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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Adolescenza


Riflessioni psicoanalitiche sul trattamento dell'adolescente in istituzione

Gianluigi Monniello*


Relazione presentata il 28 maggio 2007 a Roma al Convegno I.P.R.S.
L'adolescenza "liquida": Nuove identità e nuove forme di cura


Premessa

"Se l'adolescenza evoca il movimento, il mondo degli adulti si definisce in quanto statuto, o almeno così dovrebbe essere. Per l'adolescente l'adulto è l'istituzione alla quale appoggiarsi ma, al contempo, da smantellare. C'è naturale antagonismo fra gli adolescenti e l'istituzione [...] Quindi l'istituzione, allorquando designa 'l'insieme delle strutture fondamentali dell'organizzazione sociale', si contrappone all'adolescenza come tempo del divenire" (Monniello, 2005).
Scrive comunque Marty (2002): "L'istituzione dell'adolescente ha la funzione di proteggerlo, di garantirgli una stabilità, una sicurezza di fronte alla sua stessa violenza, un rafforzamento narcisistico di fronte alla minaccia della distruttività della sua adolescenza. L'istituzione permette di assicurare un lavoro di messa in latenza dei vissuti pubertari ancora troppo persecutori, troppo distruttivi, troppo traumatici per essere integrati psichicamente dall'adolescente. L'istituzione costituisce così una seconda chance per l'adolescente, una camera di compressione e di trattamento della sua violenza interna, lo spazio/tempo che offre le qualità di contenimento e di acquietamento che precisamente gli mancano. Imponendogli una costrizione spaziale e temporale, l'istituzione instaura con l'adolescente un nuovo rapporto con la temporalità psichica e si offre come una pausa, dove è possibile giocarsi un ritorno su di sé in una posteriorità fino a quel momento impossibile".
Se si guarda poi alla storia della psicoanalisi dell'adolescenza, sia a livello internazionale che in Italia, è possibile affermare che essa si è ampiamente esercitata e sviluppata proprio in luoghi istituzionali, inizialmente nell'ambito della giustizia minorile, quindi nei servizi pubblici e nel privato sociale, oltre che nella stanza d'analisi.
In particolare, è stato evidenziato come l'adolescente, impegnato nel suo processo di sviluppo, tenda naturalmente a iperinvestire il mondo esterno, il corpo e le sensazioni a scapito del pensiero e del mondo interno, nell'attesa di potersene pienamente appropriare. Controinvestito, il mondo interno non è dunque in grado di tollerare o elaborare i conflitti specifici dell'adolescenza (differenziazione, integrazione del corpo sessuato, piena utilizzazione delle nuove capacità cognitive). Essi vengono esportati in ciò che Jeammet (1980) ha chiamato "lo spazio psichico allargato", per definire lo spazio costituito da coloro (persone, luoghi, ideali, gruppi) ai quali l'adolescente affida inconsciamente questa o quella parte delle sue istanze psichiche, in questo o quel momento della sua storia. Allorquando appartiene a questo spazio, l'oggetto è investito di un ruolo suppletivo e assicura, temporaneamente e funzionalmente, una "circolazione psichica extra corporea", la cui importanza si rivela solo quando tale oggetto viene a mancare.
Questa specifica condizione è certamente un fattore di indubbia vulnerabilità per l'adolescente ma, d'altra parte, proprio su di essa può fondarsi la possibilità di realizzare degli efficaci interventi terapeutici per affrontare la psicopatologia. Ci sono le condizioni, per l'ambiente esterno, terapeuta, luoghi istituzionali e gruppo dei curanti, di partecipare allo spazio analitico allargato e appoggiare tale funzione suppletiva senza la quale ci sarebbero spesso, nell'adolescente sofferente, pochi elementi psichici mobilizzabili. Tali movimenti psichici verso l'esterno si differenziano, in parte, dal transfert, in quanto attesterebbero più il bisogno di riconoscere e consolidare il contenitore (convincimento di disporre di un proprio apparato psichico) che non i suoi contenuti inconsci affettivo-relazionali. Per esprimere le cose in forma schematica, si potrebbe dire che, in questi casi, nei quali si assiste, nell'adolescente, a un movimento di "psichizzazione" dell'ambiente per controbilanciare una "depsichizzazione"del suo mondo interno, non c'è, per chi intende mettersi al servizio dell'adolescente, altra soluzione se non quella di accettare tale movimento, assicurando le funzioni suppletive che gli sono imposte, allorquando è stato in grado di partecipare allo spazio psichico allargato dell'adolescente.
Alla luce di questo riferimento teorico si sono costruite, negli anni, diverse forme d'intervento istituzionale. Ho vissuto la grande occasione di partecipare a tre diverse fondazioni di servizi destinate agli adolescenti presso l'attuale Dipartimento di NPI di Roma: ambulatoriale e ospedaliero (inizio anni '80), quindi diurno (11 anni fa).
L'Ospedale Diurno rappresenta la forma organizzativa più diffusa e sperimentata in grado di offrire all'adolescente una terapia "attraverso l'ambiente". Di fronte al funzionamento della mente adolescente e alla sua psicopatologia, tale terapia "attraverso l'ambiente" può essere considerata come la forma di gestione della cornice psicoterapeutica, che ha per obiettivo di permettere all'adolescente di riappropriarsi del suo spazio psichico allargato, grazie al lavoro elaborativo di cui è fatto oggetto da parte dei curanti (Monniello, 2001; 2005).
Il luogo istituzionale si configura allora come un possibile grande teatro empatico, facendo riferimento allo psicodramma, intervento psicoterapeutico di grande tradizione in adolescenza, o come un possibile "sito analitico allargato", per riprendere una mia formulazione (Monniello, Spano, 2003).

"Ciò che intendo sottolineare è che l'incontro analitico con l'adolescente porta, per vie naturali, a concepire e quindi a teorizzare, al di là della coppia analitica, altri spazi psichici nei quali possa dispiegarsi e mettersi alla prova lo psichismo adolescente. La complessità organizzativa e funzionale di tali luoghi istituzionali esterni alla stanza d'analisi (ospedale diurno, casa-famiglia, comunità di tipo familiare, ospedale, comunità terapeutica) sarà direttamente proporzionale alla fragilità delle basi narcisistiche dell'adolescente. Più l'adolescente è sofferente, più è impedito nel suo processo di soggettivazione, più la relazione duale avrà bisogno di allargarsi a più organizzati contesti istituzionali, che dispongano di una "manutenzione analitica" della loro vita quotidiana. E' così che lo spazio psichico istituzionale può connotarsi come terzo, con funzioni organizzative per lo psichismo dell'adolescente e dell'analista" (Monniello, 2005).


Il lavoro dell'analista nell'istituzione per adolescenti

Ho l'impressione che il lavoro psicoterapeutico nelle istituzioni, per la pressione delle richieste esterne, della psicopatologia grave e del disagio sociale ed economico che raccoglie sospinga lo psicoanalista "impegnato" a coltivare gli aspetti cruciali della teoria e della tecnica. Si è sospinti da un lato verso la definizione disciplinata di linee guida, dall'altro ad un affinamento minuzioso del controtransfert e, in special modo, dell'autoanalisi.

Alla luce di queste pressioni esterne e interne, questo mio contributo intende sottolineare come il lavoro clinico con gli adolescenti metta in gioco, in forme particolari e specifiche, il linguaggio soggettivo dell'analista. Del resto "le interpretazioni suggerite dalla teoria come ripetizione del discorso dell'altro diventano aprioristiche, esteriori, marginali, e rendono anonimo il paziente, e anche l'analista" (Chabert, 2004). L'attenzione alla propria soggettività non può che tradursi, nell'analista, in un costante funzionamento autoanalitico. Naturalmente l'autoanalisi convoca all'ascolto e al riconoscimento dei percorsi del nostro funzionamento mentale in un determinato periodo della nostra vita e implica la risonanza, in noi, delle relazioni interne che viviamo con le nostre figure significative e con i pazienti, del passato e attuali.
Questo testo è pertanto il risultato dell'articolazione fra il tentativo di presentare una visione personale della mia esperienza clinica di psicoanalista impegnato nel lavoro istituzionale con l'adolescente ed il desiderio di rendere oggettivabile e trasmissibile il mio sguardo teorico sull'argomento in questione.

Nell'adolescente il narcisismo e la relazione oggettuale costituiscono, nella loro rimessa in gioco, i punti di repere fondamentali per la comprensione della psicopatologia e per il suo trattamento. La valutazione del rapporto con il corpo, con l'Ideale dell'io e quella della qualità della depressione legata alla perdita delle imago genitoriali, nonché di una certa immagine di sé dell'infanzia, sono determinanti per riconoscere il grado di sofferenza dell'adolescente.
Nell'adolescente, la fisiologica reviviscenza delle angosce depressive e di separazione, mettendo alla prova la tenuta delle sue basi narcisistiche, fa spesso riemergere le angosce primarie fino a quel momento più o meno rimosse. Se allora consideriamo che, con la genitalizzazione pubertaria, la complementarietà dei sessi orienta il funzionamento libidico, proprio per questo, l'adolescente sembra aspettarsi, da qualunque oggetto investito, la complementarietà assoluta (la fusionalità) del tempo delle origini. Ormai, però, la dimensione autoerotica, in quanto evocativa della relazione madre-bambino, non può che essere percepita come incestuosa e viene rifuggita con forza. Inoltre, dato che l'adolescente è nuovamente rivolto all'oggetto esterno, come analisti siamo chiamati a lavorare per essere referenti adeguati (e non incestuosi) per la mente adolescente.

Pertanto ritengo, e anticipo qui alcuni spunti di questo lavoro, che la nostra capacità di sviluppare trattamenti, o combinazioni di trattamenti che possano ridurre in maniera consistente gli aspetti di vulnerabilità neurofisiologica e psicologica nei nostri pazienti adolescenti, dipenda notevolmente dalla nostra intima disponibilità a metterci al servizio del loro fragile narcisismo. Per realizzare questa condizione terapeutica è necessario essere capaci, al contempo, di investire su noi stessi, sul nostro funzionamento mentale, rendere cioè attivo, vitale e continuativo il nostro percorso di formazione personale. Continuare a formare se stessi, perlaborare (nel senso di elaborare più e più volte) la nostra storia personale, le nostre vicissitudini identificatorie, i nostri passaggi adolescenziali, per poi far arrivare tale "disposizione del nostro psichismo" all'altro, ma con il suo linguaggio. Nutrire il convincimento che non ci possiamo accontentare delle acquisizioni raggiunte, che i processi psichici non si esauriscono una volta per tutte, ma continuano ad essere alimentati dallo scambio profondo con l'altro che è in noi e con l'altro fuori di noi, nonché dalla presenza dell'inconscio. Arnaldo Novelletto (1990) ricordava a tutti i suoi colleghi che "terapia deriva dal verbo greco "therapeuein", che significa servire, mettersi al servizio di". Aggiungo che, per mantenere vivo questo impegno, soprattutto per chi lavora nelle istituzioni, è importante poter trovare dei buoni ascoltatori, degli interlocutori attenti, persone o gruppi attraverso i quali continuare a trasformarci e così naturalmente entrare sempre più in contatto con i nostri pazienti.


Visione globale e unitaria del soggetto

Credo che, per avanzare nella pratica clinica, sia utile considerare i recenti contributi conoscitivi sui processi di sviluppo del bambino e dell'adolescente. Infatti è fecondo, secondo me, creare ponti tra il biologico, l'evolutivo e il terapeutico.
Un significativo apporto viene dagli studi sull'osservazione del bambino e delle sue interrelazioni precoci con l'ambiente. Tali studi hanno confermato la presenza, in lui, di competenze innate (affettive, cognitive, interattive), che lo predispongono all'ancoraggio interattivo non solo corporeo ma anche mentale.
Così se è giusto affermare che il bambino ha una storia biologica, è altrettanto incontestabile che egli si inscriva in una storia relazionale costantemente in grado di avviare i movimenti spontanei di auto-organizzazione, auto-regolazione e auto-correzione, quali espressioni coerenti dell'attività (agency) del soggetto. Insisto sul valore del prefisso "auto". Infatti è veramente importante ammettere come, all'inizio, l'attività del soggetto sia priva di volontà di comunicazione. Come scrive Winnicott (1971), è necessario "avere un luogo" dove mettere, localizzare l'esperienza di sé, un luogo che permetta all'esperienza di essere provata come autogenerata, come trovata/creata. C'è bisogno, quindi, di un tempo "auto", di un tempo per sé agli inizi della vita psichica da vivere a sufficienza.
Un obiettivo clinico diventa allora quello di valutare se l'adolescente dispone o meno di un luogo psichico, dove poter riconoscere i pensieri come propri e poter arrivare a provare il piacere di pensare. In questa ottica nell'incontro clinico con l'adolescente sono abituato a considerare i possibili "difetti di elaborazione della funzione contenitiva", condizione necessaria perché si crei uno spazio psichico.
Mi riferisco certamente alla capacità di costruire le rappresentazioni in assenza dell'oggetto, secondo il modello del rocchetto, ma non solo. Infatti a tutto ciò Winnicott aggiunge la descrizione della particolare esperienza soggettiva che definisce l'informe (formlessness), cioè la condizione della mente di essere senza forma, come quel "territorio dove non vi è né forma né struttura", nel quale si troverebbe il bambino prima di essere messo in forma dall'ambiente della sua primissima infanzia. Tale territorio andrebbe abitato a sufficienza e garantirebbe la precondizione alla messa in forma di sé, all'esperienza di sé. Le tracce di tale esperienza soggettiva si riattualizzano e tornano ad essere profondamente attuali quando il processo di soggettivizzazione dell'adolescente segna il passo, incontrando impedimenti gravi al suo svolgersi.
Le tracce di tale esperienza soggettiva si riattualizzano e tornano ad essere profondamente attuali, quando il processo di soggettivazione dell'adolescente segna il passo, incontrando impedimenti gravi al suo svolgersi.

L'esperienza del trovato-creato non costringe il bambino a fare la differenza fra ciò di cui è l'agente specifico e ciò che gli è fornito dall'ambiente, a differenziare ciò che non è ancora in grado di differenziare. L'origine del processo è lasciato indecidibile, indeterminato. Quello che conta è solo il valore soggettivo dell'esperienza.
é forse possibile attribuire a tale esperienza di essere informe, la funzione antitraumatica dei fenomeni e dei processi transizionali. Tali processi suppongono, per organizzarsi pienamente, che si eserciti il rispecchiamento da parte dell'oggetto ("la luce che brilla nell'occhio della madre", come scrive Kohut).
E' grazie a questa condizione che il trovato-creato si realizza; è grazie ad essa che emergono le prime forme di riflessività. Pertanto una delle prime acquisizioni del bambino sarebbe quella di rappresentarsi che semplicemente rappresenta, cioè quella di costruire una rappresentazione della rappresentazione, una rappresentazione dell'azione rappresentativa, base della funzione contenitiva.
All'inverso, quando l'esperienza del trovato-creato fallisce o subisce delle perturbazioni troppo intense, assistiamo, la clinica degli stati traumatici precoci lo conferma, ad una "agentalizzazione forzata". Ciò significa che il bambino "si costringe", per così dire, ad agire, a mettersi in moto.
Clinicamente si tratta di una sorta di procedura di controllo narcisistico, destinata a tentare di sostenere il vissuto agonico post-traumatico e la disperazione che implica.

Complessivamente, l'Infant Research ha ben evidenziato l'influenza dell'ambiente esterno sulle disposizioni innate e sullo sviluppo della vita psichica. In altre parole, la ricchezza conscia e inconscia delle cure materne fonda le basi narcisistiche del soggetto (capacità di autoregolarsi e di sincronizzarsi con l'altro), le sue capacità di autocura, di self-rigthting, ed anche di resilienza di fronte agli eventi traumatici della vita. In adolescenza la complessità e la varietà degli scambi precoci fra madre e bambino riemergono, cercano la loro nominazione attraverso la traduzione dell'après-coup ma, soprattutto, nuove opportunità di costruzione del soggetto sono a disposizione, in accordo con le emergenti competenze cognitive (processi di simbolizzazione) e con gli ulteriori apporti relazionali e dell'ambiente esterno.

Quanto detto finora credo possa fornire una cornice esplicativa per accostarsi alla sofferenza psichica, ma soprattutto alimentare la riflessione dell'analista, avvicinandolo a quella condizione di sospensione della mente, fino ad arrivare a funzionare come un "oggetto medium malleabile" (farsi anche lui informe e indeterminato), azione terapeutica che spesso gli adolescenti con la loro sofferenza narcisistico-oggettuale ci suggeriscono di svolgere.


Trattamento dell'adolescente borderline

Il pensiero psicoanalitico mette in relazione i possibili esiti psicopatologici dell'adolescente borderline con la presenza, in lui, della percezione triste e dolorosa di trovarsi troppo lontano dal proprio ideale narcisistico. Egli coglie drammaticamente lo scarto eccessivo fra come egli sta diventando e come avrebbe voluto diventare, soffre di non riuscire ad integrare lo sviluppo puberale e le altre esperienze traumatiche interne o esterne nel continuum della propria vita psichica.
Nell'adolescente borderline i bisogni evolutivi attivano in modo significativo angoscia e conflitto. Il conflitto origina dai nuclei traumatici del passato che generano sia la paura di sperimentare nuovamente vissuti di frammentazione, sia la persistente attesa dell'attualizzarsi del vissuto traumatico. L'adolescente organizza allora misure autoprotettive che rendono problematica la sua vita di relazione e che, a loro volta e in vari modi, impediscono lo sviluppo e la risoluzione del conflitto. Del resto ogni personale sofferenza psichica è così inscritta nel proprio modo di essere, che la sua trasformazione necessita di una profonda elaborazione della perdita e del lutto, spesso superiore alle capacità elaborative dell'adolescente borderline.
Il trattamento allora ha bisogno di svolgersi all'interno di un luogo istituzionale di cura che, per rendersi terapeutico, dovrebbe tendere a costruirsi come "un sito analitico allargato".
Inoltre, molti di questi adolescenti non sembrano possedere una precisa nozione dell'essere emotivamente compresi da qualcuno capace di tollerare, capire e contenere il dolore di un'altra persona. Anche per questo la terapia è spesso da loro vissuta come una esposizione all'attualizzarsi di una dimensione traumatica. La stabile precarietà del linguaggio delle emozioni e la continua turbolenza della relazione terapeutica hanno indotto i clinici da un lato a dettagliare le caratteristiche del funzionamento mentale dell'adolescente borderline, dall'altro ad ampliare notevolmente l'uso del controtransfert per organizzare e dare consistenza ai diversi transfert di tali pazienti. Così le molteplici ed intense reazioni controtransferali vengono descritte quasi come passaggi obbligati, in quanto le caratteristiche del funzionamento mentale dell'adolescente borderline fanno provare sentimenti e stati d'animo contrassegnati da irritazione, insofferenza e sconforto così come da coinvolgimenti confusivi e appassionati. Ne consegue che la capacità di monitorare ed usare con autenticità il proprio controtransfert diventa cruciale per l'analista.
All'analista è richiesto il non facile compito di mantenere un assetto flessibile e spontaneamente controllato così da alternare interventi di contenimento, di supporto e di chiarimento con caute ricostruzioni della storia personale del paziente. L'esperienza clinica insegna che le interpretazioni, anche se attentamente soppesate, possono facilitare il salutare riconoscimento della necessaria dipendenza, ma anche scatenare il totale rifiuto di ogni apporto proveniente dall'altro. Le interpretazioni di transfert pertanto si configurano come azioni terapeutiche ad alto rischio ed ad alto risultato.
Quanto poi è concordemente ritenuto oneroso per l'analista (Gabbard, 2004) è il dato di fatto che l'adolescente borderline si sia anche identificato con un oggetto odiato, e forse anche odioso. Tale identificazione viene disperatamente esternalizzata nella relazione di transfert-controtransfert. L'adolescente borderline considera quindi prevedibile, familiare e anche calmante il poter ricreare nella relazione il rapporto sadomasochistico al quale è allenato. Se l'analista oppone resistenza alla sua trasformazione in "un oggetto sufficientemente cattivo" (Rosen, 1993), facendosi pacato e imperturbabile, l'adolescente invariabilmente accresce la sua provocatorietà per cercare di trasformarlo secondo le sue esigenze.
Oppure, di fronte alla capacità parziale dell'adolescente borderline di simbolizzare e di mentalizzare, l'analista non può che tentare di favorire il recupero della funzione riflessiva (Fonagy, Target, 1997) cercando di esplorare e nominare l'eventuale stato emotivo che può aver provocato un determinato episodio.
Allora ritengo che le ricadute sulla tecnica psicoanalitica di tali ormai numerose acquisizioni cliniche siano consistite in una diffusa tendenza ad oggettivare le diverse dinamiche intrapsichiche e relazionali e quindi in un lavoro cosciente di descrizione e sistematizzazione di ciò che può avvenire nel paziente e nella relazione terapeutica. Così, ad esempio, la rivista The American Journal of Psychiatry ha pubblicato nel 2001 un lavoro dal titolo: "Practice guideline for the treatment of Patients with Borderline Personality Disorders".
Ovviamente tutto ciò può arricchire il dialogo con tali pazienti, facilitare l'alleanza terapeutica ed anche estendere il campo dell'analizzabilità, ma non risolve la difficoltà che l'analista incontra con tali pazienti a funzionare per libere associazioni, a mantenere la sua attenzione liberamente fluttuante, ad attingere al proprio inconscio.
Pertanto, a mio parere, di fronte ad una patologia che riguarda i processi di soggettivazione, la possibilità per l'adolescente borderline di scoprire l'oggetto è legata soprattutto a quanto l'analista può mettere al suo servizio per via del suo livello di funzionamento psichico, raggiunto attraverso la propria storia, la propria formazione e la propria analisi personale. Inoltre, con questi pazienti, l'analista è chiamato a verificare se ha raggiunto o meno quella particolare condizione interna, necessaria a permettergli di provare lui stesso, nella relazione con il paziente, "il piacere di essere l'oggetto dei bisogni di un altro" (Vergine, 2001).


Autoanalisi dell'analista

Per la mente adolescente è particolarmente complesso articolare due diversi livelli di funzionamento, e cioè da un lato proporre una narrazione autobiografica continuamente rivedibile e dall'altro consolidare l'esame di realtà, rafforzando così il livello di conoscenza di sé e dell'ambiente esterno. Molto spesso l'adolescente finisce piuttosto per controllare la realtà attraverso il pensiero onnipotente, cercando di adeguarla ai suoi bisogni. D'altra parte, rinviando la definizione della propria soggettività, egli coltiva il vantaggio secondario di non svelare ancora a se stesso che i propri processi di differenziazione sono all'opera.
Abbiamo visto quanto il confronto con la propria soggettività sia particolarmente drammatica per l'adolescente borderline, che sperimenta una costante perdita di continuità dei propri vissuti soggettivi.
Allora alla difficile presa di coscienza di sé da parte dell'adolescente (difficoltà a rendere leggibili a se stesso i propri stati affettivi), ed alla dolorosa percezione (senso di sé svuotato e caotico) di non disporre sufficientemente di processi psichici "auto", autoerotismi, autosservazione e autoriflessione, l'analista potrebbe rispondere con un protratto lavoro di autoanalisi, cioè il lavoro riflessivo sul proprio funzionamento, affinato dall'esperienza analitica personale. Quando parlo di autoanalisi non mi riferisco quindi all'uso che ne faceva Freud che si è analizzato da solo, né a quanto resta di non analizzato dopo l'analisi personale; resti che peraltro possono avere un valore significativo nelle dinamiche controtransferali con il paziente. Mi riferisco, piuttosto, alla personale disponibilità, da parte dell'analista, a rivisitare la naturale incompiutezza della propria vita adolescente.

Infatti a partire da questo periodo della vita si è chiamati a riconoscere quanto siamo animati dalle pulsioni e dall'inconscio. Per definizione l'adolescente ama la metapsicologia (Gutton, 2000), perchè attratto dalle teorie sul funzionamento della sua mente, che peraltro continuamente sfugge alla sua coscienza. Del resto la soggettivazione è il risultato di una simbolizzazione che rappresenta il processo stesso di simbolizzare (Roussillon, 2002). In effetti quando il soggetto simbolizza, inizia a sentirsi egli stesso l'agente dell'attività rappresentativa, si autorappresenta come "soggetto" di tale attività, tutto ciò nella misura in cui essa è "libera", cioè non determinata ma trovata-creata.
Nello specifico, dal mio punto di vista, ciò che l'adolescente intuisce e rappresenta è la specifica condizione di trovarsi frequentemente ad optare fra possibili diverse rappresentazioni di sé e dell'altro, peraltro non prefigurabili, sulla scia di situazioni relazionali-ambientali. Egli può insomma tralasciare gli scenari rappresentativi precedenti che hanno fino a quel momento organizzato lo psichismo (l'infantile) e imboccare nuovi e inattesi percorsi rappresentativi sostenuti dal suo sviluppo pubertario e dalla sua dipendenza identificatoria dall'oggetto esterno (il pubertario). Da qui origina l'accostamento fra l'après-coup dell'adolescenza e l'esperienza di après-coup che viene vissuta nel corso di ogni analisi: lo scenario psichico muove al cambiamento. Pertanto, in una visione processuale che considera una costante articolazione fra processo primario e secondario, fra l'infantile e il pubertario, e che attribuisce grande fiducia alle potenzialità di sviluppo dell'adolescente, ipotizzo che ci sia, comunque, nell'analista, un restante potenziale d'adolescenza non vissuta verso la quale non c'è stata opzione. Tale restante potenziale d'adolescenza gli è rivelato proprio dall'adolescente che affronta il trattamento. E' lui a ricondurre l'analista nel luogo e nel tempo di quella scelta opzionale, a confrontarlo con il non intrapreso e con quanto avrebbe potuto determinarsi in lui e nella relazione con l'altro. L'autoanalisi dell'analista consiste allora proprio nella ripresa del lavoro di rappresentazione sulle opzioni possibili da lui non operate; è per questa via che l'autoanalisi svolge una efficace azione terapeutica. L'autoanalisi non sarebbe quindi solo l'espressione della presenza, nell'analista, di "resti" rimasti non analizzati nella sua analisi personale, resti peraltro sempre reperibili, ma di qualcosa che riguarda proprio l'affacciarsi nell'analista di intuizioni sulle sue altre adolescenze possibili.

E' auspicabile allora che l'analista svolga frequenti viaggi nella propria adolescenza, a seconda del suo interlocutore adolescente. Nel lavoro clinico va pertanto riconosciuta una emergenza necessaria di aspetti adolescenziali personali che sono alla ricerca di una loro figurazione e che si pongono al servizio del processo di sviluppo dell'adolescente.
L'azione terapeutica, infatti, risiede in un aspetto della soggettività dell'analista, nella sua capacità di immaginare, mentre si sintonizza con la condizione adolescente, la crescita potenziale di quest'ultimo. E' tale condizione a rilanciare i processi di sviluppo.
Tale funzionamento della mente dell'analista potrebbe rappresentare il punto di partenza per conoscere e trasformare la relazione terapeutica, che rischia continuamente di occludersi in un'unità confusa e in un rispecchiamento interminabile. Scrivono De Silvestris e Vergine (2004): "L'autoanalisi è un meccanismo conoscitivo di pertinenza della formazione dell'Io e delle sue funzioni, generato dalla relazione profonda che l'essere umano intrattiene con il suo ambiente o con un altro essere umano. La possibilità o meno di svolgere adeguatamente tale lavoro autoanalitico è legato alla capacità della mente dell'analista, in alcune fasi del trattamento, di sospendere ogni giudizio o definizione, ma anche di trasformare le teorie di sé e della propria storia affettiva e sessuale".
Questo assetto può permettere di riconoscere e nominare più puntualmente la sofferenza narcisistica dell'adolescente e così darle dignità ai suoi occhi. Questo significa ospitare dentro di noi l'angoscia, la tensione, il dubbio dell'adolescente, impegnato suo malgrado nel processo di crescita, sofferenza che si cela sotto i suoi agiti tragici, onnipotenti e drastici, autodistruttivi e distruttivi. Sono il riconoscimento e la conoscenza empatici dell'analista a comunicare all'adolescente la dignità della sua sofferenza, delineando così i confini di un proprio spazio psichico, là dove non c'erano.

Conclusioni

Racamier (1970) diversi anni fa ha scritto: "La malattia mentale e l'assistenza psichiatrica, quali che siano le forme che esse assumono, si svolgono l'una e l'altra sotto l'egida del passaggio all'atto". Questa affermazione è sempre valida, in particolare nel lavoro istituzionale con l'adolescente. Il riferimento al modello psicodinamico del funzionamento mentale sembra oggi, almeno quanto ieri, il miglior mezzo perché ai disturbi della comunicazione e ai passaggi all'atto della patologia rispondano comunicazioni emotive e atti che non sarebbero pienamente terapeutici se non aprissero la strada ad un lavoro di legame del disturbo psichico con la globalità e l'unitarietà del soggetto e con la sua ricerca di comunicazione.


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* Gianluigi Monniello
Neuropsichiatra infantile. Psicoanalista SPI e IPA, esperto per la psicoanalisi dell'infanzia e dell'adolescenza. Socio fondatore ARPAd (Associazione Romana per la Psicoterapia dell'Adolescenza e del Giovane Adulto), docente nel corso quadriennale ARPAd. Professore aggregato. Day Hospital per adolescenti del Dipartimento di Scienze Neurologiche, Psichiatriche e Riabilitative dell'Età Evolutiva, Sapienza Università di Roma. Direttore della Rivista AeP Adolescenza e Psicoanalisi.


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