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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Adolescenza


Destini del desiderio
Fenomenologia psicopatologica dell’adolescente contemporaneo

Arturo Casoni


Kairòs – Centro Clinico e di Ricerca

La solitudine dell’adolescente. Noia, depressione, dipendenze e panico
Giornate Sannite di Studio sull’adolescenza - Settima Edizione
Giovedì 6 Ottobre 2011 - Villa dei Papi, Sala Convegni - Benevento


Introduzione: cosa è ‘adolescenza’?

Il titolo che raccoglie queste riflessioni vuole alludere, in qualche modo, a ciò che Sigmund Freud scrisse nel 1915 a proposito di “Pulsioni e loro destini”1. Tra l’altro, qui si sostituisce il termine ‘pulsione’ con quello di ‘desiderio’ per ragioni che sarebbe complesso discutere ora. Comunque, ciò che può avvicinare le riflessioni che seguono con lo scritto metapsicologico di Freud – con tutta l’umiltà e il rispetto possibili - è semplicemente un interrogativo: che fine ha fatto il desiderio nel mondo in cui viviamo? Tenteremo una risposta a questo interrogativo nella seconda parte dello scritto.

Il sottotitolo vuole segnalare che anche per ciò che riguarda le forme della sofferenza psichica vi sono trasformazioni in atto che ci possono far capire cosa sta succedendo nel sottofondo degli individui, nel loro inconscio sociale2. Noia, depressione, dipendenze, attacchi al corpo, esordi psicotici e panico mi sembrano i fenomeni che possono esprimere la ‘sostanza’ del disagio mentale contemporaneo, in particolare per quella categoria sociale che chiamiamo adolescenti.

E’ bene chiarire preliminarmente da quale vertice di osservazione si centra l’attenzione sull’adolescenza e perché.

Facendo riferimento alle fasi di trasformazione strutturale del soggetto umano dalla nascita all’età adulta secondo la lettura che Sandro Gindro ci ha proposto3, penso si possa dire che vi sono tre età: la vita intrauterina, l’infanzia e l’età adulta fino alla conclusione della vita. Manca l’adolescenza, ovvero viene inclusa nell’età adulta. Cerco di articolare sinteticamente questa tripartizione provando a spiegare l’apparente ‘sparizione’ dell’adolescenza, fase sulla quale molta psicoanalisi si è concentrata negli ultimi decenni.

La nascita – in senso biologico, psicologico ed etico - non avviene nel momento dell’uscita dal ventre materno ma molto prima, in un prima che non possiamo delimitare con precisione. Sta di fatto che durante i nove mesi di gestazione avvengono delle azioni e delle relazioni che contribuiscono a organizzare la vita psichica del soggetto4. Non è questo il luogo per approfondire questo tema, ma è fondamentale tenerne presente.

L’infanzia – ciò che noi comunemente intendiamo con questo termine, si potrebbe dire dal parto fino all’età attorno ai dieci-dodici anni – è caratterizzata da un funzionamento mentale particolare, in buona parte differente dal funzionamento adulto. Usando la terminologia di Gindro possiamo dire che le logiche infantili sono diverse, polidirezionali, polisignificanti, deontiche5. In qualche modo l’interpretazione che se ne dà è vicina alla lettura fatta da Sigmund Freud a proposito del “processo primario”, tipico dell’infanzia, e del “processo secondario” dell’adulto6. Il passaggio dall’infanzia al funzionamento psichico adulto è quindi definito da una rinuncia alle logiche ‘altre’, da ciò che Gindro definisce “castrazione della logica”7. “Probabilmente è vero che l’adolescente riesce a cogliere con una certa chiarezza i principi della logica aristotelica, ma questa, comunque, è solo una delle logiche possibili. Il bambino è invece in grado, secondo me, di padroneggiare più logiche, con tutto il loro alternarsi e avvicendarsi di astrazioni, polidirezionalità, stratificazioni significanti, deduzioni e induzioni”8. Anche qui ci sarebbe da approfondire, ma il discorso si farebbe complesso e ci porterebbe lontano dal nostro argomento.

L’adolescenza è quindi una parte dell’età adulta, anzi l’inaugurazione di quell’età, in quanto l’adolescente è colui che ha avuto accesso alla “castrazione della logica” e sta provando a organizzare un suo senso a partire da questa perdita. Egli è adulto a tutti gli effetti per ciò che riguarda il suo funzionamento psichico, ma a differenza dell’adulto ha un ruolo sociale diverso. “E’ dunque possibile tentare di analizzare il fenomeno dell’adolescenza non tanto mettendo questa fase in relazione più o meno stretta con le modificazioni psicofisiche dell’individuo, quanto partendo dal significato che il gruppo sociale attribuisce a questo periodo della vita. Tutti gli esseri umani sono frutto di messaggi veicolati non solo dall’eredità genetica, ma anche dall’inconscio sociale e dall’esperienza individuale. L’adolescente è ciò che la società vuole che egli sia”9. E’ da ‘fuori’, dalla società e dalla cultura, che arriva all’adolescente il peso di un diritto-dovere che, in particolare, riguarda la sua identità di soggetto affettivamente e sessualmente autonomo, non più circoscritto all’interno della famiglia – ciò che Sigmund Freud ha chiamato Complesso di Edipo -, non più ‘figlio di’ ma individuo alla ricerca di una sua collocazione nel mondo. “Gran parte del tumulto emotivo che si riscontra in adolescenza non è da porre, allora, in relazione alla necessità di trovare oggetti d’amore diversi da quelli parentali, e neppure alla possibilità di mettere in atto gesti esplicitamente sessuali – poiché entrambe le cose fanno parte del ricco bagaglio d’esperienze del bambino – ma al diritto socialmente acquisito di potersi innamorare e di poter ‘fare l’amore’. Il diritto acquisito diviene, infatti, anche un dovere, ma la sessualità esplicita ed esibita turba e spaventa: spaventa l’accesso all’eterosessualità e al confronto con l’altro sesso; spaventa l’omosessualità per la condanna sociale che si percepisce incombere su questa forma di rapporto”10.

Questo modo di leggere l’adolescenza ci offre lo spazio mentale per poter utilizzare l’adolescente come soggetto sociale che ci segnala – con anticipo e con l’evidenza tipica di questa fase della vita caratterizzata da gesti, comportamenti e scelte di vita estremi – ciò che è il disagio della civiltà contemporanea11. L’adolescente, in questo senso, è il soggetto dichiarante che rende manifesto il disagio e la sofferenza che riguarda la società nel suo insieme. Non più quindi l’adolescente come ‘adulto di domani’ – frase incartapecorita spesso pronunciata dai politici che si occupano di programmi di benessere sociale -, ma come ‘adulto d’oggi’, che ha nella percezione della sua (non) collocazione sociale tutta la speranza, la rabbia, la gioia e la disperazione che progressivamente perderà con il passare degli anni, divenendo anche lui un soggetto rinunciante. E’ l’adolescente il portatore delle passioni tristi12, colui che ci dichiara - nelle forme inconsapevoli ed estreme che lo caratterizzano – il destino verso il quale le nostre passioni e desideri stanno andando.

Si badi bene: non si sta dicendo che l’adolescente è un soggetto ‘rivoluzionario’, tutt’altro. Egli è forse – sempre come soggetto sociologico, con le salvifiche eccezioni individuali al di là delle generalizzazioni – il più conservatore e anti-libertario tra i rappresentanti della contemporaneità. Non vi è soggetto più consumista e più prono di fronte al potere del dio danaro. Eppure egli, in una forma assolutamente inconsapevole, ci racconta cosa noi siamo, cosa noi stiamo diventando senza accorgercene. Ci fa da specchio perturbante, e quindi viene stigmatizzato come ‘straniero interno’13: “C’è nella nostra cultura una valenza specifica dell’essere adolescente che lo rende al contempo partecipe ed estraneo. Tutti noi siamo stati adolescenti eppure, se adulti, di fronte a un adolescente proviamo un senso di disorientamento, di disagio commisto a fascino. Non è bambino, in qualche modo minore – minus habens – bisognoso di cure o attenzione ma ‘gestibile’; e non è adulto, ma alla pari”14.

Parlare quindi di adolescenza oggi significa affrontare una lettura ampia della condizione di disagio contemporaneo, che non riguarda soltanto gli adolescenti. Richiede il tentativo di entrare con modelli esplicativi nelle viscere della condizione contemporanea, entrare in ciò che Sandro Gindro definiva l’Inconscio Sociale, questo mare nel quale tutti galleggiamo e di cui quasi mai siamo consapevoli. L’Inconscio Sociale non è un invariante, i suoi archetipi si trasformano in base alle modificazioni che la società e la cultura gli impongono. Gli adolescenti dunque ci segnalano con particolare evidenza queste nuove emergenze, sono loro i portatori delle passioni tristi che ci riguardano tutti.

Con una sorta di acrobazia mentale si potrebbe dire che gli adolescenti contemporanei ci ricordano le isteriche di Freud nell’ ‘800: sono come quelle donne – le ‘fondatrici’ della psicoanalisi insieme a Freud - che affermavano allora, attraverso i loro gesti appassionati e inconsapevoli, il bisogno di un cambiamento sociale, civile, culturale che riconoscesse dignità al desiderio, alla sessualità. Così oggi gli adolescenti ci obbligano a riorganizzare le nostre teorie e le nostre prassi. E, a loro modo, ci parlano di nuovo di impossibilità del desiderio.

Affrontare il disagio adolescenziale inevitabilmente ci obbliga a indagare quel luogo nel quale loro si sono costituiti: la famiglia. Loro ci parlano con affetto, rabbia, disorientamento e disperazione di papà e mamma, delle loro trasformazioni, sparizioni, metamorfosi. Le famiglie – e in particolare i ruoli genitoriali – si sono massicciamente trasformate negli ultimi decenni, tanto da richiederci nuovi ‘attrezzi’ teorici e nuove prassi cliniche per comprenderle e potervi intervenire. Il tema è antico, è il centro della riflessione psicoanalitica a proposito della formazione della soggettività individuale: Freud lo ha chiamato Complesso di Edipo. Ecco quindi che lo scenario si allarga dal figlio al genitore, dalla famiglia alla società e alla cultura che la sostiene. Comprendere i cambiamenti intervenuti nella mente dell’adolescente ci porta quindi a indagare le trasformazioni accadute entro il ‘triangolo edipico’15.

A proposito dei destini del complesso di Edipo come struttura interpretativa efficace Jacques Lacan, nel 1955, scriveva: “entro due o tre generazioni non si capirà indubbiamente più nulla o, come si dice, una gatta non ritroverà più i suoi piccoli, ma per il momento, nell’insieme, il fatto che il tema del complesso di Edipo permanga, presume la nozione di struttura significante, così essenziale per orientarsi nelle nevrosi”16. Forse le due o tre generazioni sono passate e noi – addetti ai lavori per ciò che riguarda la cura dei soggetti pensanti – siamo chiamati a fronteggiare il cambiamento, a capirci qualcosa, a evitare il caos, a far ritrovare al gatto e alla gatta i suoi piccoli, seppur in forme che non siano un’assurda e malaugurabile ‘restaurazione’ dell’ordine precedente.

Nuove fenomenologie del sintomo: la melanconizzazione della sofferenza

Proviamo ora a leggere il disagio contemporaneo utilizzando gli adolescenti come ‘soggetti dichiaranti’ e le forme prevalenti di sofferenza psichica come indizi per una possibile esplorazione dello scenario complessivo. La domanda riguarda la psicopatologia: come loro mettono in scena la sofferenza, attraverso quali fenomenologie psicopatologiche? E perché c’è questa sofferenza? Mia intenzione è quella di tentare di costruire – accennare soltanto - uno scenario della sofferenza adolescenziale contemporanea a partire da alcuni segni-sintomi. Sono questi i colori che determinano la figura: noia, depressione, dipendenze, attacchi al corpo, esordi psicotici e panico. Ovviamente non pretendo di dare una descrizione esaustiva della psicopatologia contemporanea, ma tento di cogliere alcuni fili di significato che possano dare senso allo scenario della sofferenza mentale d’oggi secondo una linea interpretativa definita. Sarà evidente che, nell’analizzare i sintomi e le sindromi, oltre lo sguardo nosologico, psicoanalitico – che riguarda l’individuo - utilizzerò una prospettiva ‘sociologica’, nel tentativo di accogliere anche il messaggio collettivo che la psicopatologia contemporanea ci segnala17.

Sandro Gindro ha descritto la nosografia psichiatrica come “discesa agli inferi”18. Nella sua interpretazione delle varie forme in cui si può manifestare la sofferenza psichica identifica una linea di continuità eziologica che va a comporre una sorta di ‘scala’ composta da gradini (positure psichiche) di progressiva gravità, la cui ultima ‘stazione’ è quella della depressione o melanconia19.L’ultima tappa di questo percorso verso l’allontanamento dallo stato di ‘salute’ è la depressione, e tutte le altre forme psicopatologiche, dall’ansia al delirio, sono “tentativi di guarigione”20 dalla positura depressiva, in quanto condizione massima di impossibilità del desiderio, dell’incontro con l’altro. Le altre figure psicopatologiche molto gravi e angosciose - come il delirante, l’allucinato, il folle, lo psicotico, tradizionalmente considerate il punto massimo di gravità psichiatrica - sono ‘maschere’ che forse ci spaventano di più, sono più perturbanti per l’osservatore, ma sono il segnale di un tentativo di riemersione dalla depressione.

Giungiamo ora al nucleo di base di tutto il percorso che sto descrivendo, che si fonda su un’osservazione clinica: l’impressione che gran parte delle modificazioni in atto riguardo alle forme psicopatologiche della contemporaneità siano caratterizzate da una sorta di melanconizzazione della psicopatologia. Proviamo quindi ad accennare a un possibile scenario della sofferenza adolescenziale contemporanea a partire da alcuni segni-sintomi che – per lo meno come frequenza – caratterizzano il panorama clinico, e che ci fanno riflettere sul fenomeno della melanconizzazione. L’ipotesi che avanzo è che in tutte le figure psicopatologiche ‘in voga’ specialmente tra gli adolescenti si manifesti una radice depressiva: depressioni atipiche, crisi di panico, dipendenze, attacchi al corpo, psicosi acute hanno come loro ‘punto di fuga’ una separazione melanconica dalla relazione con il mondo. Di fatto l’effetto prodotto dai sintomi è la chiusura al mondo, alla socialità, il ricoverasi in casa, magari davanti a un computer. La noia, la solitudine, l’assenza del desiderio sono solo mitigate dall’illusione di una presenza virtuale degli altri, unica illusione possibile.

Quella sindrome caratterizzata dal ritiro asociale definita Hikikomori21, inizialmente descritta dai giapponesi come specifica degli adolescenti di quella cultura, mi sembra il rappresentante estremo di una tendenza generalizzata anche nel nostro Occidente. Hikikomori significa “stare in disparte, isolarsi” e sta ad indicare un fenomeno comportamentale riguardante gli adolescenti e i giovani post-adolescenti nel quale si tende ad evitare qualsiasi coinvolgimento sociale, chiudendosi nella propria casa e interrompendo ogni genere di rapporto con gli altri, inclusi i familiari. L’hikikomori (il termine può essere utilizzato sia per definire il fenomeno in sé, sia i soggetti che manifestano questo comportamento) si ricovera nella propria stanza, trascorre il suo tempo con videogiochi, Internet e televisione durante tutta la sua giornata, per periodi che possono durare anche molti anni. L’unico mezzo di comunicazione con il mondo è Internet, con cui si crea un vero e proprio mondo ‘privato’, con amici conosciuti online. Secondo una stima del Ministero della sanità giapponese il 20% degli adolescenti maschi giapponesi sarebbero hikikomori. Come arginare il ‘contagio’?

Passiamo ora a una rapida analisi di alcuni segni-sintomi-sindromi particolarmente frequenti nella psicopatologia adolescenziale.


Noia

La noia, come termine e come concetto, è un’invenzione della modernità, si potrebbe dire che è un suo ‘effetto collaterale’. Un autore inglese ci racconta che la parola bore (noia) sembra entrare nella lingua inglese nella seconda metà del ‘700, e non per caso. Essa è figlia della sicurezza e dell’agio, quando carestie e guerre erano più sotto controllo e la tensione per questi drammi scemava creando un nuovo tipo di infelicità, che aveva bisogno di un nuovo termine per essere pensata22. La noia contemporanea quindi, come prodotto delle trasformazioni sociali e culturali, può funzionare da stimolo per chi tenti di comprendere la nostra modernità (postmodernità?, ipermodrnità?). La noia non è un sintomo ma è un segno di sofferenza, non è compresa nei cataloghi della psicopatologia ma significa un malessere. Essa è una delle caratteristiche dell’adolescenza da sempre e a me sembra – sulla base della mia osservazione clinica – si manifesti con particolare frequenza ed evidenza oggi. Pietro Citati, commentando la poetica di Giacomo Leopardi scrive: "I giovani soffrono più dei vecchi, appunto perché sono più vitali. Conoscono maggior noia, maggior fastidio dell'esistenza, maggior difficoltà e pena nel sopportarla, maggior disprezzo e noncuranza di essa"23. Può essere letta come un’anticamera della depressione. La noia ha a che fare molto chiaramente con l’inceppamento del desiderio: segnala un desiderio che è intenso ma non trova uno spazio-tempo per concretizzarsi, per distendersi in una relazione col mondo. Penso possa essere identificata come prodromo, segnale d’allarme rispetto alla condizione adolescenziale a rischio di psicopatologia.


Depressione

La clinica contemporanea tende a interpretare i Disturbi Depressivi secondo due modalità patogenetiche, definite come pattern anaclitici e introiettivi24. I pattern depressivi anaclitici – che potremmo definire da ‘ferita narcisistica’ – sono caratterizzati da sentimenti di helplessness, debolezza, inadeguatezza, svuotamento. I pattern della depressione introiettiva – da ‘senso di colpa’ - hanno invece come caratteristica l’autocritica severa e punitiva, sentimenti di inferiorità e di colpa. Di fatto si accosta all’interpretazione che Sigmund Freud - in Lutto e melanconia25 - ha dato del vissuto depressivo come originato da una colpa inconscia un’altra lettura che identifica in un’esperienza di grave privazione affettiva l’origine della depressione (appunto analitica, ‘senza appoggio’). Franco Lolli in un recentissimo lavoro che ha per titolo Le depressioni contemporanee26 così scrive: “Sempre più frequentemente sentiamo parlare della modernità della depressione, che viene descritta come una malattia dell’attualità, determinata cioè dalle trasformazioni sociali ed economiche che hanno mutato l’organizzazione della vita delle società occidentali (…) Perché parlare della depressione come male moderno? Possiamo subito affermare che di moderno c’è la sua propagazione epidemica (…) come mai la depressione trova nel contesto socioculturale attuale un terreno così fertile sul quale attecchire?”27. La risposta che viene data – in linea con l’interpretazione che Lacan28 ha proposto della lettera freudiana – trova una sintesi tra quelle che abbiamo definito depressioni narcisistiche e depressioni da senso di colpa. Nella riformulazione concettuale che Lacan propone, alla fine degli anni ’50, a proposito della nuova ‘legge’ che governa i legami collettivi, si afferma il “discorso del capitalista”29 come nuovo schema del Super-Io sociale nell’epoca del trionfo del consumismo assurto a legge di funzionamento della società. Se il Super-Io freudiano esigeva la rinuncia, il sacrificio pulsionale, la castrazione per raggiungere l’accesso alla realtà civile (il Super-Io kantiano, produttore del disagio della civiltà), nell’epoca iper-moderna che ci abita il dover-essere afferma l’obbligo del godimento senza desiderio (Super-Io sadiano) che ci mette al riparo dalla sofferenza, dall’elaborazione del lutto, dall’accettazione della propria finitezza. Se prima il conflitto pulsionale era tra desiderio e Legge-del-Padre, oggi l’imperativo superegoico ci chiama al soddisfacimento narcisistico del bisogno che si deve riferire a oggetti di godimento e non a soggetti di desiderio. Al posto della mancanza prodotta dal desiderio per l’Altro si è generato un vuoto di desiderio.

In questa prospettiva la depressione (melanconia) si rappresenta come un quadro clinico ‘fondante’ per tutta la psicopatologia. “Il postulato fondamentale della melanconia è il postulato di indegnità. L’esperienza clinica ci insegna che se esiste un fenomeno elementare nella melanconia è il fenomeno della colpa come manifestazione dell’indegnità del soggetto30. Lungo questa linea interpretativa le due genesi depressive – narcisistica e da senso di colpa – trovano la loro sintesi attraverso il sentimento di indegnità e di obbligo di consumo del godimento senza desiderio.

Se guardiamo alle fenomenologie depressive che gli adolescenti contemporanei manifestano, troveremo appunto non sentimenti di colpa per desideri sessuali o fantasie distruttive, ma sentimenti di indegnità riguardo alla propria immagine sociale. Il ragazzo/ragazza si sente ‘sfigato’, il suo corpo è ignobilmente impresentabile di fronte ai modelli della pubblicità, non ha il denaro per poterlo ‘mascherare’ da oggetto di perfezione attraverso abiti firmati o interventi di chirurgia plastica, i suoi contatti su Facebook sono pochi e poveri. Non rimane che la prigionia domestica dietro uno screen che può dargli l’illusione di essere altro da sé.

Vedremo più avanti di incrociare il discorso lacaniano con la lettura proposta da Gindro a proposito dei destini del desiderio.


Panico

Il disturbo da attacchi di panico – forse il quadro psicopatologico più diffuso della nostra epoca - viene normalmente trattato farmacologicamente con antidepressivi, che hanno dimostrato una loro evidente efficacia riguardo al sintomo. Se non altro in base a una diagnosi ex juvantibus (diagnosi ottenuta in base all’effetto di una terapia) possiamo pensare che il panico è una forma di depressione. A un’osservazione fenomenologica esso appare come l’altra faccia della depressione, il suo versante ‘produttivo’. Se la mania è l’effetto di una reazione opposta alla depressione - il suo ‘contrario’ denegante - il panico è il suo prodotto più genuino, l’angoscia libera. Come il delirio-allucinazione rispetto alla catatonia-ebefrenia nelle schizofrenie, è il versante produttivo di una condizione depressiva. Ciò che lo caratterizza è l’angoscia libera come sfioramento dell’esperienza di assurdo, di non-senso. L’effetto prodotto è appunto la fobia sociale, il ritiro in casa, l’annullamento della vita sociale (agorafobia). Il panico ci segnala un desiderio che conduce all’assurdo, che è assurdo, senza senso perché non trova il suo spazio-tempo.


Attacchi al corpo

Gli attacchi al corpo, genericamente ed estensivamente intesi nelle loro varie fenomenologie – che siano tentativi di suicidio31, comportamenti a rischio, gesti autolesivi, includendo qui anche alcune forme di anoressia – ci segnalano l’ingombro mentale che il corpo, macchina desiderante per eccellenza, produce sul soggetto. Tali fenomenologie sono straordinariamente frequenti in adolescenza, tanto da produrre dei lavori di ricerca specifici che identificano il Pronto Soccorso degli ospedali come il luogo-vedetta di osservazione privilegiata su un fenomeno allarmante32. Il corpo, si sa, è in adolescenza il luogo attorno al quale si gioca un’enorme parte di quel lavoro di elaborazione mentale che chiamiamo ‘fase adolescenziale’. Lo si tenta di asservire - con la violenza dell’eccesso o della sottrazione e le minacce del rischio - al silenzio, al governo del desiderio, nella speranza che si possa giungere ad una pace depressiva e adattiva. L’eccesso positivo o negativo, gli aspetti estremi dei comportamenti, mirano a un vuoto, a un’assenza di perturbamento33. Con apparente paradosso, la nostra epoca che dichiara il trionfo del corpo esibito, manifesta una profonda fobia nei confronti di ciò che sta dentro quella cosa che chiamiamo ‘corpo’. Tutto ciò che ha a che fare con la carnalità, con le profondità del turbamento sensuale, il sentimento che è generato dalle viscere e ci lega all’altro corpo, al corpo dell’altro, viene ridotto a bisogno di ammirazione da parte dell’altro e uso del corpo dell’altro. Se il tentativo di asservilimento fallisce il corpo diviene oggetto di violenza.


Dipendenze

Solo un rapido accenno a un tema enorme che investe e travolge spesso gli operatori della salute mentale, anche sul piano del lavoro istituzionale. Le dipendenze - il cui termine complementare è autonomia - rappresentano una sorta di succedaneo del desiderio, in cui si sostituisce una ‘cosa’ alla presenza di un soggetto. E’ il tentativo di rendersi autonomi dall’altro. La ‘cosa’ da cui si dipende può essere una sostanza, il cibo, il guadagno di tanto danaro, un gioco d’azzardo, il sesso compulsivo, un computer, un’istituzione come la famiglia dalla quale non ci si riesce a distaccare, ma non deve impegnarci in una messa in gioco della nostra soggettività profonda. Tutto deve rimanere entro uno scenario reificato, ridotto a espediente anti-desiderio. La solitudine è riempita da oggetti, perché i soggetti sono troppo pericolosi in quanto non pienamente asservibili. La responsabilità del proprio desiderio – e quindi della relazione - è così illusoriamente evitata.


Disturbi di Personalità/Esordi psicotici

La categoria psicosi – e in particolare la scansione nosologica tra psicosi e nevrosi - ha subìto negli ultimi decenni notevoli trasformazioni ed elaborazioni. Dagli anni ’70 in poi, a partire dalla formulazione di ‘zone grigie’ tra le due categorie psicopatologiche come il Disturbo Narcisistico di Personalità (H. Kohut34) e il Disturbo Borderline (O. F. Kernberg35), si è iniziata un’elaborazione dello scenario psicopatologico che - in qualche modo, non sempre con consapevolezza da parte dei clinici – identificava il lavorìo mentale tipico dell’adolescenza come paradigma generatore di disturbo dell’adulto. Non a caso queste patologie hanno il loro esordio in quell’età. Queste forme nosografiche, di derivazione psicoanalitica, hanno una caratteristica specifica: portano in sé le tematiche e le conflittualità tipiche dell’adolescenza, ad esempio le dialettiche tra identità e alterità, estendendole alla vita adulta. Si potrebbe dire che sono ‘l’altra faccia’ dell’adolescentizzazione della società. Se un Disturbo Narcisistico/Borderline di Personalità è, per lo meno in parte, fisiologico in età adolescenziale, esso diviene entità nosologica più avanti, quando si manifesta un’impossibilità per il suo tramonto, un impossibile accesso ad una personalità diversamente strutturata. Come se - in conseguenza dell’affermarsi della specificità del vissuto adolescenziale con le sue componenti narcisistiche e di ‘urgenza’ individualistica - si aggiungesse tra le due entità nosografiche di nevrosi e psicosi una terza, intermedia, che potremmo anche definire di normosi36 in quanto, seppur connotata da elementi di sofferenza e di incapacità a gestire la relazione con il mondo circostante, è coerente con le attese - spesso perverse - dell’ambiente sociale circostante. Al soggetto si offre la possibilità di trovare una qualche soddisfazione o appagamento delle sue istanze desideranti senza per questo dover usare il pensiero critico, il giudizio, la riflessione etica ed estetica su di sé e su ciò che si sta facendo, ma mirando più semplicemente al ‘consumo’ dell’esperienza gratificante. L’attività di pensiero - che darwinianamente è strumento di adattamento alla realtà e quindi di ricerca di soddisfazione del desiderio e di raggiungimento della meta pulsionale - sembra essere divenuta una funzione inessenziale e superflua se non dannosa. A. A. Semi a questo proposito scrive: “quanti individui pensanti autonomamente, soggettificati per quel che è possibile, può tollerare la nostra cultura? (…) Da tempo mi sto interessando alla decoscientizzazione, alla tendenza ad usare sempre meno il pensiero intellettuale cosciente e sempre più il pensiero preconscio”37. André Green ci parla a questo proposito di psicosi bianca38 riferendosi a una zona limite tra nevrosi e psicosi dove la posizione psicotica del soggetto è ‘senza psicosi’ (appunto bianca in quanto vuota di contenuti deliranti). La matrice di questa forma di psicosi è, scrive Green, nel conflitto tra pensiero e spinta pulsionale.

A conclusione di questo lungo paragrafo (fatto non casuale!) vorrei sottolineare un aspetto della questione che giustifica il titolo dato: Disturbi di Personalità/Esordi psicotici. Cosa unisce il disturbo di personalità all’esordio psicotico? Perché parlare di esordio e non di psicosi? La risposta è: il tempo dell’inizio e il tempo del decorso sono elementi caratterizzanti del fenomeno. Si è detto che ciò che accomuna l’esperienza adolescenziale al disturbo di personalità sono i contenuti mentali del lavorìo psichico e l’età di insorgenza. Sappiamo anche che nella quasi totalità dei casi l’esordio psicotico ha la sua prima manifestazione o la sua origine intrapsichica in un’età che è l’adolescenza. Ciò non è un fatto di poco conto. A me sembra, in base alla mia esperienza clinica, che la differenza tra curabilità/incurabilità dello psicotico sia determinata dal tempo trascorso dal suo esordio. Se si interviene precocemente, quando il delirio si sta installando nella mente del soggetto, il lavoro è possibile, talvolta perfino facile. Quando sono trascorsi molti anni dall’esordio ci si trova di fronte a gravissime difficoltà. La questione che sollevo qui, quindi, riguarda la cosiddetta ‘psicosi acuta’, la fenomenologia iniziale a rischio di cronicizzazione.

Le psicosi acute - diagnosi così frequente in età adolescenziale e così spesso connessa all’assunzione di sostanze psicoattive – sono considerate dalla psicopatologia fenomenologica, in particolare di K. Jaspers39, come il momento cardine per dare comprensione all’esperienza delirante. Esse ci pongono di fronte all’iniziale disorganizzazione dello scenario di vita, dell’esistenza. L’intrusione dell’esperienza di estraneità al mondo si manifesta in forma aurorale, come prima frattura tra sè e il mondo. Se lo sviluppo successivo non trova un ancoraggio nel reale attraverso un rapporto con un altro soggetto che abita la realtà (il terapeuta), inizia la ricostruzione delirante. Il soggetto ha bisogno di ‘raccontarsi un’altra storia’ per trovare una possibile neo-collocazione nel mondo. Anche il delirio – così ci ha insegnato Freud – è in qualche modo una ‘cosa’ mentale che ci tiene lontano dal desiderio, e che contemporaneamente lo afferma con disperazione. L’evoluzione clinica più frequente – se non vi è un intervento terapeutico adeguato e immediato – è il ritiro dalla società: quando va bene ciò avviene in famiglia ‘sotto farmaci’, quando va male in un calvario di istituzioni più o meno totalizzanti. Comunque lontano dal mondo della socialità. Dopo un certo periodo di tempo dall’esordio psicotico il soggetto è ormai cronicizzato in una condizione di separazione dal mondo delle relazioni che lo ha reso indistinguibile – per ciò che riguarda i suoi gesti quotidiani e i suoi processi di pensiero – dalla condizione depressiva. E’ ormai depresso.


Depressione e desiderio

A conclusione di questa rapidissima e appena accennata fuga attraverso le patologie che gli adolescenti più frequentemente ci presentano, mi verrebbe di segnalare ciò che a me sembra il ‘punto di fuga’ di ordine sociologico dei vari quadri, delle varie porte di sofferenza: la solitudine regna sovrana. Ciò che accomuna le varie figure patologiche è il richiudersi in una condizione di isolamento depressivo, di rinuncia al desiderio di incontrare altri esseri umani.

Se è vero, come si sta affermando, che in tutte queste sintomatologie vi è una radice di depressione, dobbiamo porci la domanda su ciò che sostiene questa tendenza alla positura depressiva. La risposta inevitabilmente mette in gioco questioni che non sono soltanto di interesse dello psicopatologo, ma investono sfere ben più ampie e complesse, che riguardano il funzionamento degli organizzatori mentali. René Kaës40 ci parla appunto di una frattura che è intervenuta nella nostra cultura, e che ha prodotto la perdita dei garanti metasociali e metapsichici, da cui non derivano soltanto le trasformazioni individuali, ma una nuova organizzazione dei rapporti tra le fonti di formazione dell’identità.

Perché questo destino depressivo che incombe? Una risposta possibile è: l’impossibilità del desiderio come generatore della sofferenza. Meglio dire: l’impossibilità a trovare uno spazio-tempo per il desiderare. La depressione è tradizionalmente (S. Freud) la forma più vicina all’annullamento del desiderio, al suo azzeramento. Si tende al raggiungimento di ciò che Sandro Gindro ha definito l’ultimo gradino della ‘discesa agli inferi’. Il depresso lotta contro il desiderio, tenta di non desiderare, ma non può riuscirvi. Rimane quella ‘macchina desiderante’ che lo obbliga alla relazione, alla ricerca dell’altro. L’unico dispositivo possibile è la presa di distanza dall’altro, l’allontanamento spaziale e l’azzeramento del tempo dell’incontro: la solitudine come pharmakon – nell’accezione antica del termine: sia veleno sia strumento di guarigione -. Il soggetto solo ha un desiderio inceppato, è impossibilitato a trovare lo spazio-tempo del desiderio perché manca l’altro, perché manca la pensabilità dell’altro.

Di fronte a questo destino che si rappresenta come un vicolo cieco della cura impossibile, con una capriola logica e retorica propongo una declinazione del desiderio che Sandro Gindro era solito ricordare come una sorta di mantra41. Si tratta di una formula – semplicissima in apparenza - che ha una struttura speculare, con una simmetria complementare barocca: me la rappresento come due scale sinuose che si incontrano al centro della facciata di un edificio cinquecentesco e ne permettono l’accesso. Provo a esporla nel modo più semplice possibile.

La formula è questa: il desiderio si compone di desiderio di piacere e piacere del desiderio. Il primo si riferisce al puro cercare la soddisfazione: ho fame, mangio, sono soddisfatto. Il cerchio si chiude rapidamente, è una sorta di ‘arco riflesso’ che segnala un’attività umana che potremmo definire sottocorticale. Non ha nulla di distruttivo in sé, anche se – da sola – non è pienamente umana. Il secondo è ciò che – si potrebbe dire – dà umanità e cultura al desiderio: desidero quella persona, cerco di capire le sue caratteristiche, i suoi gusti, mi coordino al suo desiderio, mi propongo, la ascolto, godo del mio desiderarla, la aspetto creando la situazione di un incontro d’amore. Il tempo diviene il luogo del desiderio. Il desiderare richiede la necessità di rappresentarsi in un tempo e uno spazio entro i quali poter collocare il possibile: il desiderio è una possibilità oltre che una mancanza, che ci espone al rischio del fallimento riguardo al suo soddisfacimento. Eppure il desiderio è il generatore della vita. Desiderare è accettare l’impossibilità possibile e al contempo costruire la profondità dell’esperienza di piacere. Il piacere del desiderio è un’esperienza piacevole nonostante l’assenza del soddisfacimento, ne costruisce la profondità. Il desiderare, l’attendere, il fantasticare il godimento, è pensiero che dà ‘cultura’ al desiderio, forma elevata di godimento dell’animale uomo.

Mi capita spesso di proporre questa formula agli operatori che lavorano con adolescenti – che siano psicoterapeuti, insegnanti, genitori, assistenti sociali – nel tentativo di dare una descrizione del loro ruolo: loro devono aiutare i ragazzi e le ragazze a trovare lo spazio-tempo per collocare il piacere del desiderio. Questo mi sembra il mandato contemporaneo di cui si dovrebbero far portatori gli operatori della salute mentale. A me sembra che ciò che caratterizza la nostra contemporaneità sia l’impossibilità del piacere del desiderio, che il disagio e la sofferenza degli adolescenti abbia una sua radice in questa impossibilità. E che la via d’uscita da questo vicolo cieco sia una cultura del piacere del desiderio.

Tornando all’inizio, possiamo ipotizzare una ragione che sostiene la radice depressiva delle ‘nuove’ sintomatologie adolescenziali: l’impossibilità di uno spazio-tempo per il piacere del desiderio obbliga ad assumere una positura depressiva, a tentare di negare il desiderio e accontentarsi di ‘oggetti’ di compenso.

Ma qualcosa di prezioso si può fare per contrastare questo destino che passa sopra e dentro le nostre teste.


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Note:

1 S. Freud, 1915, Pulsioni e loro destini, in Opere, vol. VIII, 1976

2 Cfr. S. Gindro, L’oro della psicoanalisi, A. Guida 1993, pag. 52 e segg.

3 S. Gindro, Luci e ombre sul progetto di uomo, in: R. Bracalenti (a cura di), L’adolescenza. Gli anni difficili, A. Guida 1993

4 S. Gindro, Psicoanalisi della gestazione, in: Psicoanalisi Contro, anno XII n° 6, 1995

5 S. Gindro, Luci e ombre sul progetto di uomo, in: R. Bracalenti, Adolescenza. Gli anni difficili, A. Guida 1993

6 S. Freud, L'interpretazione dei sogni, 1899. In Opere, vol. III, Boringhieri 1966

7 Secondo questa prospettiva la c.d. ‘evoluzione’ cognitiva durante l’età dello ‘sviluppo’ viene in qualche modo ribaltata, mettendo così in discussione e in critica tutta quell’area delle scienze psicologiche – di cui forse il maggior rappresentante è stato J. Piaget – che indaga la questione delle modificazioni del funzionamento cognitivo nei primi anni di vita secondo una prospettiva di ‘progresso’ strutturalmente indiscutibile e indiscussa verso la condizione di funzionamento adulto.

8 S. Gindro, Luci e ombre sul progetto di uomo, op. cit., pag. 67

9 S. Gindro, ibidem, pag. 65

10 R. Bracalenti, Introduzione, in R. Bracalenti, Adolescenza. Gli anni difficili, A. Guida 1993, pag. 11

11 Cfr. S. Freud 1929, Il disagio della civiltà, in Opere, Boringhieri 1978, vol. X

12 M. Benasayang, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli 2004

13 Cfr. E. Pozzi, Lo straniero interno, Ponte alle Grazie 1993

14 A. Casoni, L’adolescenza liquida. Una riflessione e revisione del concetto, in: A. Casoni, Adolescenza liquida, EDUP 2008

15 Nel percorso di riflessione che si sta tentando di sintetizzare qui è bene segnalare due libri che hanno scandito i passaggi. Un primo volume, nato da un convegno, è stato Adolescenza liquida. Nuove identità e nuove forme di cura, a cura di A. Casoni, EDUP 2008; un secondo, sempre nato da un convegno, è Il complesso del piccolo Hans. Nuove costellazioni edipiche?, a cura di A. Casoni, EDUP 2010, che ha dato seguito alla riflessione dall’adolescente alla sua famiglia, mettendo sotto critica la tradizione interpretativa del triangolo edipico.

16 J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi (1955-56), Einaudi 1955, pag. 378. Ringraziamo Franco Lolli che, con il suo libro Follia, psicosi e delirio (et al./Edizioni 2011) ci aiuta a ‘mettere in luce’ la teoria di Lacan.

17 Ciò è richiesto dall’impostazione ‘gindriana’ del lavoro del terapeuta, che, oltre all’inconscio individuale, non può non occuparsi dell’inconscio sociale presentificato dal soggetto che ha dinnanzi: “è vero talvolta che lo sguardo clinico – per sue caratteristiche strutturali, come ad esempio il suo operare entro la ‘torre d’avorio’ dello studio psicoanalitico – è strutturalmente impedito a dismettere le strutture interpretative della realtà che la sua teoria di riferimento gli ha consegnato, creando così una sorta di allucinazione negativa che gli impedisce di riconoscere gli aspetti di novità che i soggetti, nella stanza d’analisi, continuano a manifestare senza alcun effetto sull’ascoltatore. Grazie ad un lavoro di riformulazione teorica che è stato portato avanti da Sandro Gindro, il fondatore dell’IPRS, e centrato sul concetto di inconscio sociale (Gindro S., 1993), a noi sembra di poter vedere la tridimensionalità dei giovani contemporanei, senza lo schiacciamento sia sociologico sia psicopatologico” (A. Casoni, Adolescenza liquida, Edup 2008, pag. 36)

18 S. Gindro, L’oro della psicoanalisi, A. Guida 1993, pag. 83-92

19 Non si fa distinzione tra i termini ‘depressione’ e ‘melanconia’, che nella tradizione psichiatrica rappresentano due condizioni di gravità diverse: la depressione si riferisce alle forme ‘nevrotiche’ mentre la melanconia è riferita alle forme ‘psicotiche’.

20 S. Freud utilizza il termine “tentativo di guarigione” per interpretare il significato del delirio, in quanto ricostruzione di un possibile rapporto con la realtà (restituzione della libido agli oggetti) attraverso il meccanismo della proiezione. Cfr. S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (Caso clinico del presidente Schreber), Opere, vol VI, Boringhieri 1974

21 Cfr. C. Pierdominici, Intervista a Tamaki Saito sul fenomeno “Hikikomori”, in: www.psichomedia.it/ciberpatologia

22 P. Toohey, Boredom: A Lively History, Yale Un. Press 2011

23 P. Citati, Leopardi, Mondadori 2010, pag. 38

24 Cfr. S.J. Blatt (2004), Experiences of Depression: Theoretical, Research and Clinical Perspectives, American Psychological Association Press. Cfr. anche: AA VV, PDM Manuale Diagnostico Psicodinamico, R. Cortina 2008

25 S. Freud, Lutto e melanconia, Opere, Vol VIII, Boringhieri 1980

26 F. Lolli, Le depressioni contemporanee, in: M. Recalcati, Il soggetto vuoto. Clinica psicoanalitica delle nuove forme del sintomo, Erickson 2011

27 Ibidem, pag. 49-50

28 J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi (1955-56), Einaudi 1955

29 J. Lacan, “Del discorso psicoanalitico”, in: G. Contri, Lacan in Italia, La Salamandra 1978. Cfr. anche: S. Zizek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri 2009

30 M. Recalcati, Glaciazione del soggetto: dalla melanconia freudiana alla melanconia lacaniana, in: F. Lolli, Follia,Psicosi e Delirio, et al./edizioni 2011, pag. 22

31 In base ai dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il suicidio è la seconda causa di morte nella fascia di età che va dai 15 ai 24 anni (World Health Organization, 1999, Figures and Facts about suicide, Geneva). Si confronti sull’argomento: Z. Formella, A. De Filippo, Il suicidio in adolescenza: quando una vita deraglia, Alpes 2011

32 Cfr. Fabio Vanni, Giovani in Pronto Soccorso. Il corpo nelle emergenze psicologiche, F. Angeli 2009

33 Cfr. M. Recalcati, Il soggetto vuoto, cit.

34 H. Kohut, Narcisismo e analisi del sé, Bollati Boringhieri, 1977

35 O. Kernberg, Disturbi gravi della personalità, Bollati Boringhieri, 1988


36 Bollas C., L’ombra dell’oggetto, Borla 1999. Anche J. Lacan, a questo proposito, parla di “carattere ordinario” che possono assumere alcune forme di psicosi “attraverso una serie di identificazioni puramente conformiste a personaggi che gli daranno il senso di quello che bisogna fare per essere un uomo” (J. Lacan, Il sminario. Libro III, op. cit. pag 242)

37 Semi A. A., Verso la disumanizzazione?, in Psiche XIV, 1, Il Saggiatore 2006

38 Cfr. A. Green, La psicosi bianca, Borla 1992, e A. Green, Psicoanalisi degli stati limite, R. Cortina 1996

39 K. Jaspers, Psicopatologia Generale, Il Pensiero Scientifico 1964

40 R. Kaës, Il disagio del mondo moderno e taluni disturbi della vita psichica: caos nell’identità, difetti nell’identificazione, illusione della fine delle illusioni, in: Psiche, 1998, 1, Il Saggiatore, pag. 121-130. Cfr. anche: R. Kaës, La costruzione dell’identità in coppellazione all’alterità e alla differenza, Intervista di L. Preta, Psiche, 2002, 1, Il Saggiatore, pag. 192-195

41 S. Gindro, Eros e Bios, in Psicoanalisi Contro, II 1, 1979. ‘Mantra’ significa in Sanscrito una formula sacra, una preghiera o pratica meditativa che opera come veicolo o strumento del pensiero.



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