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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



Alberto Schön

Ricordando Enzo Morpurgo




Voglio dire di Enzo Morpurgo soprattutto come scrittore, uomo, amico. So che è molto di più. Ne parlo al presente per continuare il dialogo che non ha mai temuto a retorica.
A Enzo piace la filosofia, la medicina, la buona cucina, la poesia, Valeria, la musica, il vino genuino, le ceramiche antiche, la barca, certe acquaforti, i ballabili della sua epoca. Non ho mai capito se gli piaccia di più la pipa o la psicoanalisi. E' riuscito a sopportare in tempi lontani certi neuropsichiatri, così gli sono sembrati simpatici quei contestatori del post-sessantotto, che chiedevano fosse loro riconosciuto, come lui stesso ha scritto “per statuto\ il diritto di mangiare\ nel piatto dove sputo.” E' perfino riuscito a mettere al lavoro molti di questi bimbi, in genere poco amati, e farli crescere.
Sa curare bene i suoi pazienti con la base di dubbi e teorie che producono l'umanità e l'ironia, qualità che non mi pare abbondassero a Francoforte nel secolo passato, o altrove con la collaborazione (critica?) di Fromm e Marcuse, due dottori da cui non vorrei essere curato. Lui sa tollerare anche loro.
La psicoanalisi, nata da medici e da rami della tradizione ebraica (i dottori ebrei che hanno paura del sangue) sta,
insieme alla metodologia, al confine tra scienza medica e filosofia. In queste acque mosse da più correnti, Enzo naviga tranquillo e tormentato, salvando uomini in mare e trasbordando anime dalle vuote confezioni del mondo consumistico, alle infernali delizie della consapevolezza.
Cercherò di dare parole in particolare a qualche mia impressione di lettore dei suoi libri di narrativa.
Noi analisti per vivere dobbiamo lavorare in studio molte ore e per lavorare bene dobbiamo dedicarne molte altre
alle letture e alle riunioni scientifiche. In genere abbiamo degli affetti famigliari e anche qualche hobby. Resta poco tempo per il sonno. Pochi analisti hanno avuto così tanta passione da ricavare l'area necessaria per raccogliersi e poi girovagare nei «boschi narrativi». I pochi romanzi scritti da colleghi che ho letto spesso mi sono sembrati esercizi un po' deludenti, o pedagogici. Alcuni hanno scritto versi.
Enzo ha scritto un buon numero di racconti, che non sono affatto casi clinici, con i quali, secondo me, si presenta come autentico scrittore, e inoltre varie pagine di epigrammi, brevi riflessioni in versi, scherzi e aforismi godibilissimi.
Comincio dall'inizio. Enzo sa bene gli inizi. La fine non si può sapere. Gli scritti sono sempre una metafora dell'arco della nostra esistenza. Ebbene di volta in volta questi inizi, che qui ricordo: “Non potevamo capire...
Laboriose gallerie di vermi mi toccarono in sorte...Domani è lunedì...Il Dottore incontrò la Malattia in una serena
notte d'inverno... L'uomo dovrebbe essere, forse, ma non è, indipendente dall'atmosfera....” questi inizi, dico, sono chiari, indicano, senza lasciare spazio a dubbi, quello che vogliono indicare.
Le fini per contro mi sembrano allusive e vaghe: “...nei secoli a venire....decifrare i segni di un'altra stagione del linguaggio...che sino ad ora si è occultato nei secoli e nei millenni...non troverò mai in me risolutezza bastevole....freddo, ambiguo e per nulla ospitale...ma forse la vista, che vien meno, illanguidendosi mi inganna.”
Enzo si prende cura di noi, dicendoci: “Cari amici, la fine, non è vero che la sappiamo bene; la prevediamo, la temiamo, anch'io la temo come tutti voi, ma non è detto, non è chiaro, come sia.” C'è peraltro il racconto “Il segreto della Malattia” che ha una fine inequivocabile. LA FINE, che viene dopo anni di premonizioni e sintomi. “...ma in quel punto la Morte, più benevola della Malattia, sopravvenne ad interrompere qualsiasi altra tanto spaventosa, quanto futile, rivelazione.” Mi richiama “Il congedo del viaggiatore cerimonioso” di Giorgio Caproni. Per meglio meditare sulla morte, siamo disposti perfino a vivere a lungo. Gli scritti di Enzo suggeriscono aforismi. Se raccontare è una metafora dell'esistenza, questi racconti sono una metafora ottativa, nel loro necessario pessimismo. Saper inventare buoni inizi fa lievitare l'incertezza del finale e questo è già in parte consolante.
Detto degli inizi e delle fini, cosa c'è in mezzo? Più sogni e fantasie di indeterminazione che realtà. Parrebbe. A volte il protagonista, l'Io nel corso della sua narrazione, come avviene nel “Fiume fedele”, non chiarisce se la sua natura è umana o se appartiene a qualche altra specie. Gli altri personaggi sono uomini, vermi, cani. Ma colui che vive, soffre, racconta, non si sa di che natura sia. Volendo possiamo immaginare che gli abitanti del castello rappresentino le SS e le gallerie dei vermi i nascondigli degli ebrei, dalle avvisaglie del 1937 alla catastrofe del 1940-1945. Ma sono anche i luoghi del mondo interno, nascosti a se stessi, dove si è costretti dai normali persecutori quotidiani a rifugiarsi, magari esplorandoli, stesi sul lettino del proprio analista. A volte tentiamo il trucco della nostra trasformazione in cavernicoli per sfuggire alle sue interpretazioni, che cercano di snidarci dalle posizioni difensive. O potrebbe essere anche un racconto per rispondere alla domanda: perché si uccide? Noi uomini (è un altro racconto, ma a Enzo, dicevo già, non manca la coer-Enza) abbiamo delle scie attorno al capo, variamente apparenti, che modificano il visibile e forse modificano la nostra visione del mondo. Siano esse come le aureole dei santi, o le code di polvere scintillante delle fate, o la manifestazione di energia paranormale, le scie sono anche l'epifania della nostra continua oscillazione tra corporeo e fantasmatico. Il termine fantasma, sta per apparizione, oggetto che si mostra e perciò ha bisogno di luce, ma può forse produrla in piccola quantità da sé. Ciascuno mediante l'energia dei suoi affetti può avere una propria luminescenza, rendersi visibile; la scia ha a che fare con l'identità, ma anche con i desideri e con il respiro. L'atmosfera, non è una sfera di atmòs, vapore? e il vapore è la materia prima delle scie. Per manifestarsi ha bisogno di luci radenti o di un vetro freddo, per mostrarne la condensazione, per rendere visibile ciò che prima nessuno vedeva, lo spirito, il respiro, l'ànemos, sempre la stessa sfuggente scia. Che non tutti possono vedere. Ma ciascuno può nello “Avviamento all'etimologia italiana” di Giacomo Devoto costatare come il respiro e l'animo abbiano la stessa scia linguistica.
La struttura delle scie è tanto più complessa, quanto più evoluta l'anima del suo portatore, ma diventa ancora più
complessa se si è in possesso, dice l'autore, di una magica lente. Che sia la chiaccherata funzione analitica della mente?
A me sembra che Enzo ci abbia lasciato in varia forma nei suoi scritti tracce della sua vocazione psicoanalitica. In data 1948, in “Illegittima immortalità”, per cominciare, trovo una confessione che intendo considerare sinceramente autobiografica: all'età di 15 anni il protagonista si innamora di una graziosa e incantevole coetanea e, prima che si conoscesse l'Alexander technique, il training autogeno e le lezioni di recitazione di Dario Fo, scopre che, se si riesce a sincronizzare i respiri con l'oggetto del proprio interesse, si può arrivare a compenetrarne l'anima, fino alla scomparsa dei confini tra i pensieri dei due personaggi, sentendo anche “un'inquietudine per la facoltà non ordinaria, che m'era data, di superare con agevolezza i limiti delle anime, di confondere due distinte individualità in un misterioso connubio”. Qualcuno l'ha poi chiamato contro-transfert questo fenomeno, altri relazione analitica, ora si parla anche di campo analitico. A quindici anni Enzo si rende conto che questa facoltà è promettente, deliziosa e angosciosa. Nel capoverso successivo l'io narrante conferma alcuni nostri sospetti e aggiunge di aver scelto la facoltà di medicina. Trova una seconda donna da amare, che però si ammala. I medici non riescono a curarla e il protagonista si immedesima, si identifica, fino a comprendere di che male stia morendo la giovane. Troppo tardi. Ma, una volta laureato, con i suoi successivi pazienti la tecnica dell'imitazione-identificazione funziona e li guarisce. Però il dottore si deteriora e allora si cura invertendo il flusso: uno scambio di energia diretto verso sé. Sfruttando così le qualità altrui si avvia una depressione, una sensazione di perdita e di colpevolezza e di non godere più delle cose belle. E' necessario fare appello a ricordi infantili e alla figura della madre, ripescata dalla memoria per sentirsi meglio. Per avere altri vantaggi occorrono relazioni con Altre persone. Ma ecco che si rende evidente il pericolo di usare la dote dell'identificazione in modo perverso, parassitario, svuotando l'altro. Non si deve nuocere ai pazienti. Nella novella non è detto ciò che accadrà al dottore nella realtà: dovrà farsi un'analisi per evitare il terribile pericolo di rendere troppo dipendenti i pazienti e quello di diventare colpevole di immortalità. La nota difficoltà di accettare le ambivalenze e i nostri altri numerosi limiti. Il seguito è in un altro racconto. Lo vedremo tra poco.
Ogni teoria medica è anche un meccanismo di difesa dall'angoscia di morte, “tentativi di ridurre il male a una non
esistenza o di renderne l'esistenza puramente immaginaria.” Il fascino, il pericolo, l'incubo, è penetrare all'interno magmatico della torre, che rappresenta il sé, sia come sé corporeo, sia come Sé in senso psicoanalitico. Enzo sembra dirci che una delle funzioni oniriche è di calmare la nostra angoscia inevitabile, permettendoci tentativi di compromesso impossibili nella veglia. Nei suoi sogni-racconti si sfumano i limiti tra organico e inorganico, tra specie diverse, tra esseri come noi che hanno una massa e esseri come i fossili di cui può restare solo l'impronta, la concavità. Lo sguardo all'interno (della caverna, della montagna, della torre scivolosa in racconti diversi) è perturbante: mostra dei mostri. Ma lo sguardo all'interno è il nostro lavoro di analisti, richiede senza eccezione un'analisi di training.
Poche pagine dal titolo “Domani è lunedì”, dedicate significativamente a Luciana Nissim, analista di training fra le più dotate, raccontano in modo non più metaforico la vocazione e la lunghissima iniziazione dell'analista. In principio era l'attesa. L'attesa in sé. Mamma mia, domani è lunedì, si comincia. Per ogni paziente, per ogni analista si ripete, anche più volte alla settimana la rievocazione del be-reshit, in principio, di cui è più spesso simbolo il lunedì, con la consueta sfida di dire l'indicibile e, ammissione interessante, la tentazione di scrivere anziché dire. L'analista commenterebbe “lei cerca di agire per non pensare, come quando...” L'analisi privilegia i pensieri e lo scrivere può diventare contenitore di cose, allo scopo di non formare pensieri e sfuggire alla regola di dire all'analista. Non lo scopro io. Chiunque scriva sa che fra le motivazioni dello scrivere c'è il desiderio di rallentare o fermare il tempo, dilazionare la morte, essere ricordati. Dire i pensieri all'analista invece, significa collaborare al cambiamento, accelerare l'evoluzione naturale (in analisi ci siamo andati quasi tutti col peso di patologici ritardi), e anche contemplare la morte. Alla dottoressa Nissim il “paziente” dice: dipende dal rapporto tra lettore e autore, se lo scritto convoglia più cose. Dice così perché lo pensa davvero, ma forse anche sapendo di stimolare una seduzione in chi ha dedicato tanta attenzione al rapporto tra «due persone che parlano in una stanza», che, senza toccarsi, mimano una spesso toccante “sonata a quattro mani”, così attenuando la paura del paziente di sentirsi toccato dentro. - Nell'attesa del terribile lunedì, l'analizzando Enzo sente un suono “una musica curiosa, semitoni calanti verso una voce di baritono o di basso....forse è la voce della persona da incontrare: è possibile che io abbia cantato queste parole neutre con una voce che non era la mia: forse di mio padre.” Appena si abbozza la comprensione di un contenuto nascosto, che produrrebbe una maturazione, ecco che si produce un'altra difesa nel tentativo di prevenire i cambiamenti prodotti dall'analisi: “Gli accordi sono presi - già, ma quali e tra chi? forse che io sono d'accordo con quel tanto di X che è d'accordo con me...no, non con me: X è d'accordo con una X in me...” Entrano in azione gli scarti della filosofia, i distinguo eccessivi, l'ossessività delle partizioni, soggetto e oggetto, contenitore-contenuto fatti a piccoli pezzi, si dice appunto ana-comitati per nullificare la conquista; la filosofia amica dei numeri, delle formule, delle nozioni, non della saggezza, che fa da scudo al timoroso allievo. Una difesa che porterà alla sconfitta. E tuttavia questa difesa non è solo dannosa, perché permette la scoperta della gruppalità interna, ben prima che la scienza la chiamasse così; l'autore descrive bene il dialogo tra i numerosi litiganti dentro di sé: “E in quel punto della vita cominciai a chiedermi quali e quanti abitanti interni ognuno di noi contenga, e in quali rapporti tra loro”.
Ma questo non serve ad evitare le angosce. Allora per sfuggire ai terrori deve ricorrere a metodi attivi e ancora più grossolani: “Potrei tacere, potrei mancare all'appuntamento.” Bravo Enzo! in poche pagine hai elencato i pensieri e la paure in cui si riconosceranno tutti i candidati all'analisi. E ancora non basta. Analysis facit saltus e Enzo, in figura di canguro psichico, ripartisce varie fasi della propria analisi con più analisti, dapprima all'estero e in lingua straniera; forse ci vuol dire che tutte le analisi si fanno un poco in lingua straniera, un nuovo linguaggio che serve a comunicare volendo scambiare doni, la lingua del paese, diceva Zavattini, “dove Buon giorno vuol dire davvero Buon Giorno.” Muoiono parenti, lui eredita fortune, le sperpera. Si ritrova solo e confuso. Tanta sofferenza è ripagata da molte altre scoperte. Per esempio ogni analista ha lasciato la propria voce nel paziente: un'eredità questa, che si può usare o no, usarla bene o contro qualcuno, ma non può essere dissipata. Credo che queste voci interne siano state capaci di mostrare i limiti della filosofia, quando sia idealizzata, e di molti filosofi, idealizzati o al naturale.
E si arriva all'incontro con la dedicataria, che io ritengo ritratta in questo modo: “una donna di mezza età, di pochi movimenti e di ancor meno discorsi.” Dotata di sguardo, posso confermare.
Immediata adozione e terza analisi per luoghi mentali inediti e ricchi di sofferenza ed, è da credere, in italiano.
Questa definitiva analista ha “più voci; e ricordo che in certe sedute mi astraevo dal significato delle parole e mi venivo dicendo: ecco ora entra il violino: ora il basso: ora il flauto.” Le voci-strumento avviano la possibilità di «comporre narrative sterminate e molteplici, universali ed anche caduche come un raggio al tramonto.» L'angosciosa attesa del lunedì è diventata la quieta contemplativa attesa del raggio verde alla fine della giornata, che allude alla fine del mondo, ma non lo è. L'analizzando, diventato analista, conclude chiedendosi con un sorriso ironico, se oggi verrà il paziente-Messia.
Mi sono dilungato su questo scritto breve perché penso di condividerlo e comprenderlo meglio. Ogni analista ha
avuto esperienze paragonabili o analoghe. In più mi raggiunge il messaggio musicale, il timbro di voce dell'analista, cui si associano le voci di strumenti che si rivolgono all'interlocutore-paziente come se ancora non usasse parole, ma fosse già capace, come ogni bimbo, di riconoscere gli squilli della sgridata, il flauto dei coccoli, il basso di papà. Queste voci, che riescono a dire l'indicibile, seducono anche me. Sono l'inafferrabile comprensibile, the Unthought Known, l'espressione dell'ineffabile. Scusate la ridondanza, ma il parlare di niente è una tentazione cui non so resistere.
Ho esaminato solo certi scritti. Ce ne sono altri, nei quali non sono entrato abbastanza. In “Dialoghi probabili” si trovano le reazioni ai primi sorprendenti calcolatori di un tempo, quelli a valvole termoioniche, macchine o animali?
In “Un esperimento giudiziario” si partecipa a un'ipotesi di tribunali molto speciali, retaggio storico, che passa forse verso riflessioni sulla collusione inconscia delle vittime con i loro aggressori.
“Dotta e allarmata allocuzione” riflette sull'intrico di potere, ideologia e pubblica sanità, ma mostra anche una indimenticabile caricatura del conferenziere noioso, che tutti abbiamo più volte subito nelle aule universitarie, ai congressi, nei comizi, in salotto e, i più sfortunati/e, a letto; sapete, quello che annuncia un'importante comunicazione e la fa precedere da venti pagine di erudite premesse, di solito inutili e assurde quanto lo stesso miracolo annunciato. Non critico per questo l'autore. Anzi mi pare che in un buon narratore l'originario sadismo infantile si sublimi nell'abilità di creare nel lettore un'attesa, tergiversare, per poi soddisfarla, possibilmente in maniera divertente, originale. Enzo usa questa normale strategia narrativa. Ma il suo dotto allocutore, che spontaneamente ammette di dover tediare gli ascoltatori, esagera e certamente nelle sornione intenzioni assomiglia a qualcuno che l'autore conosce, X o Y. Anzi, no, ad ambedue. Ascoltandolo con l'orecchio del lettore, mi sono grattato, distratto, assopito e irritato. Diciamola diversamente: da nessun testo di Enzo Morpurgo si ricaverà una sceneggiatura cinematografica. Lui non è interessato ad andare subito al sodo narrativo, cut to the chase, non credo abbia scritto alcuna novella per guadagnare soldi. Di più usa quasi sempre forme auliche, ricercate, sempre con molta proprietà; abbiglia con modelli di una o due generazioni addietro concetti che sono, come ho ricordato poco fa, estremamente moderni, specie se si tiene conto che molti pezzi sono stati scritti tra il 1943 e '50. In questo senso Morpurgo appare una persona con sensibili strumenti per captare problematiche attuali, quando non future. Le molte occasioni in cui nelle sue storie si riflette sulla morte, il futuro per eccellenza, ci danno l'idea che questo rovello possa partecipare alla genesi di una tale sensibilità.
Enzo è interessato a capire, a costo di percorrere penosamente strade complesse e più volte dicotomiche, è interessato agli sviluppi graduali e a come si correlino con la logica e i paradossi; studia l'uomo come corpo e come psiche, come individuo e come relazione tra persone; sa giocare, ma non dimentica che dietro al gioco esiste una teoria; il suo buongusto fa sì che egli scarti spontaneamente le versioni grossolane degli eventi. Può divertirsi alla domanda: cosa lega gli Ottòpodi agli Ottomani? ma non a uno scherzo volgare. Con questi orientamenti ovviamente non si trova una sola riga in cui appaia il desiderio di piacere a un pubblico ampio.
«Ai più giovani, che non hanno conosciuto Enzo Morpurgo, voglio ricordare le sue elevate doti di medico, di analista, di filosofo, di scrittore, di umorista, di cittadino conscio dei doveri civili e molte altre che qui non cito per non essere lungo. Lo rivedo tra gli allievi e in navigazione, ai congressi e in colloquio con Valeria e gli amici. A volte ci siamo detti di essere “orgogliosi di essere ebrei; tanto, anche se non fossimo orgogliosi, saremmo ebrei lo stesso; e allora tanto valeva esserne orgogliosi.” Non lo credo molto bravo a riposare in pace, ma so che ci proverà»

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