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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoterapia Analitica



L'ospitalità nella clinica psicoanalitica di oggi

di Marcio de Freitas Giovannetti

Membro Effettivo e Presidente della Sociedade Brasileira de Psicanálise de São Paulo

Lavoro presentato nella Plenaria del XXV° Congresso Latino Americano di Psicoanalisi,
Guadalajara, Mexico, settembre 2004



“Ma l’ospitalità pura o incondizionata non consiste in un simile invito (“Io l’invito, io le do il benvenuto nella mia casa,a patto che lei si adatti alle leggi e norme del mio territorio, d’accordo con il mio linguaggio, tradizione, memoria, ecc.,”). L’ospitalità pura e incondizionata, l’ospitalità in sé, si apre o è preliminarmente aperta per qualcuno che non è aspettato né invitato, per chi vuole che arrivi come un visitatore assolutamente straniero, come un nuovo arrivato, non identificabile e imprevedibile, insomma, totalmente un altro. Io chiamerei questa ospitalità di visitazione più che un invito. La visita potrebbe in verità essere molto pericolosa, e non dobbiamo ignorare questo fatto; ma sarà che una ospitalità senza rischio, una ospitalità fondata su certe garanzie, protetta da un sistema immune contro l’altro totalmente, sarebbe una vera ospitalità?"
(Jacques Derrida, in Filosofia in tempi di terrore).


1 - All’incirca quattro anni fa fui cercato da un giovane uomo, trentenne, con un incarico di responsabilità in una multinazionale. Stava lavorando in San Paolo e il mio nome gli era stato indicato da un collega argentino che lui non conosceva ma che, come dopo venni a sapere, era amico della madre della sua ex fidanzata, con la quale aveva avuto una breve relazione in Europa. Era colombiano, ma fin da quando era adolescente era andato a studiare negli USA, portando a termine lì la sua laurea e la sua specializzazione, quando fu assunto dalla multinazionale, passando a vivere, da allora, in città e nazioni differenti, non vivendo più di qualche mese in ognuna di esse. Essendo adesso residente in San Paolo, ora, faceva frequenti viaggi per altri paesi, non sapendo mai dove sarebbe stato da lì a pochi giorni. Non avevamo, pertanto, la possibilità di fare un contratto psicoanalitico, con un numero fisso di sedute settimanali, né tampoco stabilire i giorni e le ore dell’incontro. D’altronde il nostro primo incontro avvenne solamente dopo vari messaggi lasciati nelle nostre segreterie elettroniche. L’idioma usato da lui e da me in questi messaggi era un’alternanza di portoghese, spagnolo e “portunhol”, nonostante la registrazione nella sua casella postale fosse in portoghese e in inglese. In uno di questi messaggi anteriori al nostro primo incontro, venni colpito dal fatto che, nonostante egli stesse parlando in spagnolo, egli mi chiedeva il mio “endereço” (indirizzo in portoghese) e non “direcciòn” (indirizzo in spagnolo). Quando ci siamo incontrati, la sua prima domanda fu: in quale lingua parleremo? Portoghese, Inglese, Spagnolo? Il fatto è che abbiamo conversato in un miscuglio di tutte queste lingue, sin d’allora.

Non avevamo una regola che stabilisse la cadenza delle nostre sedute. In ogni seduta, concordavamo la successiva, il che non significava che essa potesse avvenire, in quanto non era raro che egli dovesse viaggiare improvvisamente. Padre colombiano, madre americana, alfabetizzato in una scuola inglese, studi primari in una scuola tradizionale cattolica, High School negli Usa, ingaggiato da una multinazionale dove lavorava nell’area finanziaria, egli non si considerava un uomo cosmopolita o internazionale: in verità, con le sue proprie parole, egli si sentiva solamente “ups and downs”. Nello stesso suo lavoro, nonostante le promozioni e i guadagni finanziari sempre crescenti, si sentiva senza alcuna sicurezza delle sue capacità. I dati della sua vita apparivano o in una forma stereotipata e rigida o come riferimenti abbastanza confusi di tempi e luoghi, niente che si strutturasse come un racconto, nonostante io non potessi definire in alcuna forma il suo discorso frammentato. Aveva un sogno ricorrente nel quale una grande onda si formava sul mare e veniva nella sua direzione, quasi sempre distruggendo quello che era di fronte a lui. Pure erano ricorrenti le sue visite ad un famoso postribolo di lusso di San Paolo, dove incontrava donne con le quali trascorreva una “vita da sposato”, per alcuni mesi. Sempre in modo provvisorio. Come era provvisorio il luogo in cui viveva, un appartamento pagato dalla impresa, senza alcun mobile, eccetto un letto, una televisione e i suoi indumenti. Un unico oggetto personale: il suo violino, con il quale passava lunghe ore e che lo aveva accompagnato in tutte i suoi spostamenti. Tre anni dopo il nostro primo incontro, egli inizia ad ammobiliare questo spazio, con oggetti di sua scelta. Tra le prime cose: i lampadari che disse di avere comprato in un negozio vicino al mio studio. Il suo primo quadro: una foto di un faro in qualche parte d’Europa, in quattro momenti della marea. Da quando è completamente sommerso dalle onde fino al momento nel quale si vede per intero. Comincia, dopo un lungo e faticoso processo di analisi - niente di convenzionale dal punto di vista di un setting classico -, a costruire qualcosa che egli può chiamare la sua casa dove sia capace di ristrutturare la sua propria vita. Man mano che è capace di creare un racconto della sua vita, il suo parlare torna allo spagnolo e, paradossalmente, diventa più difficile per me capirlo: la lingua universale, un misto di spagnolo, portunhol, inglese era sostituita, adesso, da un “colombiano autentico”. Ed è nella lingua patria che egli recupera il ricordo di un pezzo di terra che dovrà ereditare da una zia, cominciando a ventilare la possibilità di lasciare la multinazionale, utilizzare le sue conoscenze di mercato e di affari ed andare a stabilirsi lì, in un prossimo futuro.


2 - Circa tre anni fa, un uomo poco più che quarantenne, mi fa una richiesta d’analisi. Mi dice di aver trovato il mio telefono durante le ricerche che è abituato a fare in Internet dopo la lettura di un mio lavoro pubblicato nel sito della Societé Psychanalytique de Paris, decidendo di non più ritardare la sua analisi, cosa che da molto tempo pensava di fare. Uomo di grande cultura umanistica, lavorava da più di venti anni con popolazioni minacciate dall’estinzione, e conduceva la sua vita in due mondi: uno, quello della cultura occidentale, e l’altro, quello della cultura primitiva. Il passaggio dall’uno all’altro era compiuto in modo repentino, senza una regola esterna che la giustificasse. Appena sentiva che non poteva più continuare in quel luogo, in quello spazio allora traslocava nell’altro. Le sue prime sedute erano caratterizzate da un parlare continuo ed esplicativo di quello che considerava i suoi maggiori problemi, facendosi una specie di autoanalisi, interpretazioni molto convincenti rispetto alla sua vita e alle sue azioni - che mi ponevano la questione di come parlargli senza che il mio discorso fosse vissuto come una mera correzione o un avvallo del suo giudizio. Così, optai di fare delle domande - molte delle quali riguardavano il suo lavoro con le popolazioni indigene - al contrario che occuparmi di dare interpretazioni classiche. Domande che, nel punteggiare il suo discorso - egli era capace di parlare ininterrottamente per tutto il tempo di una seduta - cominciarono a creare un luogo genuino di esistenza per me in quanto analista. Come il mio paziente descritto sopra, la sua frequenza alle sessioni era dettata dall’alternanza dei suoi viaggi: in ogni seduta concordavamo la successiva, o un gruppo di sedute successive. Una volta fui sorpreso per uno dei suoi viaggi che, a suo dire, già era stato precedentemente fissato, ma che per me era qualcosa che non era mai stato menzionato. Mi resi conto che il suo tempo, o al massimo, il suo modo di misurare il tempo era molto differente dal mio, da quello del comune senso o del calendario. E nel dargli questa mia “prima interpretazione”, sentì da lui, come risposta, che era ovvio che fosse così. Egli si era spaventato che io non avessi percepito prima quello che era così ovvio. C’era disprezzo nella sua voce. Poco tempo dopo, a sei mesi dal nostro primo incontro, rimasi senza sue notizie. Fino a quando dopo più di sei mesi, ricevo un e-mail, inviato da lui, con la notizia di un giornale di Londra a proposito di una esposizione del suo lavoro che egli là aveva fatto. Erano allegate, alcune critiche molto elogiative parlavano dell’importanza di un lavoro come il suo. Solamente questo. O tutto questo, dipendendo dal punto di vista adottato. Nessuna sua parola era diretta a me. Oppure, come ho potuto pensare, ricordandomi di quello che mi aveva raccontato a proposito di una determinata cultura indigena, nella quale l’individuo non poteva sapere il proprio nome, tutte le parole, nonostante fossero sottoscritte da altri, erano le sue e dirette specificatamente a me. Così, compresi che egli mi stava comunicando che il nostro lavoro era importante e buono. Solamente vivevamo in tempi differenti. E, da questa prospettiva, egli non aveva interrotto il contatto con me, si era appena assentato un poco.

Dopo tre mesi, un suo messaggio nella mia segreteria elettronica, mi avvisava che stava rientrando, chiedeva di fissare una seduta. Ci rincontrammo, nel mio calendario, quasi dopo un anno dalla nostra ultima seduta. Nel suo calendario, appena dopo poco tempo. Ma, paradossalmente, dopo molti avvenimenti: era enorme la trasformazione nella sua vita dal nostro ultimo incontro. E, per la prima volta, inizia a fare un racconto all’interno di un tempo diacronico, il suo intento era di mettermi al corrente di tutto quello che era accaduto nella sua vita dal nostro ultimo incontro. Al meglio, tutti i cambiamenti che aveva fatto nella sua vita dall’inizio della sua analisi. Ciò detto, disse che ora voleva passare più tempo qui in San Paolo e che avremmo potuto incontrarci con più frequenza. Stava cercando una nuova casa, dove avrebbe vissuto con la nuova moglie, la qual cosa gli faceva molta paura per l’importanza che aveva per lui. “Stare at home” era quello che era nuovo nelle sue parole. Le nostre conversazioni erano focalizzate, da allora, sulla costruzione di una casa. E del significato di una casa.


3 - Alla fine dell’anno passato, sono cercato, con urgenza, da un uomo di trentacinque anni, siccome da due giorni sua moglie gli aveva comunicato che non voleva più vivere con lui. Si presentava disperato, poiché non sapeva cosa fare, né dove andare. Mai poteva immaginare che una cosa così gli potesse accadere un giorno: marito esemplare, padre esemplare, professionista esemplare. Tutto andava bene fino a quando lei gli aveva comunicato la sua decisione irreversibile. Egli sarebbe dovuto andare via di casa, il più rapidamente possibile. Non c’era alcun segnale di percezione da parte sua che stesse accadendo qualcosa di diverso o di anomalo nella sua vita coniugale. Ma anche non c’era alcun segnale che egli avesse alcuna preoccupazione affettiva di qualsiasi cosa nella sua vita, sebbene si presentasse davanti a me come uno abbastanza affettivo: il suo pianto e il suo spavento erano genuini, così come l’affetto che diceva di dedicare al figlio piccolo dal quale sentiva che non sarebbe riuscito a separarsi.
Al contrario dei miei due pazienti sopra descritti, egli sembrava avere una casa ed era giustamente la possibile perdita di questa casa quello che lo terrorizzava. Con lui, anche differentemente dagli altri due pazienti descritti, fu facile stabilire l’inizio dell’analisi, i giorni ed ore disposte nel modo più classico. Poco più di un mese dopo che iniziammo, egli uscirà dalla sua casa. Ed era deciso, sorprendentemente per lui. Aveva affittato un flat vicino alla sua precedente casa e, orgoglioso del suo atto, inizia a recuperare la storia del suo matrimonio: un amico architetto le aveva presentato quella ragazza alcuni anni prima. Questo architetto stava costruendo la nuova casa dei genitori di quella che sarebbe stata sua moglie. Era da questa casa, non dalla sua, che egli temeva tanto di uscire. Una casa con le caratteristiche di qualcosa di solido, ben costruita, ricca, in tutto differente dalla casa dei suoi genitori, ombreggiata che sempre era stata per la perdita della terra natale: i suoi genitori si erano esiliati alla fine degli anni sessanta, fuggendo dalla dittatura sovietica. Comincia a raccontare la sua storia e a liberarsi. Il suo rapporto con la ex-moglie è in quel momento rappresentato in modo estremamente povero affettivamente e sessualmente. Aveva passato degli anni soltanto lavorando molte ore al giorno, arrivando in casa e dormendo presto. La sua paura di stare nelle strade, nel mondo, cominciò ad essergli evidente, nella misura in cui risistemava il suo lavoro e attraversava alcune frontiere. E’ con molta difficoltà che lascia suo figlio per alcuni giorni per un viaggio di lavoro all’estero. E’ allora che riappare il tema della casa, ma ora, è una sua casa che rapidamente viene occupata con oggetti di una sua propria scelta. Lo spazio ridiventa un luogo reale, abitabile, non più un luogo fantasticato appartenente ad un altro. Parallelamente i suoi affari tirano e riceve una proposta da una banca internazionale di creare una compartecipazione: inizia a viaggiare con frequenza fino ad essere obbligato a passare due mesi all’estero, ritornando soltanto nei fine settimana per rivedere il figlio. Adesso, stiamo vivendo questo periodo di separazione: le sue sedute sono sospese fino ad ottobre, quando dovrà riprendere il suo posto a San Paolo. Eventualmente, egli mi invia mails. Siamo in contatto, nonostante non sia un setting analitico classico.

4 - Le sintetiche descrizioni di queste tre analisi che sono ancora in corso mi servono da modello per questa nuova clinica che si viene strutturando dalla fine della passata decade. E’ assolutamente rivelatore che i tre pazienti siano alle prese con la costruzione delle loro case (uno “at home”, uno “chez moi”, uno “il mio focolare”) e di un racconto storico delle loro vite. Ed è assolutamente rivelatore che queste costruzioni camminano in parallelo con la costruzione (o decostruzione) di un possibile setting analitico, “non classico”. Se, fino a pochi anni indietro gli analizzandi che arrivavano ai nostri consultori già portavano a priori la strutturazione di uno spazio geografico e storico, con una maggiore o minore configurazione di frontiere interne ed esterne ad una casa, così per dire - i nostri nuovi pazienti soffrono giustamente della inesistenza di questo luogo, di questa casa. O essa è apparente, come nel caso del mio terzo paziente, funzionando più come un nascondiglio contro la vita, o è ancora da creare, da configurare. Se i nostri pazienti di prima della fine del secolo passato già venivano per una analisi con l’idea di un tempo e di uno spazio di permanenza, non trovando strano in nessun modo che noi analisti esigessimo una determinata frequenza settimanale delle sedute, esistendo dentro di loro il concetto di permanenza, i pazienti che ci cercano oggi, per vivere in un mondo dove le frontiere non più esistono e l’idea o il concetto di continuità sono sostituite dalla velocità e dalla accelerazione del tempo, non possono essere assoggettati al classico setting dell’analisi, con il rischio che nessuna possibile analisi si costituisca. E’ la funzione centrale dell’analista di oggi costruire con ognuno di loro un possibile setting affinché si possa costruire l’analisi. E non più nel senso classico, questo è certo, mirando a lavorare sulle resistenze affinché esso venga, un giorno, ad essere uguale al classico, ma piuttosto, lavorando perché lo spazio virtuale e senza frontiere si possa trasformare in un luogo. Luogo di intimità, luogo di scambio, luogo di racconto. Luogo di reale esistenza, non virtuale.

Se all’inizio della psicoanalisi l’obbiettivo era fare dell’Inconscio, il Conscio, e dopo, dove era l’Es, fosse costruito l’Io, in questo inizio di millennio ancora stiamo alla ricerca di un nuovo aforisma. Siccome la costruzione di questo luogo non passa per la imitazione del luogo antico, ma invece per la necessità di farsi un lutto per la perdita di quel luogo che già non esiste più. Senza questo solo ci resta la melanconia cristallizzata di una imitazione dell’antico, alla maniera dell’architettura di Las Vegas, simulacro banalizzato di altri tempi e altri luoghi. Visto che mantenere lo spirito freudiano è poter ascoltare, come egli fece con le isteriche, alla fine del secolo XIX°, la nuova parola. E qual è la nuova parola, quale l’equivalente dell’isteria in questo inizio di secolo XXI°?


5 - E’ per tentare di cercare la percezione e l’ascolto di questa nuova parola che lancio sul tavolo i due concetti di “decostruzione” e di “ospitalità” di Derrida, con il quale iniziai il lavoro. Perché l’analista possa oggi compiere la sua funzione originale, quello dell’ascolto della parola dell’altro, nel più puro senso freudiano, egli deve decostruire il suo materiale concettuale, decostruire il suo setting classico. Solo così egli potrà offrire ospitalità a questa nuova soggettività che emerge in questi nuovi tempi di senza-luoghi e senza frontiere. Solo così egli potrà, insieme con il suo nuovo analizzando, andare a far “la visitazione” si questi nuovi territori - o spazi - della emergente soggettività in un momento nel quale la storia si accelera gradatamente. Solo così, in questo nuovo registro, la clinica psicoanalitica si potrà ricreare, ri-creando in una mutua compartecipazione, analista-analizzando, un qualcosa che abbia il senso di “un mio focolare”, una mia casa, una mia identità. Lo stesso perché l’identità dello psicoanalista non è strutturata né nel suo divano, né nella frequenza con la quale egli attende un paziente, né tampoco nella esatta interpretazione. La sua identità si struttura così, in una sua capacità di ascolto della parola dell’altro - allo stato nascente - nell’intervento che mantiene acceso il dialogo vivo e nella sua possibilità di esercitare il suo lavoro nella caratteristica provvisorietà dei concetti che delineano il nostro campo. E’ giustamente a questa provvisorietà che punta l’opera freudiana, nel suo costante rifarsi. E’ giustamente a questo provvisorio che ci richiama all’attenzione il pensiero di Derida (la decostruzione), di Marc Auge (i non -luoghi), di Edgard Morin (la teoria della complessità), di Paul Virilio (l’accelerazione del tempo), tutti loro sono tributari di Freud, e forse per questo stesso, capaci di trarre qualche illuminazione umanistica per questi nuovi tempi.


6 - Hans, il bambino simbolo della Psicoanalisi, guardava dalla finestra della sua casa l’intensa animazione della stazione ferroviaria di Vienna, all’inizio del secolo XX°. Dal suo punto di osservazione, la città gli sembrava così grande e spaventosa, come il vai e il viene delle carrozze tirate dai cavalli, con la moltitudine anonima che si affrettava in arrivi e partenze, sviluppò la classica agorafobia di oggi. Non voleva uscire dalla sua casa, luogo sicuro e protetto, fino a che la gravidanza della madre e la conseguente nascita di Anna, sua sorella, lo lanciano inappellabilmente nella vastità degli spazi della città e del mondo. Un mondo con frontiere da essere superate. Una città e un mondo molto differenti da quello intraveduto da una giovane donna americana chiusa nell’alto di un anonimo appartamento di un hotel del secolo XXI°, ripresa in una magistrale sequenza del film di Sofia Coppola, “Lost in Translation”. Avvicinandosi, sonnambulicamente, al vetro blindato che oggi si usa mettere ad una finestra, lei si sente appoggiata ad un mobile, e, nel momento che si appresta a contemplare le luci e le costruzioni mutanti di quello che sarebbe la città di Tokio, va ritraendo le sue gambe, abbracciandole, curvando il suo corpo, finendo per assumere la posizione fetale. Differentemente da Hans, lei non è in casa, ma, paradossalmente, sta in famiglia, poiché si trova in compagnia del marito fotografo in uno dei suoi viaggi di lavoro. Differentemente da Hans, lei non si struttura in una fobia di uscire nelle strade, solamente non ci sono strade transitabili. Quello che rimane di esse sono musei, copie di una cultura e di un mondo che non esiste più. Non esistono più le stesse città, visto che la Tokio che ci viene presentata nel film in niente assomiglia a quella che tradizionalmente intendiamo per città: quello che il piccolo Hans intravedeva dalla sua finestra.

7 - Marc Auge, antropologo, etnologo e esperto in scienze sociali, sviluppa un magnifico studio, relativamente ai “non luoghi” - spazi di transito - nei suoi libri “I non luoghi” e “La guerra dei sogni”. Se la città descritta da Baudelaire, nel secolo XIX°, era dominata dalle torri della chiesa e dai camini delle fabbriche - monumenti storici e segni del lavoro -, la città del secolo XXI° si presenta come una molteplicità di luci colorate e alternanti intravisti attraverso i vetri blindati situati nel cinquantesimo piano di un hotel internazionale. Non molto differente dal quadro di un computer. Non essendo più un luogo, o un luogo di arrivi e partenze, di incontri e di separazioni, essa ci si presenta di più come un luogo di transito, ad immagine delle autostrade, con i suoi punti di sosta per rifornimento, alimentazione e eventuale osservazione del paesaggio e dei luoghi che rimandano ad una storia passata, monumenti e musei. Essa non è mai un focolare, nel senso di accoglimento e di designazione, di genealogie. Così, Tebe, la città di Edipo - paradigma della cittadella psicoanalitica - deve essere decostruita e ricreata dopo, non trattandosi più di esilio, di espulsione, accoglimento o incroci, essa si presenta come uno spazio transitorio per gli scambi e i transiti, siano essi sessuali o di terrore. Il monumento che fonda il secolo XXI° è il luogo dove stavano le torri gemelle. Non il luogo dove migliaia di corpi finirono interrati. L’antica Mesopotamia, breccia della nostra civiltà, trasformata in un feroce campo di battaglia osservabile dal quadro di tutti i televisori del pianeta serve bene per osservare esemplificare la nuova relazione, che si stabilisce tra “La Terra, terra, il territorio e il terrore”.

9 - Che cosa è un essere umano? Domanda Derrida, recuperando l’enigma della sfinge che si trovava alle porte di Tebe. “La maggioranza delle persone affermerebbe che questa è una indicazione evidente in se stessa: un essere umano è un membro della specie umana. Il problema è che tanto “umana” come “specie” sono termini che si ramificano in labirinti storicamente costruiti, che si estendono e complicano indefinitamente lo spettro semantico della parola (pag. 23, Filosofia in tempi di terrore). Giustamente fu questa la maggiore questione alla quale Freud dedicò tutta la sua vita, dichiarando la molteplicità del soggetto, facendo notare la sua frammentazione. E’ a questa stessa questione che dobbiamo noi psicoanalisti di oggi piegarci, senza rimanere malinconicamente ancorati e imprigionati a concetti che hanno un limite storico, culturale e linguistico e tuttavia solo così rimarrà “più difficile che noi ricorriamo a qualsiasi argomento essenzialista, poiché la molteplicità propria di racconti storici impedirà qualsiasi tentativo di costruire un concetto in termini di coppie irriducibili - uomo x donna, umano x inumano, umano x animale, razionale x istinto, cultura x natura - che non passerebbero per mere semplificazioni” (pag. 24). Solo con un enorme lavoro sul lutto potremmo noi tornare attuali per l’ascolto dei nostri nuovi pazienti. Chiamarli borderline o portatori di gravi disturbi narcisistici non è di molto aiuto, né per loro né per noi. Anche perché i nostri concetti - nonostante di alcuna utilità - hanno una ramificazione storica e culturale, essendo per tanto datati. Sopportammo noi psicoanalisti, per tutto il secolo XX°, una cattiva inclinazione che ha patologizzato in maniera eccessiva lo psichismo umano. E’ ora di ripensare queste questioni.


10 - Il mio primo paziente di questa relazione cercava il mio “indirizzo”, il luogo dove lui potesse incontrarmi. Tutti noi analisti siamo anche alla ricerca di un indirizzo dove possiamo incontrarci con i nostri analizzandi poiché egli già non venne con un “a priori” ma non bisogna essere costruito con gli strumenti che abbiamo ereditato dai nostri pionieri in un mondo abbastanza diverso di quello nel quale loro hanno vissuto. La Geografia classica è morta, scrisse Virilio. Le frontiere già non esistono più. Non possiamo più cercare la conoscenza a Vienna, a Londra o a Parigi. Prima di tutto, è fondamentale poterci separare dalla conoscenza della informazione banalizzata o cristallizzata. La questione della Psicoanalisi oggi non è più latino-americana, europea o americana. Né tampoco globale. Ma essa continua essendoci la possibilità di dare ospitalità alla parola e al gesto dell’altro diverso da noi stessi.

Il significato più radicale di “chez soi, at home, in casa”, non essendo importante in quale lingua sia detta, è quello della intimità, stare nella volontà. E’ questo lo stesso senso che significa il “setting”, il quadro, dell’analista. Appena e tutto questo. Se saremmo capaci di, insieme con i nostri pazienti, di creare le condizioni necessarie di intimità e di “stare nella volontà” affinché le associazioni possano essere libere e l’attenzione fluttuante, condizioni necessarie perché l’incontro analitico si dia, potremo i due, analista e paziente, uno ospitando l’altro alternativamente, approssimarci un poco di più all’anima umana.

Nel secolo II°, l’imperatore Adriano, quello che allargò le frontiere dell’impero romano fino a quasi tutta la terra allora conosciuta, scrisse:

Animala vagula, blandula
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos É

Diciassette secoli dopo, Flaubert così definì quei tempi: “Gli dei, non esistendo più, e il Cristo non esistendo ancora, si ebbe, da Cicerone a Marco Aurelio, un momento unico in cui solo esistette l’uomo”.
Noi siamo, in questo inizio di secolo XXI°, in un mondo senza frontiere e di un tempo accelerato, nuovamente in movimento verso luoghi forti, nudi e crudi, e, a dispetto di tutti i nostri fondamentalismi, soli con noi stessi. E’ questa la nostra sfida in quanto psicoanalisti: come facilitare la “visita”, come ospitare ed essere ospiti di questo altro che ci cerca, visto che l’anima umana continua ad essere fluttuante.
Se e quando saremo capaci di questo, di essere ospitali a questa nuova parola, tocca a noi deciderlo. La rinuncia ai giochi di una volta sarà conseguenza della piccolezza o della grandezza della nostra anima. E della nostra audacia.

Bibliografia

1) - Augé, M.. Los no lugares: Una antropologia de la sobremodernidad. Barcelona: Ed. Gedisa.
2) - _______. A Guerra dos Sonhos. Campinas: Papirus, 1998.
3) - Borradori, G. Filosofia em tempos de terror: Diálogos com Habermas e Derrida. Rio de Janeiro: Jorge Zahar Ed., 2004.
4) - Coppola, S. Lost in translation. Delacorte Press, New York .
5) - Freud, S. (1909). Análise de uma fobia em um menino de cinco anos. E.S.B., 10.
6) - Giovannetti, M. F. Qu'est-ce qu'un psychanalyste?. Ornicar?: Revue du Champ Freudien, v.51, p.131-40, 2004..
7) - __________. Esboço para uma cena primária e uma cena anal’tica no in’cio do séc.XXI. Rev. Latinoamericana de Psicoanálisis, FEPAL, v.7, n. 1, 2004.
8) - __________. Analisabilidad Hoy. Apresentado no Congresso FEPAL de Gramado, 2000.
9) - Virilio, P. A bomba informática. São Paulo: Estação Liberdade, 1999.
10)- Yourcenar, M. Memórias de Adriano. Rio de Janeiro: Nova Fronteira, 1980.

Traduzione dal portoghese di Mario Giampà


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