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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING ISTITUZIONALE
Centri per la Salute Mentale



Spazi di riflessione nelle istituzioni psichiatriche:
le supervisioni alle équipes

di M.C. Mantovani

(lavoro presentato al convegno "Strumenti Psicoanalitici in Psichiatria. Scenari Terapeutici con pazienti gravi" organizzato a Bologna, 24 Maggio 1997 dal Centro Psicoanalitico di Bologna)


In una lunga e articolata intervista comparsa su un quotidiano nazionale, Luciana Nissim Momigliano, psicoanalista prestigiosa e di impegno scientifico e sensibilità sociale indiscussi, invitava gli psicoanalisti del nostro tempo ad uscire dai loro studi "per imparare qualcosa di nuovo". E aggiunge: "Gli psicoanalisti si sono ritagliati i loro giardini, ma fuori ci sono gli psicotici e i ragazzi che tirano sassi".

Da anni, peraltro, molti psicoanalisti hanno fatto proprio l'impegno di entrare in contatto con la sofferenza psichica e mentale più grave, tentando strade fino ad un certo punto dichiarate inesplorabili dalla psicoanalisi e, soprattutto, diffondendo la cultura psicoanalitica all'interno delle istituzioni psichiatriche.

Particolarmente a partire dalla riforma psichiatrica del '78, sempre più numerosi sono i colleghi che sono usciti dai loro giardini per imparare insieme a chi lavora in prima linea nel campo della malattia mentale; per imparare, dicevo, quanto accade su quel fronte sia agli operatori, sia ai pazienti, sia alla stessa istituzione, impegnando il loro sapere e la loro ottica nella lettura del disturbo mentale grave e delle sue influenze e dei suoi riflessi su chi a tale disturbo offre la propria mente per istituzione e per vocazione.

Sono qui presenti colleghi autorevoli e di larga esperienza nel campo come Petrella, Berti Ceroni e Bolognini che in questi anni hanno praticato questa particolare attività producendo pregevoli lavori sull'argomento. A loro e a molti altri va il mio riconoscimento per quanto mi hanno insegnato nello svolgimento di questa particolare funzione che viene impropriamente chiamata "supervisione".
Il termine, infatti, è mutato dal training psicoanalitico e indica l'elaborazione del transfert e del controtransfert che intercorrono nella coppia paziente-analista al lavoro (Tagliacozzo, 1989).
In effetti, ritengo molto più corretto il termine di "consulenza" proposto da alcuni autori (Muscetta, 1986; Berti Ceroni, 1993).
Ma tant'è, il termine supervisione, ancorché improprio, è ormai diffuso per indicare l'attività che uno specialista, ritenuto esperto di disturbi mentali gravi, può esercitare nel lavoro con un gruppo di operatori psichiatrici che aspirino a saperne di più, alla luce della disciplina psicoanalitica, dei suoi strumenti e dei suoi metodi di approccio alla sofferenza mentale.

Anche la sottoscritta, da qualche tempo, ha aderito a questa iniziativa, segnatamente da quando è riuscita a comporre, lentamente e progressivamente, sempre con una certa fatica,, le sue due anime di psichiatra e psicoanalista. Anime che, per molto tempo, restarono scisse e che poterono comporsi, almeno consapevolmente e in maniera sintonica, solo quando raggiunse una discreta maturità personale e professionale, tale da ridimensionare le sue idealizzazioni e cessare di ritenere di serie A uno degli aspetti della sua professione, quello di psicoanalista, rispetto all'altro, quello di psichiatra, ritenuto difensivamente di serie B.
Eppure, ero stata una psichiatra fortunata per aver lavorato a lungo in una istituzione psichiatrica in cui il saper psicoanalitico e la prassi psichiatrica si erano sposate ineluttabilmente, grazie all'alta concentrazione di valorosi colleghi psicoanalisti operanti nella istituzione medesima, e questo in un'epoca un cui la psicoanalisi era vista come sospetta di rivoluzione pericolosa in certi ambienti.
Fui anche doppiamente fortunata per aver vissuto, nell'appartenere a quel gruppo, l'esperienza emotiva e affettiva grazie alla quale l'appartenenza al gruppo contribuisce in modo essenziale a determinare il senso di identità dei suoi membri (Zaccaria e Correale, 1986; Berti Ceroni, 1988, Correale, 1996).

È vero, tuttavia, che, in qualche modo, il lavoro nelle istituzioni psichiatriche può essere ritenuto "sporco" rispetto al rapporto duale, contrattualmente preventivato nel suo svolgersi secondo regole precise e ineludibili, sia da parte del paziente che da parte dell'analista; "sporco" perché obbligato ad occuparsi di tutte le richieste, le più svariate, da parte dei pazienti, delle loro famiglie e della società più allargata.

Un lavoro in cui spesso si è in obbligo di offrire cure e provvedimenti concreti a persone che non ne vogliono sapere; costretto nella strozzatura del tempo e dell'urgenza ad agire nel concreto e in situazioni drammatiche e imprevedibili, senza la possibilità di un tempo per l'ascolto e la riflessione che mettano lo psichiatra in grado di individuare il bisogno essenziale che il malato di mente esprime attraverso i suoi agiti e le sue richieste apparentemente incongrue.
L'impatto emotivo cui l'operatore di psichiatria è costretto spesso lo induce, proprio per una contraddizione intrinseca del suo lavoro, di cui parlerò tra breve, ad ascoltare meccanismi di difesa inconsapevoli, che lo mettano in grado di far fronte all'emergenza e con tutte le minacce che essa comporta.

Dicevo di una contraddizione intrinseca nel lavoro psichiatrico, rispetto al lavoro psicoanalitico, quella condizione che ha fatto si che la sottoscritta abbia tenuto ben separato il proprio operare in psichiatria rispetto a quello nel proprio studio.
E questo, credo, ha fatto si che tanti altri psicoanalisti, che si sono occupati di psichiatria, abbiano lasciato il lavoro psichiatrico, a volte tormentosamente, per ritirarsi nel privato.
Mentre lo psicoanalista, infatti, è tenuto ad un atteggiamento di attenzione fluttuante nell'ascolto e di rinuncia a qualsiasi scopo di guarire e curare il paziente, teso ad accettare di non sapere, ad accettare, in fondo, la realtà psichica della propria castrazione, lo psichiatra, come ogni medico, deve dissimulare le sue carenze e il suo successo viene fatto dipendere dalla sua autorità e dal suo desiderio di guarire il paziente (Diatkine, 1995).

Eppure le due funzioni di ascolto umile e "rispettoso" della verità dell'altro e, contemporaneamente, di impegno a prendere provvedimenti almeno contenitivi di emergenza terapeutica sono imprescindibili l'una dall'altra ed è imprescindibile la loro integrazione, se si mantiene l'ambizione di dare un senso a quel che si fa.
Per questo, e per altri motivi, mi piace pensare che valga per lo psichiatra quello che vale -eccome- per lo psicoanalista, e cioè che per essere psichiatra "occorra almeno un paziente e un collega".
E i pazienti non mancano.
Molto spesso, invece, possono mancare i colleghi con i quali sia possibile condividere l'esperienza realmente, in un rapporto di lavoro democratico al massimo.
Un gruppo di colleghi con i quali il dialogo attorno al paziente o al problema emerso nel lavoro possa essere stato trattato con quella preoccupazione amorevole con cui due genitori si occupano di un figlio in difficoltà.

Il lavoro dello psichiatra è necessariamente svolto in solitudine.
Anche quando nell'ambulatorio siano presenti altre persone (familiari, infermieri, ecc.), il contatto con la sofferenza psichica è diretta, da persona a persona, da inconscio a inconscio.
La comunicazione, spesso intensa e carica di dolore e di angoscia, è necessariamente vissuta da ognuno dei presenti che risponde empaticamente in rapporto alle proprie caratteristiche personali, alle proprie idiosincrasie e alle difese immediate che può instaurare di fronte ad una situazione altamente destabilizzante, come la malattia mentale.
Per questo e per altri motivi, si rende indispensabile un luogo di ascolto e di riflessione ulteriori in cui si possa ricostruire e dare un significato anche altro alla esperienza che si sta vivendo.
Spesso la comunicazione del gruppo di operatori di psichiatria non è facilitata, come non è facilitata in ogni gruppo che debba condividere in presa diretta lo stesso problema, e con compiti differenziati relativamente al ruolo di ogni componente l'équipe in questione.
Ma ritengo che tanto più nel lavoro di cui si occupa di malattia mentale sia facile entrare in circuiti persecutori di pensiero, per l'intensità della sofferenza che essa comunica e l'intensità delle proiezioni e delle identificazioni che si verificano per il contatto con pazienti portatori di nuclei psicotici potenti, informi, pervasivi, contagiosi e in buona part, inesprimibili come i cosiddetti pazienti "istituzionali" (Scala e Correale , 1987; Tagliacozzo, 1986).
"Spesso - cito Correale, 1981- in queste situazioni il discernimento fra il livello reale e il livello simbolico delle richieste dei pazienti è estremamente difficile ed il rischio di sovrapposizioni delle risposte - talora in contrasto tra loro - notevolmente elevato. Ne deriva una situazione di rumore assordante in cui sia al paziente che all'operatore è necessario gridare per farsi sentire".

Ora, un gruppo di lavoro abbastanza ben strutturato è in grado di riunire le parti frammentate e di fungere da luogo di ricomposizioni di tante unità separate (Neri, 1985). Il gruppo, come luogo di armonizzazione di queste parti, è capace di trasformare quella massa di fotogrammi fra loro separati, in una sequenza più ordinata e armonica, un film, nel quale si svolge una vicenda complessa, una vita leggibile nel suo procedere e nella sua storia.
Il gruppo come "porto", come luogo di ristoro e di approvvigionamento affettivo, emotivo e narcisistico da cui far scaturire la cooperazione in modelli più adulti (Berti Ceroni, 1988), è una situazione fortunata che, tuttavia, non si verifica facilmente, almeno per mia esperienza, in un gruppo di lavoro in psichiatria.

Molto spesso si assiste ad un atteggiamento di disinteresse o di noia, a un senso di fallimento, di svuotamento e di perdita di prospettiva con incapacità di rispondere emotivamente alle richieste dei pazienti, come è ben illustrato da Bolognini e da Trombini (1994). Cito: "L'energia psichica individuale sembra comportarsi come un fiume carsico: si infossa e sparisce in maniera misteriosa, inghiottita da voragini profonde rispetto alle quali l'osservazione dall'esterno si rivela spesso inefficace".
Gli autori sottolineano particolarmente, esaminando il fenomeno del burn-out, le coordinate psicologiche e psicoanalitiche che producono il verificarsi del fenomeno stesso, fenomeno che è estensibile ai gruppi di lavoro all'interno dei quali i meccanismi patologici possono evidenziarsi, e spesso in modo drammatico, che mette a rischio la funzione terapeutica che al gruppo è conferita, quando non ne determina il fallimento.
È spesso in tali situazioni che una figura esterna al gruppo viene chiamata ad intervenire, con il compito di allargare, dove sia possibile, gli spazi di riflessione intorno ai problemi che i pazienti pongono.
Questa, per lo più, è la richiesta ufficiale e manifesta.
Me ben presto l'osservatore esterno si rende conto per quali altri problemi, ben più urgenti, il gruppo di lavoro stia soffrendo.

Il gruppo di lavoro in difficoltà chiede spesso, infatti, di essere trattato come un gruppo di psicoterapia, di essere sanato nella propria sofferenza che non è relativa, almeno direttamente, all'oggetto di lavoro, ma concerne la difficoltà di potersi vivere come un gruppo che pensa e che è un grado di elaborare vissuti penosi di impotenza, apatia, confusione, persecutorietà, depressione, ecc. che attaccano la sua possibilità di lavoro (Correale, 1985).
Sono, queste, le situazioni che rendono più difficile, a volte vano, il tentativo dello psicoanalista di intervenire in modo efficace affinché il gruppo possa riprendere una capacità di pensare intorno ad un oggetto terzo, il paziente, per il quale è chiamato a prestare contenimento e cura.

E i nemici del gruppo di lavoro sono moltissimi, manifesti od occulti, interni od esterni.
In questi casi lo psicoanalista è chiamato ad esercitare la propria funzione avendo chiaramente in mente le necessarie distinzioni e differenziazioni di campo, se vuole enucleare da un contesto di sofferenza e di confusione un'area praticabile che gli permetta di introdurre anche la sofferenza di un elemento altro, il paziente, che apparentemente sembra dimenticato e divenuto del tutto marginale, nonostante sia stato designato come ambasciatore della richiesta del gruppo.
"Ambasciatore, si sa, non porta pena" secondo la prescrizione che si rese necessaria nel corso dei secoli per evitare che il rappresentante, l'ambasciatore cioè, fosse sottoposto alla punizione che al suo rappresentato sarebbe indirizzata.

E l'analista, a parer mio, è tenuto a far da garante perché questa legge venga rispettata, perché l'ambasciatore-paziente sia protetto dalle lotte e dalle "punizioni" che un gruppo di lavoro sofferente può comminare, in molti modo, e non solo con l'ostilità manifesta, ma anche con l'apatia, l'indifferenza, l'agire meccanico e ripetitivo di gesti che solo apparentemente hanno la forma della terapia ma non la sostanza, almeno per come la intendiamo normalmente.
Per questo ritengo che il lavoro del supervisore esterno debba essere rigorosamente eterocentrato e debba con molta cura mantenere la presenza del grande assente - il paziente - all'interno del gruppo (Bolognini, 1988).
In modo diverso sarà molto difficile evitare gli incidenti di percorso che determinano il fallimento del lavoro di supervisione.

Lo psicoanalista non può, infatti, non rendersi conto del malessere del gruppo, ma di questo malessere non può e non deve fare oggetto di discussione, pena lo scadere della pseudoterapia.
Una terapia, infatti, che avverrebbe sotto mentite spoglie: senza che le regole di un contratto realistico, chiaro, bilaterale, simmetrico e consensuale possano essere rispettate, così come si chiede siano rispettate le regole di ogni terapia, individuale o di gruppo che sia.
E lo psicoanalista supervisore deve avere dentro di sé questa chiarezza indispensabile.
Se si tiene conto che nel gruppo la sua immagine inconscia idealizzata, nel bene o nel male, ovviamente, è caricata di aspettative quasi magiche di panacea terapeutica o di intervento messianico, è abbastanza facile che l'analista si renda complice di questa idealizzazione, magari per segreto desiderio di formare una nuova scuola, di imprimere il suo personale sigillo al gruppo che gli ha chiesto aiuto e che lo gratifica di rispetto, deferenza e riconoscimento di un sapere-idealizzato a sua volta.

È un terreno scivoloso nel quale il narcisismo di ogni essere umano, analisti compresi, può cadere. E gli analisti, particolarmente addestrati nel loro lavoro a sopportare di non sapere, ad accettare, in definitiva, la castrazione - requisito fondante la raggiunta maturità - gli analisti, dicevo, potrebbero essere particolarmente vulnerabili alla lusinga dell'onnipotenza che una aspettativa idealizzata sembra potergli riconferire. La tentazione, insomma, di costituire con qualcuno - gruppo o individuo che sia - "la coppia più bella del mondo"; e questo direi, è un grande nemico dello psicoanalista consulente esterno e, conseguentemente, nemico di un buon lavoro di un gruppo di supervisione, tantopiù che le condizioni dei suoi interventi sono caratterizzati da incontri di breve durata (2-3 ore al massimo) con lunghi intervalli fra loro (2-3-4 settimane); e come giustamente afferma Bolognini (1988), il supervisore se ne va, ma il gruppo resta da solo con tutto il carico che interventi confusivi o pervertenti (Berti Ceroni, 1995) possono determinare, grazie allo stato di dipendenza che si instaura in una situazione narcisisticamente così investita.

Questo, ritengo, è il nemico principale. Ve ne sono molti altri che possono minare il lavoro di supervisione in primis, ma, soprattutto, la possibilità che il gruppo nel suo insieme, supervisore compreso, venga irretito nel polarizzare la propria partecipazione, in modo più o meno consapevole, contro qualcun altro ritenuto nemico vero o presunto del momento. Per esempio:
- contro il gruppo dei "fratelli separati", il gruppo dei colleghi che non si servono del modello psicoanalitico nel lavoro psichiatrico, magari, ad esso ostile;
- o contro chi dirige il gruppo (il primario, per es.) che per molti motivi può costituire il nemico, fantasmatico o reale, delle iniziative del gruppo. il gruppo, come del resto l'individuo, vive in modo conflittuale l'autorità e, spesso, in modo antitetico a quello con cui tenderebbe a vivere il supervisore. Devo dire che ciò è tanto più evidente quando il responsabile non partecipi al lavoro di supervisione. Proprio grazie alla sua assenza, egli veicola su di sé i fantasmi persecutori del gruppo. fantasmi che, se da un lato sembrano favorire una maggiore coesione e una maggiore libertà di comunicazione per l'assenza del controllore istituzionale, dall'altro producono il sequestro di una notevole parte di pensiero (Bion, 1977), parte che, pertanto, rimane muta e sorda alla possibilità di elaborazione e di cambiamento, così come muto e sordo è, necessariamente, che è assente;
- o contro l'amministrazione "matrigna" che non fornisce i mezzi adeguati ad un lavoro che, sopra ogni cosa, richiederebbe strumenti, luoghi e tempi di riflessione prima che di azione e di produttività, nel senso più burocratico del termine;
- o contro lo stato attuale in cui versano i sevizi, grazie alle restrizioni economiche e normative di cui sono continuamente minacciati e concretamente colpiti. Una situazione che fa vivere un sentimento diffuso e penoso (che anche il supervisore vive) di assenza di futuro. Ciò deriva particolarmente dalla precarietà degli operatori, dal loro rapido avvicendamento che produce una frammentarietà di interventi, una sorta di intercambiabilità di ruoli parallela a come essi si vivono intercambiabili rispetto alla struttura nella quale operano e rispetto ai pazienti (Carbone e Vertone, 1989). Una situazione in cui la conservazione mnestica ed emotiva della storia come tempo e durata, come contenitore all'interno del quale si svolgono le vicende della propria identità professionale e dell'identità dei pazienti con cui si viene in contatto, del valore della relazione terapeutica coi pazienti e gruppale con i colleghi è severamente compromessa.

Allo stesso modo è compromessa la capacità conseguente di vedere il proprio lavoro in uno sviluppo dinamico, in un processo passibile di costruzioni per il futuro, sulla scorta degli elementi del presente e della storia.
Di questo, ovviamente, risente non solo il gruppo degli operatori, ma anche il supervisore.
Soggetto alle stesse leggi di questa realtà, deve continuamente fare i conti con la propria precarietà e con i propri problemi inerenti la separazione e in modo da poter tollerare per sé e a far tollerare al gruppo le frustrazioni di cui insieme stanno soffrendo.
Ignorare onnipotentemente o negare questa realtà paralizza l'attività del gruppo che, per sfuggire al fantasma della separazione, reagisce o arroccandosi come in una fortezza assediata in cui si può mantenere l'illusione che il tempo non passi, purché non si sia "permeabili" al nemico o, molto spesso, demotivandosi ad ogni iniziativa terapeutica in una condizione pervasa dall'assenza di speranza o dalla disperazione.
Ma non è forse questo il nucleo originario costitutivo della malattia mentale grave, di cui, comunque, ci si deve occupare, se non proprio bonificandolo (questo richiede una visione di lungo futuro insieme), almeno, finché ci siamo, contenendolo?
E di nuovo, allora, il nemico diventa il paziente, con il suo carico di disperazione e di angoscia, di impermeabilità autistica e di onnipotenza distruttiva che pervade il gruppo dei curanti così facilmente recettivo a queste angosce e, particolarmente, in condizioni come quella descritta.

Lo psicoanalista supervisore è chiamato spesso ad elaborare questi e molti altri aspetti più o meno patologici che il gruppo degli operatori può presentare, ma deve poterlo fare o sforzarsi di farlo in modo per così dire tangenziale, tenendo a distanza la persecutorietà, senza aderirvi, e mantenendo la speranza che la sua funzione di allargare lo spazio per pensare possa permettere la creazione di quella "terra di nessuno" che consente a due squadre in conflitto di poter venire a patti, nella garanzia dell'incolumità reciproca.
Ritengo, e non solo io, che questa sia la funzione essenziale del supervisore.

Un allargare gli spazi che implichi l'instaurazione della distanza ottimale fra i vari componenti e il gruppo dei curanti e tra loro e l'oggetto della preoccupazione attuale - il paziente cioè -, tra il gruppo e il supervisore, tra il presente e il proprio passato, individuale e culturale (Hauthmann, 1985; Petrella, 1986; Tagliacozzo, 1986; Tessari et Al., 1989; Correale, 1993).

Un intervento, quello del supervisore, che riesca a dare una dimensione terza, la profondità, a quello spazio così facilmente confuso e tendenzialmente simbiotico e adesivo, a due dimensioni, in cui spesso i pazienti gravi ci trascinano.
È il compito, in altri termini, di conferire significati allo stare insieme e nell'occuparsi di una persona sofferente, di mobilitare un circolazione di idee che spesso restano ancorate al setting istituzionale - specialmente nei casi cronici - un setting che, si sa, resta muto per molto tempo (Bleger, 1967) e che, proprio per questo, diviene deposito degli aspetti più psicotici dell'istituzione, oltre che dei pazienti.
Un setting che può assumere valore di feticcio quando le risorse di pensiero del gruppo vengono meno e si deve fare ricorso ad agiti ideologicizzati per giustificare l'immobilità del processo terapeutico.
Vi riferisco, qui, al ricorso alle teorie genetiche-biochimico-organicistiche della malattia mentale o a certe teorie sociologiche o ad altri modelli di approccio come quello nosografico, che diventano feticcio quando escludono a priori la possibilità di dare significati altri all'operatore terapeutico.
Teorie-feticcio che, se sono rassicuranti per gli operatori, sono imbriglianti e immobilizzanti per i pazienti (Petrella, 1986).

Si formano, così, gruppi di devozione, più che di lavoro, che tendono ad escludere l'esistenza della poliedricità dell'essere umano e del suo procedere, per la sua sopravvivenza, di volta in volta, tra il genetico, il biologico, il sociale, il familiare, il mentale, lo psichico individuale, nel tentativo di armonizzare tutti questi aspetti e di trarre, dall'esperienza di essi, un accrescimento della conoscenza di sé , che lo mette in grado di armonizzarsi.
Ed è, questo, lo scopo per il quale lo psichiatra mette a disposizione la propria mente pur nelle situazioni pericolose e, insieme, affascinanti e perturbanti cui la malattia mentale lo cimenta e con un partner - il paziente - altamente inaffidabile (Bion, 1970).

Compito del supervisore, oltre alla creazione della distanza ottimale, all'immissione di elementi nuovi per pensare, al riconferimento di significati altri al lavoro che si sta svolgendo, all'alleanza col gruppo (qualunque sia la provenienza culturale dei suoi componenti) nell'occuparsi della sofferenza del paziente, il compito dell'analista supervisore, dicevo, può ritenersi riuscito quando riesce ad immettersi in una drammatizzazione ludica degli elementi inerenti il paziente, che via via il gruppo porta in seduta (Tessari e Ballerini, 1989; Ferrigni et Al., 1989).

Tutto questo, inevitabilmente, può verificarsi solo con una disponibilità di tempo e una garanzia di continuità di incontri del gruppo di supervisione.
Per mia esperienza e anche di altri (Muscetta, 1986; Petrella, 1986) occorrono almeno 2-3 anni perché il gruppo si formi e possa costituire un'alleanza di lavoro col suo supervisore, un tempo, quindi, che sia non troppo minacciato dalle separazioni, come dicevo poc'anzi, che farebbero vivere il lavoro come un "navigare a vista" e non come il procedere e il farsi di una relazione abbastanza buona e rassicurante per tutti i partecipanti; una relazione che favorisca la conoscenza personale e non solo tecnica di ognuno dei componenti, supervisore compreso.
E questo può avvenire, come sappiamo bene dall'esperienza con i nostri pazienti, quando vi sia continuità e coerenza. Solo a queste condizioni il ridimensionamento delle proiezioni reciproche e la caduta dele idealizzazioni possono avvenire, consentendo al gruppo nella sua interezza di agire, non più l'onnipotenza o l'impotenza, ma di rendersi responsabile del suo potere effettivo - quello terapeutico - e di utilizzarlo al servizio del paziente.

Cambiamenti questi che trasformano, quindi, anche l'identità personale dei componenti il gruppo oltre all'identità professionale, cambiamenti che, per non apparire catastrofici, devono avere la garanzia di una proiezione per il futuro nel quale sia possibile una ricostruzione del cosmos dal caos e, quindi, la riparazione.

Un gruppo abbastanza sano, non troppo perseguitato dall'interno per le diversità culturali dei componenti o per la presenza difensiva di sottogruppi o per un iperinvestimento affettivo fra i membri (Zaccaria e Correale, 1986) (che corrisponde ad esigenze troppo intensamente fusionali per tenere sospesa la persecutorietà implicita nelle situazioni di stretto confronto con gli altri operatori e con i pazienti (Anzieu, 1976)), o per la presenza di individui molto disturbati, o per fantasmi di separazione è in grado di raggiungere quella convivialità, quelle aree ludiche di regressione controllata e giocosa con funzione altamente coesiva che Bolognini (1997) identifica nell'esistenza di una cucinetta o di un fornellino e una macchinetta per il caffè attorno a cui riunirsi in modo informale a metà seduta di una supervisione.

Per finire, cercherò di riassumere i punti salienti dell'attività di una buona supervisione riportando ampiamente quanto espresso da Bolognini in un suo lavoro in corso che non posso che condividere appieno.
Una supervisione abbastanza buona è in grado di attivare la speranza, come elemento base per la riparazione degli aspetti di sofferenza patologica che nel gruppo possono verificarsi, costituendo una relazionalità gruppale sufficientemente protetta dalle incursioni degli elementi distruttivi che un eccesso di libertà espressiva o un difetto di responsabilità "genitoriale" da parte del supervisore può mettere in pericolo.
Ne derivano il senso di appartenenza e la capacità di condivisione emotiva dell'esperienza del singolo con il proprio paziente che consente la sinergia degli apporti ideativi ed elaborativi e che mettono il gruppo in condizione di fare una felice esperienza della propria creatività.

Alcuni autori (Neri,1986; Correale, 1989) segnalano l'esperienza di sollievo dopo una seduta di supervisione, un sollievo riferito certamente a questo sentimento di fiducia nella propria creatività e di scoperta, altresì, della capienza della propria mente felicemente aperta a nuovi accoppiamenti fertili.

Di pari passo vanno il rinforzo e la ridefinizione della identità personale e professionale emergenti dal buon clima di relazione e di collaborazione del gruppo di appartenenza e il recupero narcisistico che ne consegue.
Su queste basi fondanti l'identità personale e gruppale, le capacità riparative (come la speranza e la fiducia) hanno buon gioco nell'attivare il pensiero riflessivo al posto dell'azione ripetuta e l'avvio di processi integrativi, favoriti questi ultimi, dalla capacità di tollerare, all'interno di un gruppo, di non sapere.
Allora l'incertezza, il dubbio, la sospensione della domanda, anziché rappresentare fonti di angoscia, diventano gli elementi costitutivi di spazi creativi nuovi e prima d'ora inesplorabili.


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