash demografico è utile per illustrare una difficoltà, forse poco consapevole, che tutti incontriamo nell'affrontare con lucidità la questione dei vecchi: oggi parlare dei vecchi del 2020 significa, parlare non tanto dello sviluppo del nostro lavoro, della nostra identità futura di operatori, ma di noi stessi come utenti. Questo perché i vecchi del 2020 non siamo altro che noi, oggi professionisti di mezza età: trattando questi argomenti parliamo di un futuro che è al contempo degli altri, ma anche nostro.

La difficoltà a vedersi da vecchi e/o come vecchi si evidenzia anche nella scarsa riflessione culturale che vecchi intellettuali e politici producono. Loro preferiscono discutere del loro passato o offrire i loro saggi consigli sul presente, piuttosto che parlare della loro situazione presente. Oppure come illustri precedenti hanno voluto vedere nella vecchiaia un'età comunque positiva e densa di virtù, così Cicerone nel suo "De senectute" scritto nel 44 A.C., oppure Paolo Mantegazza che alla fine dell' '800 scrive l' "Elogio della vecchiaia".

Una delle poche eccezioni italiane la ritroviamo nel libro di Norberto Bobbio "De senectute", nel quale l'autore, parafrasando un detto di Erasmo da Rotterdam, che diceva "Chi loda la guerra non l'ha mai vita in faccia", afferma "Chi loda la vecchiaia non l'ha mai vista in faccia".
Bobbio scrive: "La vecchiaia è l'ultima fase della vita, raffigurata per lo più come quella della decadenza, della degenerazione, della parabola discendente di un individuo, ma anche, metaforicamente, di una civiltà, di un popolo, di una razza, di una città. In una visione ciclica è il momento in cui il ciclo finisce. L'inverno è raffigurato, infatti, come un vecchio cadente che cammina faticosamente sotto la neve. Un popolo vecchio è un popolo destinato a essere assoggettato da un popolo giovane, barbaro, senza storia. Nella diade giovane-vecchio, "giovane" denota il lato positivo dell'intero, "vecchio" il lato negativo. Il novello Adamo viene contrapposto al vecchio uomo che dovrà essere rigenerato. L'ordine nuovo da instaurare si contrappone all'ordine vecchio da lasciare seppellire sotto le macerie" (pag 41-42)

Questa analisi mostra impietosamente come tutta la strutturazione della nostra civiltà sia volta a negare al vecchio ogni futuro: fino al punto da fare ritenere che occuparsi professionalmente di queste persone possa essere considerato un lavorare "a perdere".

Sotto questa luce viene illuminante una pagina di Daniel Pennac, in "La fata carabina", quando , descrivendo la particolare attività di Thérèse con gli anziani ospiti della casa del protagonista, scrive:
"Ogni volta che un vecchio sbarca da noi, completamente a pezzi, convinto di non essere più niente prima ancora di essere morto, Thérèse lo attira nel suo angolo, gli prende d'autorità la vecchia mano, stende ad una ad una le dita arrugginite, liscia a lungo il palmo come si fa con i fogli spiegazzati, e quando sente che la mano è perfettamente distesa (mani che non si sono veramente aperte da anni!), Thérèse si mette a parlare. Non sorride, non blandisce, si limita a parlargli del futuro. Ed è la cosa più incredibile che potesse capitargli: il futuro!" (pag. 19).
Questo è l'atteggiamento assistenziale che, a pagina 188, farà esclamare al medico Marty, di fronte alla morte di Nonno Verdun. "E' la prima volta che vedo un paziente morire con l'avvenire davanti a sé".

Mi sembra che tutto ciò sottolinei che la precondizione per poter lavorare, a qualsiasi titolo, con i vecchi, sia quella di concepire che per loro vi sia un futuro. Tutta la condizione dell'uomo è fatta di passato, presente e futuro e l'integrità dell'identità personale sta proprio nella possibilità di comprendere contemporaneamente queste tre dimensioni al proprio interno.
Quindi la vecchiaia non è altro che una continuazione dell'età adulta, senza alcuna particolare scissione tra l'una e l'altra età della vita.
Vi sono dei versi di Dylan Thomas molto illuminanti in proposito: "La giovinezza chiama la vecchiaia attraverso gli anni spossati: / 'che hai trovato?', le grida, 'che hai cercato?' / 'Quello che tu hai trovato', risponde la vecchiaia, lacrimando, / 'quello che tu hai cercato'".

Questa visione ci permette di cogliere come vi siano molti modi di vivere la vecchiaia, così come vi sono molti individui che vivono la loro vecchiaia.
Questo vale sia se osserviamo la situazione dal punto di vista della situazione dell'autonomia personale (si va da soggetti che vivono in modo sufficientemente autonomo a persone gravemente non autosufficienti), sia se prendiamo in considerazione l'incidenza di alcune forme patologiche ancora poco esplorate (ad esempio le demenze di tipo Alzheimer), sia se vediamo il vecchio come persona alle prese con la propria personale struttura di identità.

Ecco allora un primo fondamentale obiettivo di ricerca: elaborare una visione scientificamente corretta di questa età della vita, comprendendo tutte le discipline e le visioni che possano in qualche modo illuminarla.

Questa idea è ribadita con forza dall'Organizzazione Mondiale della Sanità che nel rapporto di Ginevra scrive: "La prevalenza di parecchi problemi di salute mentale aumenta con l'età. Ciò è in parte dovuto a mutamenti organici, in parte è da attribuire alla prevalenza crescente di disturbi fisici che impediscono la funzionalità del cervello, ed in parte agli stress ambientali e psicologici che affliggono gli anziani più spesso che i giovani. La perdita dell'autonomia, la perdita di una persona cara, la povertà e l'isolamento sono esempi ben noti. Ciò nonostante le indagini rivelano che gli anziani sono per la maggior parte mentalmente sani.
Molti disturbi mentali possono iniziare a qualunque età; la maggior parte dei disturbi che colpiscono gli anziani non è dovuta all'invecchiamento, e si sono osservati decorsi e reazioni ai trattamenti identici a quelli di soggetti più giovani. Nonostante ciò, è assai diffusa l'opinione che la malattia mentale negli anziani sia inevitabilmente progressiva e che la terapia possa essere soltanto sintomatica. E' molto importante sradicare tale preconcetto, che spesso conduce ad un nichilismo terapeutico".

Accettare appieneo questa prospettiva richiede anche un altro livello di riflessione che consiste nel considerare cosa significa occuparsi non più di bambini o di coetanei , bensì di persone più vecchie di noi, che in qualche modo riecheggiano la nostre stesse figure parentali all'interno di una sorta di rovesciamento di ruoli secondo i quali è il figlio che si occupa del genitore.

Pensiamo in proposito al vissuto riguardante la quantità e la qualità di "felicità" che si è disposti a riconoscere ai vecchi: si vorrebbe un vecchio "felice", ma con moderazione.
Come già scriveva Shakespeare, nell'Enrico IV: "Se essere vecchi e allegri è una colpa, allora molti vecchi ospitali ch'io conosco saranno dannati".
Ho l'impressione che la riluttanza e le resistenze nell'affrontare la problematica sessuale con gli anziani, specialmente all'interno delle istituzioni chiamate ad assisterli, possa essere dovuto anche ad una sorta di precipitato controtransferale legato alle angosce e ai pregiudizi che anche noi psicologi (Hinze, 1987) abbiamo di fronte a pazienti che, per citare Kernberg (1984), "per il loro stesso aspetto, attivano conflitti parentali universali e minacciano i conflitti generazionali collegati a profondi tabù infantili". Mi sembra infatti che si stia cominciando a parlare della sessualità dei vecchi, ma ci si premunisca del fatto che comunque noi non ne saremo mai coinvolti.

Questi ordini di difficoltà riemergono anche nei riguardi delle famiglie degli anziani dei quali siamo chiamati ad occuparci; famiglie composte da persone, quanto meno, di mezza età, se non addirittura esse stesse vecchie, che sono drammaticamente chiamate a decidere del destino dei propri vecchi.
Chi lavora in strutture di ricovero per anziani, per vedere una prima porzione di questo problema, affronta ogni giorno il dramma di queste famiglie chiamate a decidere se ricoverare o meno il proprio genitore.

Halpert, in un articolo comparso nel 1991 su "The Psychoanalytic Quarterly", basandosi sul materiale ricavato dal trattamento di alcuni pazienti di mezza età segnala come siano assai comuni le fantasie che equiparano l'idea di ricoverare un genitore in casa di riposo al suo abbandono o alla sua uccisione, così come lo è la minaccia narcisistica connessa col fatto di riconoscere il proprio stesso destino e la propria futura morte nel deterioramento di uno o di entrambi i genitori.
Tra gli aspetti di realtà che svolgono un ruolo importante nella vicenda l'autore indica la qualità della relazione che la persona ha avuto nel corso degli anni con quel genitore, la presenza o l'assenza di fratelli o di altri parenti con cui condividere l'esperienza emotiva oltre che la responsabilità della decisione da prendere, i suoi aspetti finanziari (la distanza geografica dai genitori, la loro possibilità economiche), i sentimenti del coniuge e dei figli di colui che deve prendere la decisione, nonché la sue personali condizioni di salute fisiche e psicologica.

Questo approccio prefigura un ulteriore inciampo professionale, che si colloca all'interno di uno di quei compiti che nessuno riesce a padroneggiare del tutto: quello di accettare che il tempo della vita, anche della nostra vita e delle persone che amiamo, ha un termine; un tema che il lavorare con i vecchi rende sempre attuale.
Nel nostro caso, questa banale riflessione si viene a collocare all'interno di un gruppo di professionisti che, a vario titolo, si sentono chiamati a lavorare per il benessere della persona, per contribuire al suo vivere bene, che sembra quanto più distante dall'idea stessa della morte.
Searles sostiene che se il terapeuta si pone l'obiettivo di aiutare il suo cliente ad affrontare i problemi fondamentali della vita, egli si troverà ad un certo punto ad affrontare la realtà della morte. E, nell'aiutare il cliente ad accettare questa realtà, il terapeuta deve necessariamente analizzare il significato esistenziale che per lui personalmente riveste la morte.
Pur partendo da approcci diversi, anche Eissler ritiene che l'aiuto del terapeuta deve far leva sul sentimento di compassione e di profonda comprensione dei bisogni del paziente fino a fargli sentire che egli si identifica con lui nell'affrontare la morte. D'altro canto Eissler ritiene che la morte sia sempre di origine psicologica e che la morte, qualsiasi forma assuma, comporti sempre da parte dell'Io la decisone, per così dire, di morire.
Ho ricordato questi due autori per affrontare questo tema, perché la morte, più di ogni altro evento della vita ci ricorda che il nostro ruolo, come osserva Berger, deve spostarsi da quello del "guarire" (ideale narcisistico) a quello del "curare" (investimento d'oggetto), e nessuno più di un morente ha bisogno di essere "curato", cioè di essere tutelato nel suo bisogno di mantenere una relazione stabile con qualcuno.

Il fatto è che la morte è un problema a lungo negato nella nostra riflessione professionale.
E' ben vero che Freud ne ha parlato a lungo: secondo lui il nostro inconscio sarebbe inaccessibile all'idea della propria morte, come se la sua rappresentazione fosse inimmaginabile. Freud era convinto che l'inconscio non potesse concepire la morte come fatto naturale, ma solo attraverso la possibilità di essere uccisi. La morte esisterebbe solo per gli altri: quella dei nemici è desiderabile, quella delle persone care provocherebbe reazioni ambivalenti.
Tale massa di riflessioni non ha avuto in seguito altrettanta attenzione non tanto per i significati simbolici e le sue relazioni con i sentimenti di colpa, ma proprio in quanto aspetto concreto della realtà.

D'altra parte la morte è l'unico momento della nostra vita del quale non possiamo parlare con cognizione di causa perché di essa non abbiamo esperienza, non possiamo raccontare la nostra morte. A ben vedere nessuno è in grado di raccontare la morte fino ai suoi ultimi dettagli: possiamo ripeterci le ultime parole del defunto, il suo ultimo gesto, ma l'istante della morte ci resta comunque sempre inaccessibile.
Questa ambivalenza di una morte negata e di una morte non conosciuta ci può però spingere ad affrontare il problema da un'altra direzione: la direzione della vita, proprio perché la vita non può essere pensata senza la morte.
Canetti scrive "Quante persone scoprirebbero che vale la pena di vivere una volta che non dovremmo più morire?". Questo stretto legame tra vita e morte ci suggerisce anche la riflessione che non si può vivere bene se non si impara a morire, in fondo possiamo dire con Bobbio che "rispetta la vita chi rispetta la morte".

Quanto osservato ci indica come la via per aiutare i vecchi di fronte alla morte sia quella di favorire l'elaborazione del loro lutto.
Ora noi sappiamo che tra lutto e depressione vi è una profonda differenza: il lutto è un vissuto fondamentale della psiche, come osservava Racamier è un organizzatore della psiche, mentre la depressione è una malattia che contiene una sofferenza psicologica
La depressione può risultare da un lutto che l'Io non può fare, è l'aborto di un processo di lutto.
Per affrontare il problema del lutto è necessario comprendere sia l'individuo che il suo ambiente, proprio perché esso si colloca nel registro dell'interazione. Non a caso il soggetto cerca spesso di sfuggire dall'elaborazione del lutto e di spostarle sugli altri.
Pensiamo al caso di una madre a cui muore un bambino, ella non sopporta il dolore che si propone al suo Io, non sopporta di ammettere di non aver potuto conservare il bambino e per impedire il lutto concepisce immediatamente un altro figlio dandogli il nome del bambino morto. In questo modo questa donna si aspetta che il nuovo bambino sostituisca quello morto e questo bambino avrà il compito irrisolvibile di elaborare il lutto del suo predecessore, non potrà mai essere se stesso.

Questo esempio estremo ci mostra una via di lavoro spesso dimenticata con gli vecchi che sta proprio nell'aiutarli ad elaborare i loro lutti, perché il lutto non è necessariamente legato alla perdita di un'altra persona, ma riguarda tutto ciò che costituisce una perdita (illusioni, funzioni, capacità, separazioni da un luogo. ecc.).

Riconoscere la perdita non è facile tanto che lo stesso Freud osservava (1915) "l'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia ad esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si leva un'avversione ben comprensibile; si può infatti osservare invariabilmente che gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li invita a farlo", pensiamo quanto più difficile sia il compito quando non sia immediata la presenza di un sostituto all'oggetto perduto.
Questo lavoro porta alla interiorizzazione dell'oggetto perduto e quindi si produce una certa rigenerazione e riorientamento della vita psichica e questo è così fondante che possiamo dire che dopo un lutto l'individuo non è più come prima, e questo non solo per effetto della perdita, ma perché ha investito libidicamente un altro oggetto, ha costruito nuove relazioni significative.

Spesso diciamo che la saggezza del vecchio consiste nell'accettare i propri limiti, magari con rassegnazione. Ma questa idea dimentica due passaggi importanti: per accettare i propri limiti occorre conoscerli e per poterli conoscere occorre farsene una ragione. Ora essere di fronte ai propri limiti non significa affatto che questi passaggi siano stati compiuti.
Quando ho iniziato a lavorare con i vecchi sono stato tempestato di richieste di intervento da parte dei medici dell'Istituto, esse erano per lo più formulate nel seguente modo: si richiede interventi psicologico per persona non collaborante. Questa non collaborazione verteva per lo più sul rifiuto del vecchio di sottoporsi a terapie riabilitative o nell'accettare disposizioni sanitarie. Quanta fatica per inserire in quella struttura l'idea che nessuno può accettare di essere riabilitato se non si sviluppa prima un desiderio in questa direzione: perché un vecchio fratturato o emiplegico dovrebbe sottostare ad un lungo e faticoso processo di riabilitazione se non ha un posto dove andare e un buon motivo per andarci?

Questo lavoro sul lutto appare uno dei cardini del lavoro con i vecchi, perché è un processo che porta alla interiorizzazione dell'oggetto perduto e quindi è in grado di produrre una certa rigenerazione e riorientamento della vita psichica. Dopo questo processo la persona non è più quella di prima, non solo per effetto della perdita subita, ma anche perché è riuscita ad investire su un altro oggetto.
Questo lavoro sul lutto mi sembra la traduzione professionale di quella pagina di Pennac, di cui parlavo precedentemente, la possibilità di fornire un futuro ai vecchi.

Poi c'è l'avvicinarsi della morte, e a questo proposito credo che il miglior commento lo si possa ricavare da quanto scrive Zorn, il quale, citando Bulgacov, racconta del problema delle mosche e della morte di Gesù. Le mosche, diceva, non sono in sé la cosa peggiore che possa capitare per un crocefisso; ma quando il poveretto è già appeso alla croce e sta nel sangue, nei tormenti e nell'infinita desolazione dell'ultima umiliazione e per di più nella calure medio-orientale alla fine viene assalito anche da uno sciame di mosche, gli viene da dire: ci mancava anche questo!
Di fronte alla morte nessun terapeuta può porsi in modo onnipotente contro di essa, forse l'unico intervento possibile è proprio quello di allontanare le mosche.

Bibliografia

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Eissler K. (1955): The psychiatrist and the dying patient, I.U.P., New York, 1955.
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Freud S. (1932) "Introduzione alla psicoanalisi - Nuova serie di lezioni", in Freud Opere vol.XI, ed. Boringhieri, Torino, 1979.
Hinze E. (1987) "Ubertragung und gerenubertragung in der psychoanalytischen behandlung alterer patienten", Psyche, vol. 41,3,1987.
Kernberg O. (1984) "Disturbi gravi della personalità", ed. Boringhieri, Torino, 1987.
Pannac D. (...): La fata carabina, Feltrinelli, Milano ....
Racamier P.C. (1989): Lutto e creatività, conferenza tenuta a Verona il 05.04.1989.
Searles H. (1961): Scritti sulla schizofrenia, Boringhieri, Torino, 1974.
Zorn F. (1978): Il cavaliere, la morte e il diavolo, Mondadori, Milano.


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