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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING ISTITUZIONALE
Centri per la Salute Mentale


La relazione psicoterapeutica nel Dipartimento di Salute Mentale

Gianuario Buono, Sara Maradei, Elisabetta Perrone


Workshop presentato al Convegno della FIAP
“La psicoterapia nel villaggio globale”
Roma 9-11 Novembre 2012


Introduzione

La funzione del DSM sul territorio - originariamente di prevenzione, cura e riabilitazione del disagio psichico in tutte le sue manifestazioni – negli ultimi decenni si è gradualmente ridotta a mera attività di urgenza/emergenza. Ciò sia per motivi economici (sempre più ridotte risorse investite nella sanità pubblica e nella psichiatria in particolare) sia per un marcato ritorno della psichiatria (a livello culturale e ideologico) a un approccio di tipo organicistico. La conseguenza che ne deriva è una flessione della comprensione del disagio psichico - in relazione alla storia e allo sviluppo della personalità – a favore di una focalizzazione sul significato della malattia che si manifesta a seguito di un danno e/o di un malfunzionamento bio-fisiologico. A tal proposito, risulta molto interessante la discussione di Cassano (2002) sulla contrapposizione tra modello medico e modelli alternativi. In essa viene sottolineata la priorità dell’approccio medico che pone la malattia – e relativa sintomatologia – al centro del trattamento. In tale direzione si muovono molti approcci psicoterapeutici di tipo cognitivo-comportamentale, i quali tendono a spostare il focus dell’intervento sulla riduzione del sintomo (AA.VV., 2002).

Il progressivo appiattirsi su una dimensione d’urgenza ha spinto, quindi, il trattamento verso interventi di tipo farmacologico e contenitivo, lasciando poco spazio alla dimensione psicologica - e alla psicoterapia psicoanalitica in particolare - che necessita di tempi e spazi di riflessione. Mentre sembra possibile (anche se non auspicabile) una “psichiatria di corsa”, per quanto concerne la psicoterapia – e ancor più quando si parla di psicoterapia psicoanalitica – è difficile applicare tout court la stessa logica e gli stessi criteri.

Si è assistito così, negli ultimi anni, a un progressivo aumento della domanda di psicoterapia cui ha corrisposto una sbilanciata offerta sul mercato: il crescente numero di psicoterapeuti nel contesto privato si è accompagnato a una significativa diminuzione dell’offerta nel pubblico. La presenza degli psicologi nei Servizi risulta, a oggi, molto bassa e quei pochi - oberati di compiti istituzionali differenti - hanno finito, molto spesso, per sacrificare l’attività di psicoterapia, ritenuta troppo dispendiosa e lenta a confronto con una psichiatria che corre.

I meccanismi riportati sopra hanno determinato due effetti che meritano di essere citati: un maggiore ricorso agli psicofarmaci (spesso oltre l’effettiva necessità) e una restituzione, al territorio, della domanda senza alcuna risposta. Spesso, infatti, coloro che non trovano una risposta nel Sistema Sanitario Nazionale, tendono a non rivolgersi al privato. Ad esempio, nella situazione attuale di profonda crisi economica e sociale, i sentimenti di precarietà sul piano sociale ed economico tendono a trasformarsi in sentimenti di precarietà affettiva, con la conseguente insorgenza di disturbi d’ansia, di umore depresso, insonnia e così via. Tale riverbero sul piano psicologico genera un disagio psichico che si riversa sui Servizi, i quali tendono a rispondere con prescrizioni psicofarmacologiche, o a rinviare il disagio sul territorio dove, spesso, non riceverà alcuna risposta, a causa dell’impossibilità economica di sostenere i costi di una psicoterapia privata.

Psicoterapia Psicoanalitica nel contesto pubblico: Considerazioni sul setting

La possibilità di trasporre la psicoterapia, da un contesto privato a uno pubblico, appare un’operazione complessa, soprattutto se intesa come semplice riproduzione di un trattamento, all’interno del quale si concretizza un rapporto a due, tra un terapeuta e un paziente. La psicoterapia, in un contesto pubblico, deve tener presente alcune peculiarità relative alla diversità del setting.

In primo luogo, devono essere effettuate considerazioni legate ad aspetti concreti del setting, tra i quali la struttura fisica del Dipartimento, l’organizzazione degli spazi e dei tempi, la relazione con un’équipe (in luogo di un singolo professionista) e, infine, il tema del pagamento. In secondo luogo, bisogna considerare gli aspetti legati alla valutazione di efficacia-efficienza dell’intervento psicoterapeutico, che sono peculiari di un contesto come quello del SSN, soprattutto in una fase di forte riduzione delle risorse. Esistono, infine, importanti considerazioni di tipo tecnico, strettamente collegate alle precedenti, che riguardano l’alleanza terapeutica e le dinamiche transferali, i meccanismi di difesa e il lavoro di équipe, senza dimenticare il rapporto tra trattamento nel suo complesso e singoli interventi.

Aspetti concreti

La relazione psicoterapeutica, nel servizio pubblico, non discende direttamente da un contatto diretto tra paziente e terapeuta, in quanto il primo contatto del paziente è con la struttura e, spesso, con gli infermieri della stessa, che raccolgono la richiesta sulla base dell’impegnativa del medico di base o in forma diretta. Ciò implica che il contatto dello psicoterapeuta con il paziente sia, all’inizio, mediato da quello con la struttura nei suoi aspetti fisici, con l’operatore che accoglie la richiesta e con l’équipe che la valuta. Può verificarsi, dunque, che sin dall’inizio si predisponga una sorta di “transfert strutturale”, portatore di un complesso di aspettative e determinato dal rapporto con una struttura deputata al trattamento del disagio mentale.

Alessio, medico del lavoro, arriva al Servizio facendo richiesta di una visita psichiatrica, perché i farmaci che sta assumendo “non funzionano” e per una totale intolleranza agli effetti collaterali. Negli anni, racconta, si è rivolto a diversi professionisti per capire quale sia il suo problema - “cosa c’è che non va” - senza però ottenere risultati (o diagnosi) soddisfacenti. Le difficoltà nella compliance farmacologica (sospensione e non continuità nell’assunzione, continua richiesta di sostituzione e sperimentazione di nuove medicine, lamentele circa gli effetti secondari) inducono lo psichiatra, dopo una serie di incontri, a consigliare un parallelo percorso psicoterapeutico. Le sue modalità, di fatto, rendono una qualsiasi farmacoterapia inefficace, oltre a risultare inappropriata se pensata come unica risposta al proprio “malessere” che, forse, ha significati molto più profondi. Alessio accetta e inizia così, dopo un’iniziale valutazione psicologico-clinica, una serie di incontri ai quali partecipa saltuariamente e che si interrompe - dopo circa otto mesi – a causa di problemi personali della psicoterapeuta. E’ inserito, quindi in lista d’attesa e vi permane per qualche mese, fino a quando è ricontattato per iniziare un nuovo percorso con una nuova psicoterapeuta, questa volta specializzanda.

Alessio, in estrema sintesi, arriva al primo colloquio dopo tutta una serie di fasi: accoglienza (con gli infermieri), psichiatrica/farmacoterapica (con lo psichiatra), valutazione e psicoterapia (con la psicoterapeuta) e, infine, nuova psicoterapia (con la psicoterapeuta specializzanda).

Un altro elemento fisico è determinato dagli spazi della struttura, per esempio, dalla sovrapposizione degli interventi e dal contatto con un’utenza che può essere molto più variegata rispetto a quella usualmente presente in uno studio privato.

Valentina giunse in terapia sconvolta e arrabbiata dopo aver assistito, in sala di attesa, a un intervento di urgenza, che aveva coinvolto le forze dell’ordine. Il lavoro del terapeuta dovette concentrarsi primariamente sull’analisi dei sentimenti connessi a tale episodio. Quei sentimenti avevano, infatti, prodotto nella paziente un violento transfert negativo verso il terapeuta, identificato con gli aspetti persecutori del servizio psichiatrico.

La gestione degli appuntamenti è, spesso, mediata dal personale infermieristico, che interviene nella relazione, finendo con il costituire vissuti transferali differenziati. In relazione alle modalità comunicative degli operatori, il paziente può viversi come perseguitato o accolto, a seconda delle rispondenze individuali ai diversi atteggiamenti degli operatori stessi. Anche questo elemento del setting va analizzato. Una paziente dedicò un’intera seduta a classificare il personale infermieristico in base a come si sentiva trattata, dando delle accurate descrizioni personologiche dei diversi operatori con cui aveva avuto contatto, permettendo al terapeuta di evidenziare le sue modalità relazionali e il ruolo che ella assumeva a seconda della percezione dell’altro.

Alessio mostra gravi problemi relazionali e difficoltà nello sperimentare rapporti intimi, profondi ed emotivamente intensi. La relazione è caratterizzata dalla pretesa e negazione dell’esistenza dell’altro. Per esempio, nonostante gli venga fornito un numero diretto per comunicare con la psicoterapeuta, Alessio preferisce utilizzare quello ‘mediato’ del Servizio, sia per disdire sia per variare orario e data di un appuntamento. Al telefono con gli infermieri, nella maggior parte delle occasioni, esige che gli sia fissato un appuntamento (psichiatrico e/o psicoterapico) quando lui è disponibile e, inoltre, se trascorre del tempo prima che gli si risponda, si rivolge alla persona sgarbatamente, arrabbiandosi e alzando la voce, non consentendo alla persona dall’altro capo del telefono alcuna obiezione.

Tecnicamente, ciò vuol dire allargare, all’intera struttura del DSM, l’analisi degli aspetti concreti e comunicativi legati al setting. Tali aspetti, infatti, come sostenuto da Robert Langs (1985), influenzano lo strutturarsi della relazione tra l’analista e il paziente.

Un elemento che, invece, sottolinea l’appartenenza della psicoterapia alla specialistica ambulatoriale è rappresentato dal fatto che il terapeuta potrebbe essere vincolato a occuparsi del paziente, anche quando reputa di non poter essere di aiuto. Il paziente, infatti, avendo una richiesta del medico di base, ha comunque diritto alla prestazione. Il problema dell’invio non è irrilevante e, spesso, vincola il terapeuta a interventi che possono non essere in linea con la sua personalità e il suo approccio. Per esempio, l’assenza di servizi di psicologia oncologica sul territorio potrebbe creare nel terapeuta dei complessi vissuti controtransferali, quando costretto a prendere in carico il paziente, pur non avendo una formazione specifica sul tema. O ancora, in tutti quei casi in cui la motivazione alla psicoterapia non nasce da una decisione del paziente ma è “prescritta” dal giudice, dai servizi sociali o da altra istituzione, che “impongono” al paziente il trattamento.

È fondamentale analizzare la dinamica dell’invio, in quanto informa sulle fantasie e le “aspettative, del paziente, circa la relazione con lo psicologo e il proprio ruolo all’interno del setting clinico” (Grasso, 2010).

Matteo è un uomo di circa 45 anni e frequenta il DSM da più di dieci. Viene inviato al Servizio dal suo medico di base, che dopo due cicli di cure farmacologiche fallite, gli suggerisce di parlare con uno psichiatra ed eventualmente iniziare dei colloqui psicologici. Risulta interessante, a tal proposito, una frase pronunciata dal paziente durante un colloquio: “Tutti i medici che mi hanno seguito, alla fine, mi hanno detto che dovevo fare una psicoterapia”. La psicoterapia diventa, dunque, assimilabile a una prescrizione farmacologica, è una cura dotata di una funzione salvifica: agire laddove il farmaco non è riuscito a curare. Il terapeuta, quindi, fantasmaticamente rappresenta colui che ha il compito di salvare il paziente dalla malattia. La domanda portata dal paziente è, dunque, una “domanda di trasformazione” in cui sembra delegare totalmente lo psicoterapeuta e il Servizio stesso, ma in realtà agisce un controllo onnipotente che di fatto blocca qualsiasi tipo di cambiamento (Grasso, 2010). Matteo non si predispone al cambiamento, in quanto ciò implicherebbe un agire in prima persona, come protagonista del proprio percorso terapeutico, inoltre non riesce a definire gli obiettivi, perché definirli significherebbe decidere di affrontare realmente le proprie difficoltà e assumersi la responsabilità di modificare assetti non funzionali.

Un ulteriore aspetto concreto, che può mutare il setting, è rappresentato dal costo della prestazione. In ambito pubblico tale costo è legato al pagamento del ticket, che rappresenta una cifra poco significativa e, spesso, scarsamente vincolante rispetto al privato. La suddetta modalità di pagamento non solo incide sulla motivazione del paziente ma anche su quella del terapeuta, in quanto la sua retribuzione non è collegata all’effettuazione della prestazione, come nel privato. È il caso, non infrequente, di quei pazienti che non hanno motivazione a intraprendere una psicoterapia ma vogliono conservare la possibilità di recarsi saltuariamente dallo psicologo per una “chiacchierata” o per “confessare” qualcosa.

Alessio, sin dall’inizio della psicoterapia e farmacoterapia, manifesta chiare riluttanze riguardo la questione “impegnative”: asserisce di non poter andare dal proprio medico di base per le prescrizioni, adducendo problemi lavorativi, di tempo e problematiche generiche, apparentemente, irrazionali (“Ha uno studio in un garage, con una di quelle porte a vetri…”). In un’occasione, ne porta due insieme (“Così stiamo tranquilli per un bel po’ di tempo!”), in un’altra chiede se possano essere scritte dallo psichiatra stesso, atto che gli eviterebbe di “andare laggiù fino dal medico”. Numerosi colloqui sono stati effettuati completamente svincolati dal fattore economico, sia per il paziente (nessun pagamento per la prestazione) sia per la psicoterapeuta (nessuna retribuzione per la prestazione).

La problematica del costo della prestazione ha, anche, un altro risvolto importante, legato alla valutazione dell’esito in termini di efficacia-efficienza. Se, nel contesto privato, la soddisfazione del paziente-cliente è l’aspetto prevalente dell’efficacia della psicoterapia, in quello pubblico tale elemento non può essere preponderante. Il contenimento della sintomatologia e/o la riduzione della terapia farmacologica e dei ricoveri rappresentano, infatti, compiti di istituto del Dipartimento di Salute Mentale. All’interno di questo contesto, dunque, la psicoterapia, in quanto intervento appartenente a un trattamento più ampio, che può comprendere psicofarmacologia, riabilitazione e assistenza, deve necessariamente confrontarsi con tali elementi. In termini pratici, la valutazione dell’esito implica, anche, la possibilità che la psicoterapia abbia dei limiti temporali e che il terapeuta si confronti con gli altri operatori, per verificare se il proprio lavoro stia andando nella giusta direzione. D’altra parte nella psicoterapia psicoanalitica, solitamente, non si stabilisce a priori la durata del percorso, a meno che non si tratti di un intervento psicoterapico breve. Il concetto di tempo in psicoterapia ha suscitato molto interesse. Modell (1994), per esempio, riprendendo Jaques, ha sottolineato la distinzione tra due differenti modi di organizzare il tempo: Chronos e Kairos. Chronos, rappresenta il tempo lineare, che è oggettivo e impersonale e ci mette a confronto con la finitezza della nostra esistenza e, dunque, con la morte. Kairos, invece, rappresenta il tempo ciclico, cioè il tempo umano, relativo ai nostri scopi e alle nostre intenzioni. È caratterizzato dall’atemporalità, non vi è un passato, un presente e un futuro, ma tutto si ripete in modo ciclico, così come accade negli anniversari o nel susseguirsi delle stagioni. Il cambiamento terapeutico è essenzialmente la riorganizzazione dell’esperienza del tempo. Attraverso il transfert, il paziente, può risperimentare il trauma all’interno di un nuovo contesto o sperimentare per la prima volta ciò che è stato assente nel passato. Nei casi in cui vi è stato un trauma, dunque, vi è un rivivere continuamente il passato, a scapito del presente e del futuro. Riprendendo Freud, Modell sottolinea come i ricordi rimossi vengano riattivati dalle esperienze percettive attuali. Sono queste ultime a consentire una ricategorizzazione delle esperienze affettive passate. È quanto accade, appunto, nel processo di ritrascrizione della memoria (Nachträglichkeit). La teoria della Nachträglichkeit è un riconoscimento che il tempo psichico non è l’equivalente del tempo lineare e oggettivo. Il tempo è circolare; una sola volta non è sufficiente […]. Freud, infatti, attribuiva alla memoria e all’esperienza del tempo un carattere trasformativo (Ibidem).

Nel caso di Matteo, il DSM, negli anni, ha colluso con la domanda del paziente, finendo con l’instaurare una relazione caratterizzata da un tempo infinito. Il paziente viene accolto e la sua psicoterapia diventa infinita. Prima di iniziare l’ultimo percorso terapeutico, Matteo era stato seguito da tre psicoterapeuti diversi, nel contesto di due psicoterapie singole e una di gruppo, interrotte, a suo dire, perché gli psicoterapeuti avevano lasciato il Servizio e, in riferimento al contesto di gruppo, perchè sentiva di non avere abbastanza spazio per affrontare i propri problemi. È solo nel momento in cui il terapeuta ricorda a Matteo che il percorso psicoterapeutico si avvicina alla fine (a causa della conclusione del contratto di tirocinio), che si inserisce un tempo lineare all’interno di un tempo ciclico. Il paziente entra in crisi e inizia a interrogarsi sul senso del proprio stare in psicoterapia. La proposta di affrontare e analizzare la conclusione consente a Matteo di fare i conti con il proprio atteggiamento di delega. Inizia a lamentare una sensazione di disagio e malessere, in quanto non sa più se desidera essere assegnato, come in passato e, quindi, come di consuetudine, a un nuovo psicoterapeuta. Comincia a chiedersi se la propria psicoterapia sarà infinita e riporta un cambiamento di atteggiamenti e vissuti nei confronti della stessa: si è sempre sentito quasi in balia della psicoterapia, passivo e confuso, ora sente che lo accompagna, ma inizia a domandarsi se sia necessaria e, soprattutto, fino a quando. Matteo non era riuscito ad assimilare e modificare la propria esperienza del passato nel tempo presente. Non aveva avuto luogo il processo di ritrascrizione della memoria (Nachträglichkeit). L’introduzione di un tempo lineare, ha dunque consentito al paziente di modificare la propria esperienza del tempo, favorendo così l’inizio di un processo di trasformazione. Matteo inizia a sentirsi in grado di riprendere in mano la propria storia. Una storia che sembra aver affidato per anni al DSM e che, dunque, ha tenuto a distanza perché fonte di confusione.

Come si affermava nell’introduzione, una psichiatria di corsa ha necessità di risultati e, per quanto poco condivisibile come approccio, non deve essere contrapposta a una psicoterapia che si isoli e si estranii dal resto della psichiatria, cessando di produrre risultati. La valutazione dell’esito comporta che il terapeuta si chieda, costantemente, se il trattamento psicoterapeutico che sta effettuando sia il più idoneo in quel momento e se non ci siano alternative economicamente più idonee.

Aspetti tecnici

Gli aspetti concreti del setting, discussi nel precedente paragrafo, definiscono un contesto in cui è fondamentale operare per mezzo di un approccio tecnico flessibile, che possa adattarsi alle esigenze della relazione terapeutica di volta in volta considerata. In tema di flessibilità dell’impianto tecnico, resta indubbia - in un Dipartimento di Salute Mentale - la maggiore elasticità della psicoterapia psicoanalitica rispetto alla psicoanalisi classica.

Il confronto tra psicoterapia e psicoanalisi rappresenta uno degli argomenti più discussi in relazione alla teoria della tecnica psicoanalitica e vanta autorevoli contributi sia in campo internazionale (Gill, 1954, 1984), Eissler (1958), Sandler (1982), Wallerstein (1989), sia nel panorama italiano (Foglio Bonda, 1987; Migone, 1995).

La diversità tra i due modelli, prima dell’introduzione del succitato dibattito, appare concentrata sull’obiettivo dell’analisi: la psicoanalisi favorisce la regressione e attiva il transfert, la psicoterapia psicoanalitica privilegia il rapporto con l’Io del paziente e la sua capacità di relazionarsi al terapeuta secondo modalità più collaborative. Nella psicoterapia psicoanalitica permane l’atteggiamento analitico (struttura e analisi di difese, relazioni oggettuali, transfert, etc.), ma il lavoro si basa prevalentemente sul qui e ora e sul disagio attuale della persona. Gli elementi estrinseci del setting – tra cui frequenza delle sedute, uso del lettino o della tecnica vis a vis, selezione dei pazienti, ecc. – restano le discriminanti dei due modelli.

In tema di dibattito, uno tra gli articoli citati (Gill, 1984), propone una concezione molto allargata di psicoanalisi, che la rende applicabile ai setting più diversi: spostando l’accento sugli aspetti intrinseci e rileggendoli in chiave “interpersonale”, sottolinea che, al di là delle differenze tecniche, la psicoanalisi consiste, nelle linee essenziali – nell’analisi della relazione con il paziente, qualunque setting si adotti o in qualunque situazione clinica ci si trovi. Nei lavori che seguirono la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica fu sempre meno enfatizzata (se non per ragioni di mercato o di ortodossia teorica).

Come sin qui argomentato, la psicoterapia condotta in un Dipartimento di Salute Mentale comporta la considerazione di un meta-setting costituito dalla struttura nel suo complesso, che va a definire la relazione operatore-utente in merito a diversi aspetti tecnici.

Greenson (1974) definisce l’alleanza terapeutica come il rapporto tra l'Io del paziente, o meglio le funzioni conservate e integre dello stesso, con l'Io dell'analista; il setting come il metodo da questi proposto mentre il transfert come la tendenza del paziente a spostare sentimenti, vissuti, ansie, desideri, ecc. (legati a relazioni storiche) nella situazione analitica. L’alleanza terapeutica può essere definita, quindi, un processo continuo che attraversa il lavoro analitico, consentendo di costruire uno spazio di comprensione condivisa rispetto al disagio, al metodo e agli obiettivi. Tematica che diventa cruciale all'interno di un trattamento integrato come quello in un Dipartimento di Salute Mentale, nella misura in cui tale spazio si allarga fino a comprendere, contemporaneamente, la persona del paziente e quelle degli operatori.

In un contesto come quello del DSM, quindi, il rapporto tra alleanza terapeutica e transfert arriva a comprendere elementi appartenenti al DSM stesso. Potranno verificarsi una salda alleanza terapeutica tra paziente e analista contrapposta a una pessima alleanza terapeutica tra paziente e struttura oppure un vissuto di un transfert negativo nei confronti dell’analista che porta il paziente a “fuggire” dal setting analitico per rifugiarsi in quello più ampio della struttura.

Nel corso della psicoterapia intrapresa con Matteo si è lavorato molto sulla relazione: la costruzione di un’alleanza terapeutica con il paziente ha richiesto molto tempo e fatica e, nonostante ciò, sembrava poter essere messa in discussione in ogni momento, soprattutto quando il paziente percepiva una vicinanza con il terapeuta. Vicinanza probabilmente temuta per la paura di dipendere affettivamente da un’altra persona, che inevitabilmente, nell’ottica idealizzante e svalutante tipica di Matteo, indicherebbe un’idealizzazione del terapeuta a scapito di se stesso. Il terapeuta rappresenterebbe la figura materna, incoerente e spaventante, che il paziente ha interiorizzato durante la propria infanzia. Nella sua ottica è, dunque, necessario, mantenere quella distanza che gli consenta di rimanere lucido e razionale. Per quanto riguarda la relazione che Matteo instaura con il Servizio, nonostante lo frequenti da moltissimi anni, se ne tiene a distanza ed evita qualsiasi forma di contatto con il personale medico e infermieristico, eludendo persino il saluto. D’altra parte Matteo è già stato seguito da tre diversi psicoterapeuti, quindi sa bene che, all’interno di un contesto pubblico, è più difficile, rispetto all’ambito privato, portare avanti una relazione terapeutica, senza il rischio di incorrere in un pensionamento, in una scadenza del contratto di assunzione o del contratto di tirocinio. Matteo è stato più volte coinvolto in relazioni interrotte, sia nella propria storia di vita affettiva e lavorativa, sia nella propria storia terapeutica. Il timore di vivere ancora l’abbandono genera difficoltà nell’affrontare le separazioni. Matteo si sente scomodo nelle relazioni e, poiché teme che l’altro prima o poi lo lascerà, si ritira in se stesso.

Per tali ragioni, in un Dipartimento di Salute Mentale l’alleanza terapeutica va ri-dimensionata a un setting più ampio in cui tutti gli operatori diventano oggetto di proiezioni, identificazioni e vissuti transferali. I meccanismi di difesa, soprattutto quelli più primitivi come la scissione, la proiezione e l’identificazione proiettiva sollecitano non solo il terapeuta ma l’intera équipe, che può colludere con esse o sfruttarle in termini terapeutici. La riunione clinica diventa, per tali motivi, un indispensabile strumento di lavoro per il terapeuta per comprendere e rielaborare le immagini del paziente suscitate nei e dai diversi operatori (Gabbard, 2007).

In alcuni casi, si può osservare come lo spazio entro cui si svolge psicoterapia arrivi a includere l’intero Servizio, e quindi le differenti figure professionali (gli infermieri vissuti come frustranti o il primario come una sorta di deus ex machina capace di rimettere ciascuno al proprio posto). I meccanismi di difesa di proiezione, scissione e identificazione proiettiva possono operare a diversi livelli in una struttura psichiatrica, in primo luogo sulla natura terapeutica della struttura stessa (i pazienti si rivolgono non al Terapeuta o all’Operatore ma al Dipartimento). A tal proposito è interessante il concetto di campo “tripersonale” – proposto da Masina - e citato da Grasso (2010) secondo cui il setting all’interno di situazioni cliniche di invio, non può non tener conto della “terza persona che, seppur fisicamente assente, prende parte “fantasmaticamente” al processo di intervento”. Ciò comporta due ordini domande: innanzitutto se la struttura debba essere concepita come un contenitore di trattamenti o come un trattamento nel suo complesso e, ancora, se si abbia a che fare con una giustapposizione d’interventi o un unico intervento ma molto complesso.

Considerare la struttura come contenitore permette di separare e scindere i luoghi, i ruoli e le funzioni, permette di tenere separati la riabilitazione e la terapia, l’intervento medico da quello psicologico, quello psicologico da quello sociale e così via, in una progressiva scissione che fa da specchio a quella portata dal paziente. Considerare la struttura come un’unità che garantisce un trattamento che si esprime a livelli multipli, medico, psicologico, sociale e riabilitativo, vuol dire integrare gli interventi in un trattamento che agisca sul paziente nella sua complessità e totalità.

Il delicato rapporto tra psicoterapia e farmacoterapia ne rappresenta un esempio. Un rapporto vissuto spesso come scisso e non sempre considerato nell’ottica di una possibile e doverosa integrazione. Su tale rapporto è possibile effettuare alcune osservazioni. Una prima osservazione è relativa alla complementarietà nei tempi di azione e nell'effetto sulla qualità dei disturbi. La farmacoterapia agisce in più breve tempo sul sentimento di disagio e sulla sintomatologia, mentre la psicoterapia ha un’azione più lenta e più duratura nel tempo. In secondo luogo, l'effetto dei farmaci appare principalmente centrato sull’inibizione del meccanismo di formazione dei sintomi e sul livello di disagio affettivo avvertito, la psicoterapia incide, prevalentemente, sulla qualità delle relazioni interpersonali e dell'inserimento sociale. Una seconda osservazione è relativa alla constatazione che anche il più puro intervento farmacologico si colloca in una dimensione relazionale e non può essere svincolato da considerazioni legate ai significati e ai sentimenti che si creano nella coppia medico-paziente. Una terza osservazione inerisce la funzione di sostegno reciproco tra i due interventi. Per esempio, in quei pazienti i cui livelli di angoscia sono talmente elevati da impedire la collaborazione alla terapia o in altri fortemente inibiti da non riuscire ad associare, un intervento psicofarmacologico permette di instaurare o sbloccare la psicoterapia. Ancora, la compliance risulta maggiormente efficace attraverso la combinazione dei due interventi. Il rifiuto o l'assunzione di un farmaco, infatti, può assumere un significato relazionale: la prescrizione può essere vissuta come tentativo di controllo da parte del terapeuta, come forma di nutrimento o dono, o ancora come dichiarazione d’incapacità a contenere l'angoscia del paziente attraverso strumenti psicologici (Buono, 2007). Come osserva il gruppo di lavoro di Kernberg (2000) "la non compliance farmacologica può anche rappresentare un veicolo di identificazione proiettiva. Ad esempio, i sentimenti di impotenza del paziente possono essere proiettati e indotti nel terapeuta, reso impotente rispetto a ciò che il paziente fa con i farmaci prescritti".

Durante l’ultimo periodo di psicoterapia - prima della definitiva interruzione – si discutono, sia in equipe sia con Alessio, le difficoltà e i miglioramenti percepiti nonché le aspettative rispetto al lavoro futuro. Per quanto riguarda il trattamento, si è instaurato un certo livello di alleanza terapeutica che, seppur estremamente fragile, permette ad Alessio di concedersi un iniziale confronto circa le proprie modalità relazionali nonché la verbalizzazione della paura nell’incontro con l’altro; ancora, gli consente di accennare la ricerca dei significati sottostanti la continua richiesta di modifica e lamentela sugli effetti collaterali dei farmaci. E’, inoltre, un momento di continuità negli incontri, di riduzione del numero di telefonate al Servizio e realizzate esclusivamente per comunicare un ritardo o un’assenza. Si nota un certo cambiamento nel rapporto con gli infermieri i quali, non si sentono più “assaliti” dalle sue pretese e “maleducazione”. Infine, il rapporto con lo psichiatra appare più sereno: telefonate dai toni pacati e non impositive si sostituiscono a quelle cariche di emozionalità confusa e “urgenze” farmacologiche; contemporaneamente, migliora la compliance e, quindi, gli incontri si svolgono in un’atmosfera rilassata e tranquilla, il che permette di confidarsi in merito a problematiche per lui fortemente invalidanti.

Durante gli incontri riferisce la propria soddisfazione per il percorso e “l’enorme fatica” nel portarlo avanti. Non riesce a spiegare chiaramente perché e in che modo la psicoterapia gli sia di aiuto, parla di forti “sensazioni” provate per la prima volta nella vita e che, però, non sa in alcun modo gestire. E’ molto spaventato dalla diversa e nuova consapevolezza del proprio sentire e dalle possibilità che questa possa concedere, anche solo in via teorica e astratta. Alessio non è pronto a rendere questa parte di sé prolungatamente sperimentabile e ciò - attraverso la riproposizione di modalità relazionali regressive attivate all’inizio della psicoterapia - conduce, inevitabilmente, all’interruzione del trattamento e, in ultima analisi, alla rottura della relazione. In una sequenza circolare che parte dal Servizio (richiesta di una visita psichiatrica) e al Servizio ritorna, dopo aver comunicato la propria volontà di interrompere i colloqui, chiede – attraverso una telefonata successiva – che intervenga il primario a provvedere per un nuovo psicoterapeuta al quale essere affidato.

 

Conclusioni

Gli argomenti sviluppati nel presente lavoro dimostrano come la psicoterapia psicoanalitica possa essere condotta, all’interno di un setting di servizio pubblico, in maniera proficua ed efficace.

All’interno del DSM, la competenza dell’intervento, complessivamente inteso, impegna tanto differenti figure professionali (psicologo, psichiatra, infermiere, assistente sociale), quanto l’intera struttura; conseguentemente, concetti come alleanza terapeutica e transfert necessitano di una riformulazione, che tenga conto della possibilità di analizzare i contenuti emersi durante il colloquio con un riferimento coerente a tutti gli altri elementi del setting più generale e, in particolare, alle dinamiche relazionali.

Come affermano Carli e Paniccia (2011) la competenza dello psicologo è una “competenza a stabilire e utilizzare la relazione entro i servizi di salute mentale. […] Obiettivo dello psicologo è operare, nella sua relazione professionale, al fine di sostituire le emozioni agite con le emozioni pensate […] Facilitare un pensiero sulle emozioni evocate dalla relazione rappresenta la forma di intervento competente entro i servizi di salute mentale”.

Infine, nel definire l’attuale funzione delle strutture pubbliche, sottolineano l’inevitabile confronto con una domanda motivata dal vissuto di specifiche problematiche e la concomitante aspettativa che qualcuno se ne faccia carico. Ciò rende, di fatto, la domanda di trattamento ai servizi di salute mentale diversa da quella formulata al professionista in ambito privato, al quale si chiede di fare un’esperienza “fortemente strutturata nelle sua modalità di realizzazione” (psicoterapia psicanalitica, cognitivista, sistemico-relazionale, etc.). Secondo gli Autori, infatti, “I servizi oggi, devono farsi carico della domanda portata dalle persone o gruppi che chiedono non la diagnosi ma un contesto entro il quale sperimentare una relazione, capace di accogliere la domanda e di elaborarla entro analizzabili dinamiche simboliche” (Carli e Paniccia, ibidem).

 

Bibliografia

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Wallerstein R.S. Psychoanalysis and psychotherapy: An historical perspective. International Journal of Psycho-Analysis, 70:563-591, 1989

 

Gianuario Buono, psicologo psicoterapeuta, psicologo dirigente DSM ASL ROMA H4

Sara Maradei, psicologa, specializzanda in psicoterapia SIRPIDI ROMA

Elisabetta Perrone, psicologa, specializzanda in psicoterapia SIRPIDI ROMA


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