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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi

Psicoanalisi e Buddismo come istituzioni culturali

Jeremy D. Safran


dal volume
Anthony Molino e Roberto Carnevali
"Tra sogni del budda e risvegli di Freud"


Freud e il Dalai Lama

Sebbene negli anni Cinquanta e Sessanta ci sia stata una ventata di interesse verso il Buddismo da parte di pensatori psicoanalitici come Erich Fromm e Karen Horney, tale interessamento restò in certa misura sotterraneo fino ad anni recenti. Oggi, tuttavia, si assiste ad una marcata rinascita di attenzione per l’argomento, come è evidente dalla popolarità dei testi di autori come Mark Epstein (1995, 1998, 2001), Jeffrey Rubin (1996), John Suler (1993), Anthony Molino (1998) e Barry Magid (2002). I libri di Epstein, in particolare, sembrano aver avuto risonanza sia tra un pubblico di non professionisti che nella comunità psicoanalitica. Quest’accresciuto interesse corre parallelo all’enorme diffusione del Buddismo nella cultura popolare, in cui, per parafrasare la battuta di John Lennon che i Beatles sono più popolari di Gesù Cristo, il Dalai Lama vince con facilità la sfida con Sigmund Freud. Mentre l’analista devoto può considerare sacrilega quest’affermazione, che piaccia o no, il Buddismo dà segno di essere qui per restare all’interno della nostra cultura, e la sua influenza sul pensiero psicoanalitico è in aumento.

Come possiamo comprendere il crescente interesse verso il Buddismo da parte degli psicoanalisti? La psicoanalisi apparve all’inizio del ventesimo secolo, quando la visione laica del mondo era dominante. Durante questo periodo la prospettiva modernista e le significative imprese del razionalismo scientifico stavano rendendo sempre più difficile, per molte persone, credere in Dio. Freud (1927, 1930) riconobbe che una delle funzioni primarie della religione è quella di fornire alle persone conforto nel fronteggiare le inevitabili crudeltà e ingiustizie della vita. Ma egli sostenne che la religione rappresenta un tentativo immaturo e auto-deludente di trovare conforto nella fiducia che esista una figura di padre onnipotente e divino. D’altra parte, come molte persone laicamente orientate, egli ripose la sua fede nella scienza.

Oggi, all’inizio del ventunesimo secolo, le persone non hanno più la fede nella scienza che avevano un tempo, e il vuoto esistenziale creato dalla morte di Dio è diventato più pronunciato che mai. È ormai chiaro che la psicoanalisi non è una scienza come lo sono la fisica o la chimica, ma è piuttosto una forma laica di spiritualità. In qualche modo essa svolge la funzione di riempire il vuoto che un tempo era riempito dalla religione. Ma la psicoanalisi non si concentra in modo estensivo sulle domande esistenziali profonde che si pone la religione: qual è il significato della vita nell’affrontare la nostra mortalità? In che modo noi, come individui, ci inseriamo in un cosmo più grande? Come troviamo il senso nel mezzo del dolore, della sofferenza e del lutto, che fanno inevitabilmente parte della vita?

Sebbene molte persone nella nostra cultura sperimentino un forte desiderio di spiritualità, è difficile, se non impossibile, per qualcuno con una visione secolare del mondo, tornare alla prospettiva religiosa dei tempi pre-moderni. Come ha sottolineato il sociologo Philip Reiff (1966), l’uomo religioso dei tempi pre-moderni è stato sostituito dall’uomo psicologico, e la psicoanalisi ha giocato un ruolo importante in questa trasformazione. Uno degli aspetti del Buddismo che attrae una cultura laica e psicoanalitica è il fatto di non essere una religione nel modello giudaico-cristiano, con il credo in Dio e una dottrina teologica che chiede un salto nella fede. Secondo Stephen Batchelor (1997), il Buddismo è una “religione senza credenze”, o, nelle parole di Alan Watts (1996), “una religione della non-religione”. Questo rende il Buddismo una religione attraente per l’uomo post-religioso, post-moderno, con la fame di religione ma non abbastanza stomaco per nutrirsi di credenze religiose.

Sebbene l’affermazione che il Buddismo non richiede alcun tipo di fede religiosa sia fino ad un certo punto vera, la realtà è più complessa. Il Buddismo, come la psicoanalisi, è una tradizione eterogenea con scuole differenti e principi in conflitto tra loro e apparentemente contradditori. Sia il Buddismo che la psicoanalisi sono istituzioni culturali che originariamente si sono sviluppate come espressione dei valori e delle complesse tensioni e contraddizioni all’interno delle loro culture d’origine. Entrambi sono sistemi di cura che si sono evoluti nel tempo, così come si è evoluta la cultura, come si è evoluta la configurazione del sé e come le nuove culture li hanno assimilati. Ed entrambi hanno trasformato le culture nelle quali si sono sviluppati. La psicoanalisi di oggi è molto diversa da quella freudiana, e la psicoanalisi americana è molto diversa da quella francese. Il significato del Buddismo è estremamente differente per un contemporaneo nordamericano o europeo, per un buddista indiano dell’Età Assiale e per un buddista cinese del Medioevo; e la funzione giocata dall’assimilazione delle idee buddiste all’interno della teoria e della pratica psicoanalitica può essere compresa solo se sappiamo qualcosa sul modo in cui questo processo di assimilazione esprime i valori culturali, le tensioni e i problemi contemporanei.

In quest’introduzione esamino i contesti culturali in cui psicoanalisi e Buddismo sono apparsi e i modi in cui essi si sono sviluppati. Prendo anche in esame alcune delle tensioni interne con cui sia la psicoanalisi che il Buddismo si sono dibattuti nel corso del tempo, così come i diversi modi in cui queste due tradizioni hanno rispecchiato tali tensioni. Una delle fonti di questa lotta in entrambe le prospettive è stata la tensione tra il polo dell’agnosticismo (o ateismo) e quello della fede (o dedizione). Un’altra fonte è da rintracciare nella tensione tra il polo dell’orientamento individualistico e quello comunitario. Attraverso un confronto cross-culturale, inizio un dialogo tra Buddismo e psicoanalisi, con l’obiettivo di esplorare vari modi in cui le due tradizioni possono completarsi a vicenda.

Le origini culturali della psicoanalisi

Come ha dimostrato Reiff (1966), la psicoanalisi si è sviluppata in un periodo in cui i valori e i simboli religiosi tradizionali, che tenevano insieme la comunità, si stavano sgretolando. I sistemi religiosi giocano un doppio ruolo: quello di integrare l’individuo con la comunità e quello di fornire un sistema di simboli e valori condivisi che sostengano le persone quando attraversano esperienze emotivamente difficili. Questi sistemi tradizionali di cura funzionano attraverso l’attribuzione di un qualche significato alla sofferenza dell’individuo, e attraverso la reintegrazione della persona alienata nella comunità. Questo processo di cura implica un atto di fede e dedizione verso i valori della comunità e, attraverso tale dedizione, l’individuo sperimenta la salvezza. Per questa ragione, Reiff definisce questi sistemi tradizionali di cura terapie della dedizione. Perché questo tipo di terapie funzionino, ci deve essere una comunità integra e coerente alla quale affidarsi. Quando comparve la psicoanalisi, la visione religiosa del mondo, che aveva dominato la cultura occidentale, non stava più funzionando in modo coesivo e completamente vitale. Il sistema tradizionale di valori si stava frammentando. Neitzsche aveva già annunciato la morte di Dio, e la visione laica del mondo si stava assicurando il suo ascendente sulla mente moderna. Reiff reputa la psicoanalisi qualitativamente diversa dai sistemi di cura tradizionali. Dal suo punto di vista, la psicoanalisi non è una terapia della dedizione, bensì un approccio che libera le persone dal tipo di dedizione richiesta dalla religione tradizionale e dalle altre istituzioni sociali.

Come fa notare l’autore, l’obiettivo della psicoanalisi, per Freud, non era quello di aiutare l’individuo a riaffidarsi ai valori della comunità, ma piuttosto quello di insegnargli ad affrontare gli aspetti conflittuali del vivere come singolo separato dalla comunità. Parte della preoccupazione di Freud riguardava il fatto che il sistema culturale di valori esistente fosse repressivo o, meglio, che le persone rispondessero alle richieste della società reprimendo duramente o rigidamente i loro istinti, dando così origine ai sintomi psichici. Egli sottolinea l’importanza del diventare consapevoli delle nostre passioni istintuali sotterranee, e utilizzare quindi le capacità razionali per modularle o domarle in modo riflessivo, invece di farlo in maniera rigida. In questo modo Freud credeva che le persone potessero sviluppare la capacità di scegliere come agire, evitando di essere governate inconsciamente dalle passioni istintuali o dalle rigide difese inconsce contro tali passioni. La sua attenzione era quindi rivolta alla rinuncia razionale, invece che alla repressione irrazionale o inconsapevole.

Così, secondo Reiff, l’analista, a differenza del prete, che è il portavoce di una religione organizzata, “parla per l’individuo sepolto vivo, per così dire, nella cultura. Così, per essere liberato da un super io culturale tirannico, deve essere coricato in modo corretto nel mondo presente. L’analisi non è un’iniziazione, bensì una contro-iniziazione per porre fine al bisogno d’iniziazioni” (1966, p. 77). Freud non era interessato a fornire alle persone una qualsivoglia forma di salvezza. Per molti aspetti, il suo sistema di valori era coerente con i valori della scienza e dell’età moderna. Da questa prospettiva, la conoscenza è potere, e la conoscenza di sé permette di scegliere. Secondo il pensiero di Freud l’individuo maturo è realista, e una persona realista non ha bisogno delle rassicurazioni della religione, che egli considerava un’illusione.

Ma, come osserva Reiff, c’è sempre stata una continua conflittualità interna alla psicoanalisi fra l’insistere di Freud sul fatto che essa non è una terapia della dedizione nel senso religioso tradizionale e il bisogno di trovare il modello di senso e redenzione offerto dalle più tradizionali istituzioni culturali di salvezza. In contrasto con “l’ermeneutica del sospetto” (Ricoeur, 1970) di Freud, Alfred Adler propose una filosofia di dedizione sociale. Jung tentò di portare una ventata di nuovo nella religione, trasferendo le divinità dentro l’uomo come archetipi. Reich sviluppò una psicologia basata sul misticismo sessuale/energetico. Più di recente, analisti come Wilfred Bion (1970), Michael Eigen (1998) e James Grotstein (2000) hanno sviluppato approcci che tentano di incorporare nuovamente lo spirituale attraverso ciò che può essere pensato come un modello di misticismo psicoanalitico.

Inoltre, ciò che Reiff mancò di comprendere è che, per certi aspetti, la psicoanalisi stessa è una terapia di fede o dedizione. Sempre più gli analisti stanno rendendosi conto che il processo analitico non è esente da suggestioni e persuasioni, e che un certo grado di indottrinamento nel sistema di valori dell’analista è sia inevitabile che auspicabile. Irwin Hoffman (1998) è stato particolarmente esaustivo nella sua disamina sul ruolo giocato dall’“autorità analitica”. Egli ci ricorda che Freud stesso (1926) pensava all’analista come a un “pastore laico” e riconosceva che egli gioca il ruolo di un’intima, amorevole autorità che è in continuità col tipo di autorevolezza che hanno i genitori. Freud credeva che questo ascendente dovesse essere usato per convincere i pazienti a venire a patti con la verità sui loro mondi interno ed esterno.

Partendo dall’idea di Freud di psicoanalisi come post-educazione, Hoffman prende a prestito il concetto sociologico di socializzazione secondaria (Berger e Luckmann, 1967) per spiegare il meccanismo attraverso il quale la relazione analitica influenza il processo di cambiamento. Egli sostiene che, esattamente come la prima costruzione di realtà del bambino è forgiata sul crogiuolo di relazioni umane affettivamente intense caratterizzate dalla dipendenza dai genitori, il cambiamento che avviene in psicoanalisi dipende inevitabilmente dal nuovo processo di socializzazione in cui l’analista funziona come un’autorità intima e amorevole. Così, a differenza di Reiff, che si sforza di distinguere la psicoanalisi dal tipo di cambiamento che ha luogo in quelle che egli definisce terapie della dedizione, molti analisti contemporanei ritengono che la psicoanalisi coinvolga inevitabilmente qualche grado di socializzazione all’interno del sistema di valori dell’analista e della comunità analitica (v. Hoffman, 1998; Renik, 1996)1.

Un altro aspetto che avvicina la psicoanalisi ad elementi della terapia della dedizione è la tendenza a sviluppare posizioni dottrinali a cui il fedele deve aderire per poter essere considerato un “vero analista”. Come hanno sottolineato Greenberg e Mitchell (1983), per molti anni la teoria delle pulsioni di Freud ha costituito la cartina di tornasole per verificare se uno era un vero analista, e il rifiuto della teoria pulsionale poteva portare alla scomunica dalla professione. Persino all’interno dei circoli post-moderni e pluralistici il credo nell’importanza di “gettare via il libro”, sta diventando una sorta di nuova dottrina (Hoffman, 1994; Greenberg, 2001).

La psicoanalisi e la cultura dell’individualismo

Un altro importante cambiamento nella sensibilità psicoanalitica, che ha avuto luogo nel corso del tempo, ha coinvolto un aumento dell’enfasi sull’importanza dello sviluppo di un autentico e vitale senso del sé e sulla costruzione di un significato personale. Freud insisteva sull’importanza di imparare a mediare i conflitti tra gli istinti e la civiltà in modo costruttivo. Come ha intuito Mitchell, molti analisti contemporanei sono più interessati ad aiutare i pazienti a costruire un senso personale per se stessi: “Ciò di cui il paziente ha bisogno non è una rielaborazione razionale delle fantasie infantili inconsce; ciò di cui egli necessita è una rivitalizzazione ed espansione della sua capacità di generare esperienze che sente come reali, significative e preziose… Se l’obiettivo della psicoanalisi ai tempi di Freud era la comprensione razionale e il controllo (processo secondario) sugli impulsi conflittuali guidati dalle fantasie (processo primario), oggi si pensa all’obiettivo della psicoanalisi più in termini di consolidamento di un senso di identità più ricco ed autentico” (1993, p. 24).

Questo cambiamento nella sensibilità psicoanalitica corrisponde a un importante cambiamento nel panorama culturale dai tempi di Freud ad oggi. La psicoanalisi nacque in un periodo in cui l’individualismo era in procinto di diventare più forte. Nella cultura vittoriana al tempo di Freud, il sé era visto come pericoloso, e l’enfasi era posta sulla padronanza di sé e sull’auto-controllo (Cushman, 1995). Nel corso dell’ultimo secolo, la cultura dell’individualismo ha continuato ad evolversi, e l’individuo è diventato sempre più isolato dalla comunità. Questo costituisce una lama a doppio taglio: da un lato, la persona più individualista della cultura contemporanea è più libera dall’influenza potenzialmente soffocante della comunità; dall’altro lato, è esclusa dal senso di pienezza di significato e benessere che può provenire dall’essere integrato in una comunità più ampia.

Secondo Philip Cushman (1995), la disintegrazione della rete unificante di credenze e valori, che ha sempre riunito le persone e dato significato alla vita, ha portato allo sviluppo di ciò che egli definisce il sé vuoto. Questo sé vuoto sperimenta l’assenza di tradizione, comunità e significato condiviso, come un vuoto interiore, una mancanza di convinzione personale e di valore, e una fame emozionale cronica e indifferenziata.

Christopher Lasch (1979), descrivendo una disposizione d’animo simile, ritiene che il crollo dei valori culturali tradizionali e la frammentazione delle strutture sociali che hanno per lungo tempo fornito una rete unificante di significati, abbiano portato allo sviluppo di una cultura del narcisismo. L’individuo, nella cultura contemporanea, tende ad essere narcisista nel senso che ha un’idea grandiosa o esagerata della sua unicità e delle sue capacità. Questo senso di sé grandioso e iper-individuato, è un tentativo difensivo di far fronte al sottostante senso di fragilità e isolamento che risulta dal crollo delle strutture sociali tradizionali e delle reti unificanti di significato. Secondo Lasch, le istituzioni di psicoanalisi e psicoterapia si sono assunte il compito di riempire il vuoto culturale lasciato dal crollo delle istituzioni culturali tradizionali. Il rischio, tuttavia, è che la psicoanalisi e le altre forme di psicoterapia, possano perpetuare o esacerbare la patologia cui stanno cercando di porre rimedio. Focalizzandosi sull’arricchimento del sé, esse possono creare un individualismo patologico. La popolarità di teorici come D. W. Winnicott, con l’insistenza sul vero sé, ed Heinz Kohut, con la normalizzazione del narcisismo, può essere interpretata come un riflesso del senso di individualismo radicato nella cultura contemporanea2.

Mentre un tempo le persone consideravano la soddisfazione come il sottoprodotto di una vita buona e morale, nella cultura contemporanea la ricerca della felicità rischia di diventare un obiettivo fine a se stesso. Si verifica, quindi, una perpetuazione del fine narcisistico di raggiungere l’auto-miglioramento o di sostenere il sé. A causa del senso d’isolamento prodotto dal crollo delle strutture sociali tradizionali, le persone diventano sempre più disperate nella loro ricerca d’intimità. Tuttavia, l’intimità diviene irraggiungibile come conseguenza delle stesse circostanze che, in primo luogo, riconducono all’intensificarsi della ricerca d’intimità. La vera intimità implica il lasciare andare i rigidi legami sé-altro che sono necessari per mantenere le difese narcisistiche. Proprio perché le persone sono così preoccupate di sostenere le difese narcisistiche, l’intimità diventa sempre più inafferrabile. Inoltre, a causa dell’intenso isolamento che consegue al crollo delle tradizionali strutture sociali, le persone hanno aspettative irrealistiche sulle loro relazioni intime, o pongono domande non realistiche su di esse, condannandole così al fallimento. La gente cerca, nelle proprie relazioni intime, quel tipo di trascendenza che tradizionalmente veniva dalla religione.

Gli sviluppi relazionali e la svolta postmoderna

Uno dei più importanti sviluppi nella psicoanalisi contemporanea è rappresentato dalla prospettiva relazionale (Aron, 1996; Benjamin, 1988; Ghent, 1989; Mitchell, 1988). Tale prospettiva coinvolge una moltitudine di sviluppi teoretici collegati, che hanno in comune il fatto di porre l’enfasi sul campo relazionale come unità base di studio, anziché sull’individuo come entità separata. Gli esseri umani vengono considerati esseri fondamentalmente relazionali per natura; la mente è vista come composta da configurazioni relazionali e il sé si considera formato in un contesto relazionale. Anche se i teorici relazionali fanno risalire le loro radici indietro fino a Sandor Ferenczi, il crescente impatto di questa prospettiva sul panorama tradizionale è, io credo, un riflesso dell’intensificarsi della crisi dell’individualismo nella cultura contemporanea: può in parte essere visto come un tentativo di rimediare agli eccessi di una prospettiva più individualistica. È anche interessante notare che, anche se la prospettiva relazionale sintetizza i panorami teoretici di entrambi i lati dell’Atlantico, la cultura americana ha giocato un ruolo particolarmente significativo nella sua origine e nel suo sviluppo. Credo che questo rifletta quel senso d’individualismo e isolamento che era estremamente intenso negli Stati Uniti. Sebbene la prospettiva relazionale possa essere considerata un correttivo all’eccessivo individualismo della cultura contemporanea, ad un altro livello essa rappresenta un’ulteriore incarnazione di quell’individualismo. Enfatizzando la reciprocità della relazione analitica e il coinvolgimento dell’analista nel campo relazionale, essa mette in dubbio le fonti tradizionali dell’autorità analitica. Questo è in accordo con l’enfasi democratica, posta da Western, alla sfida nei confronti della tradizione e del collocare l’autorità all’interno dell’individuo invece che nell’istituzione sociale.

Un’altra importante tendenza nel pensiero psicoanalitico contemporaneo è rappresentata dalla svolta postmoderna. Sempre più analisti stanno evidenziando la natura costruita della conoscenza umana, e i conseguenti limiti della nostra comprensione come analisti (Hoffman, 1988; Mitchell, 1993; Stern, 1977). L’epistemologia costruttivista afferma che la realtà è intrinsecamente ambigua, e prende forma solo attraverso la nostra interpretazione. Questa prospettiva ha profonde implicazioni per la natura dell’autorità analitica e procede parallelamente alla crescente democratizzazione della relazione terapeutica.

Associato con la svolta postmoderna, c’è stato un cambiamento in favore della visione del sé come multiplo, anziché come unitario (Bromberg, 1998; Mitchell, 1993; Pizer, 1998). Tale cambiamento è il riflesso di una modifica simile avvenuta all’interno di una serie di discipline diverse, come la filosofia, la critica letteraria, l’antropologia, la psicologia sociale, le scienze cognitive e la neuropsicologia. Anche se è al di fuori dello scopo di questo scritto discutere estesamente dei fattori che sottostanno a questo cambiamento culturale diffuso, vale la pena di indugiare per un momento sul suo significato all’interno del pensiero psicoanalitico, dati i paralleli tra la concettualizzazione psicoanalitica del sé come multiplo e la concezione buddista del sé.

Nel pensiero postmoderno, una delle spinte principali che sottostanno alla decostruzione del sé è quella di sfidare le funzioni potenzialmente oppressive della tradizione e dell’autorità. Jacques Derrida, per esempio, “uccide” l’autore del testo togliendogli la sua autorità ultima, sostenendo che il significato finale di un testo non può essere determinato in base alle intenzioni dell’autore. Costruire il senso è un’impresa ermeneutica senza fine, e la nozione di verità viene sostituita con un incessante gioco di infiniti significati. Michel Foucault mette in dubbio ciò che egli considera l’illusione del sé come agente autonomo e libero, analizzando il modo in cui reti decentrate e intricate di relazioni di potere all’interno della società conducono alla costruzione dell’esperienza soggettiva della personalità.

L’attuale interesse della psicoanalisi per la molteplicità del sé è stato senza dubbio influenzato dalla natura singolare di questo tipo di pensiero. Tuttavia sono presenti altri influssi. Susan Fairfield (2001), per esempio, sostiene che le teorie della personalità non catturano con precisione una qualche realtà sottostante, ma sono invece modellate sulla base dei vari bisogni intrapsichici dell’analista. L’autrice attira la nostra attenzione sulla mediocrità nascosta che spesso si associa alle critiche dei monisti (i sostenitori del sé unitario), che si aggrappano alla confortante convinzione che ci sia un sé stabile, coeso e unico. Sottolinea anche l’aggressività potenzialmente associata al desiderio di sfidare i limiti convenzionali, e suggerisce che il vedere il sé come multiplo possa anche rappresentare una misura controfobica per vincere la paura della frammentazione del sé, sostenendo che il sé sia realmente frammentato.

Mitchell (2001), mentre applaude alle riflessioni della Fairfield sul perché uno dovrebbe vedere il sé come multiplo, fa anche luce sulle implicazioni cliniche di questa prospettiva. La sua tesi centrale è che l’adozione della prospettiva del sé multiplo aiuta a liberarci da una visione della salute mentale che enfatizza il conformismo. In una discussione che ricorda in qualche cosa Jacques Lacan, egli afferma che l’insistenza ego-analitica americana sull’integrazione dell’io tende a valorizzare l’analisi e la sintesi razionali, e a patologizzare l’intensità emotiva. Al contrario, l’apertura ad una varietà di diversi stati dell’essere conduce a una maggiore imprevedibilità e passione nella vita. È interessante notare che, per certi aspetti, la comprensione di Mitchell delle implicazioni cliniche della molteplicità del sé è coerente con la sua iniziale enfasi sulla centralità dell’arricchimento e della rivitalizzazione del sé (Mitchell, 1993). Questa sensibilità è in accordo con l’affermazione della Fairfield che gli analisti americani tendono a vedere il sé multiplo come una “cornucopia” di possibilità.

Le origini del Buddismo

Il Buddismo ha avuto origine nel quinto secolo a. C., in quello che oggi è il nordest dell’India. Durante questo periodo la civiltà indiana era sottoposta a uno straordinario fermento: la società rurale e l’economia agricola stavano venendo gradualmente rimpiazzate da un’economia di mercato e dai centri urbani. Una classe di mercanti culturalmente nuova, diversa e sofisticata, era in ascesa; i tradizionali valori culturali e le credenze religiose venivano messi in dubbio, e un accresciuto senso di individualismo stava emergendo. Esattamente come l’individualismo di oggi è un’arma a doppio taglio, anche il crescente individualismo in India sembra essersi associato sia col malessere che con l’eccitazione.

La società agricola nella quale il Buddismo si è sviluppato era statica e conservatrice; era rigidamente divisa in quattro caste gerarchiche: i preti, i guerrieri, i contadini e i servitori. Queste caste erano ereditarie e si pensava rispecchiassero l’ordine archetipico del cosmo. La condotta etica consisteva nell’adempiere ai doveri e alle responsabilità propri di ogni casta. Questa visione del mondo, se fornisce struttura e coesione, lascia però poco spazio al cambiamento sociale e alla coscienza individuale. I Brahmani, o sacerdoti, erano i soli in possesso della sacra conoscenza dei Veda, che dettavano le responsabilità delle caste e le relazioni tra esse. Era dovere e compito dei Brahmani eseguire i vari riti sacrificali, incluso il sacrificio degli animali, per controllare l’universo.

Nel periodo precedente alla comparsa del Buddismo, una nuova tendenza religiosa aveva iniziato a diffondersi, la tradizione upanishadica. Essa comportava una reinterpretazione dei Veda, che enfatizzava l’importanza del significato interno delle cose, rispetto all’espressione esterna e magica dei riti sacri; allo stesso tempo conservava il sistema delle caste. Centrale nella filosofia upanishadica è il concetto di atman, che è l’equivalente, per alcuni aspetti, della nostra idea di anima. L’atman è l’essenza della persona, che trascende l’esperienza fenomenica. Esso è quindi il sé reale in contrapposizione al sé sperimentato. Questo atman è concettualizzato come coincidente con l’essenza unica e unificata che sta al di là delle apparenze. L’esperienza individuale di sé, come tutti i fenomeni al mondo, è quindi un’illusione, dietro cui si nasconde la realtà trascendente in cui tutti i fenomeni sono uno. L’incapacità di vedere al di là di questo velo d’illusione mantiene le persone intrappolate nel dolore dell’individuazione e nella sofferenza di vita e morte. Quelli che falliscono nel riconoscere la loro vera natura come parte dell’essenza universale sperimentano il dolore e la pena di vivere e, dopo la morte, rinascono ancora all’interno di cicli infiniti di vita e di morte. L’obiettivo è riconoscere la natura illusoria del sé e unificare il vero sé, o atman, con la sottostante essenza universale. Le condizioni storiche che hanno portato a percepire la vita come piena di dolore possono essere oggetto di speculazione. Può essere stato in parte collegato allo stress associato all’aumentata civilizzazione e al crollo dei valori tradizionali. Il rapido sviluppo dei centri urbani può aver generato un incremento dell’incidenza delle pestilenze (Gombrich, 1988). Lasciando da parte le condizioni che hanno dato origine a questa prospettiva, tuttavia, una delle sue conseguenze è stata la svalutazione dell’esperienza terrena dei sensi, in favore di quella trascendente.

Le due pratiche principali usate per guadagnare la trascendenza erano la meditazione e la mortificazione della carne. La meditazione, in questo contesto, comportava lo stare seduti in silenzio utilizzando una varietà di tecniche di concentrazione per mettere a fuoco la mente, placando così il pensiero discorsivo. La mortificazione della carne implicava il sottoporsi a varie condizioni fisiche estreme di freddo, caldo, fame e così via, come modo per vincere le richieste del corpo, sperimentando così la trascendenza.

Il Buddismo delle origini può essere compreso, sotto diversi aspetti, come reazione a questa visione del mondo. Prima di tutto, il Budda negava l’esistenza di un atman o di qualsiasi sé trascendente o anima. Allo stesso tempo, egli non ha mai pensato che il sé non esistesse (come spesso è stato interpretato), piuttosto riteneva che il sé fosse incoerente, nel senso che si costruisse momento per momento sulla base di una varietà di componenti: memorie, sensazioni fisiche, emozioni, concetti, disposizioni (incluso sia il condizionamento inconscio che quello ereditato) e così via. Inoltre egli aveva capito che la costruzione del sé è sempre influenzata da cause e condizioni costantemente mutevoli. C’è qualche somiglianza tra questo insegnamento del Budda e la formulazione upanishadica dell’atman: in entrambi i casi, il presupposto è che l’esperienza del sé come entità consistente e isolata rappresenta il cuore del problema, e la modifica di tale esperienza costituisce la soluzione.

La prospettiva buddista, tuttavia, è, per molti aspetti, più moderata. Prima di tutto, non concettualizza il sé individuale come illusorio, ciò che è illusorio, ancora una volta, è l’esperienza del sé come consistente o immutabile. Dal punto di vista buddista, il sé, come ogni cosa al mondo, è transitorio o impermanente. La morte, la malattia e il lutto sono ineliminabili aspetti della vita. La sofferenza è il risultato del tentativo di aggrapparsi a ciò che si desidera, evitando ciò che causa dolore. La liberazione emerge come conseguenza del riconoscere la natura impermanente della realtà, e a seguito della liberazione dal desiderio di essere auto-centrati. Non c’è un sé trascendente che debba essere realizzato, come nella visione upanishadica, e quindi non c’è un sé che sia separato dagli aggregati della forma e dell’esperienza psicologica o mentale. Da questo punto di vista, la prospettiva buddista è meno dualistica della visione upanishadica, e si presta di meno a dare origine a forme estreme di ascetismo. Il Budda ha vigorosamente rifiutato l’ascetismo estremo come pratica spirituale e ha proposto, invece, ciò che viene definito come La Via di Mezzo, che rappresenta una via intermedia tra i due estremi dell’ascetismo da un lato e dell’edonismo e della sensualità dall’altro. L’obiettivo nel Buddismo diventa, quindi, non tanto quello di trascendere l’esperienza terrena, quanto quello di trovare un modo più saggio di vivere al suo interno.

Questa differenza viene fuori nel tipo di tecniche meditative utilizzate nelle due diverse tradizioni. Nella tradizione upanishadica, la meditazione tende a coinvolgere la concentrazione dell’attenzione su di un oggetto di focalizzazione, con lo scopo di vivere un’esperienza di assorbimento. Ciò porta a un ritiro dei sensi dall’esperienza terrena, a una riduzione della stimolazione interna e alla conseguente esperienza di pace o tranquillità, che si ritiene associata alla realtà trascendente che si desidera raggiungere.

Questa forma di meditazione, che qualche volta viene definita meditazione di concentrazione, costituisce una delle forme di meditazione buddista, ma, di per sé, non è considerata sufficiente per arrivare alla liberazione. La seconda forma di meditazione, che ha un ruolo centrale nella maggior parte delle tradizioni buddiste, consiste in un’osservazione distaccata della propria mente. La meditazione di concentrazione gioca un ruolo importante nell’aiutare l’individuo a sviluppare la capacità attenzionale necessaria per osservare la propria esperienza in modo pieno, ma il vissuto di assorbimento meditativo non è l’obiettivo. Il fine di questa seconda forma di meditazione, che viene definita meditazione dell’insight o meditazione di visione profonda, è quello di aiutare chi medita a sviluppare una maggiore consapevolezza della molteplicità dei contenuti della coscienza come essi si rivelano, e una capacità duratura di mantenere un atteggiamento di accettazione non giudicante dell’intera gamma dell’esperienza. Quest’obiettivo è in accordo con l’enfasi che la tradizione buddista pone sull’imparare a vivere pienamente in questo mondo, invece che ricercare esperienze che vadano oltre quella terrena. La meditazione di visione profonda porta ad un maggiore apprezzamento della natura impermalente e sempre mutevole di tutti i fenomeni, incluso il sé. Essa conduce anche ad apprezzare il ruolo che la mente gioca nella costruzione della realtà.

Un’altra importante caratteristica del pensiero buddista delle origini è il rifiuto di tutte le speculazioni metafisiche. Da questo punto di vista esso, almeno nella sua prima forma e in alcune varianti contemporanee, è essenzialmente pragmatico e agnostico per natura. È pragmatico in senso filosofico (v. Rorty, 1982), nella misura in cui la verità è definita come ciò che è efficace nell’alleviare la sofferenza umana. Ed è agnostico nel senso che rifiuta di impegnarsi in speculazioni metafisiche. C’è un racconto in cui il Budda usò l’analogia di un uomo colpito da una freccia. In una situazione di tale urgenza, domande come chi ha costruito la freccia e che tipo di arco è stato usato sono irrilevanti. Ciò che è centrale è il fatto pratico di rimuovere la freccia. Inoltre, affidarsi a una visione metafisica o a una dottrina teologica è una forma di asservimento, e interferisce con l’apertura indispensabile per arrivare all’illuminazione o al risveglio della vera esistenza.

Una delle implicazioni di questa caratteristica del primo pensiero buddista è stata quella di minare la struttura teologica alla base del sistema delle caste. A livello sociale, poi, il pensiero buddista delle origini è stato una forza profondamente democratizzante. Ha sovvertito l’autorità della classe dei sacerdoti e negato il valore delle pratiche rituali di natura magica. Il comportamento etico non è più stato definito sulla base dell’adempimento del proprio dovere come membro di una classe, e non è più derivato nessun beneficio dall’osservanza dei rituali o dal dipendere dalla classe dei sacerdoti. Invece, l’azione etica è stata definita in termini di azione disinteressata, secondo i precetti dell’agire corretto.

Per molti aspetti, la spinta della prima tradizione buddista è stata analoga a quella della Riforma Protestante in Europa. I primi buddisti erano interessati a purificare la tradizione upanishadica dagli aspetti che vedevano come problematici, esattamente come Lutero e Calvino volevano purificare la cristianità. Essi desideravano sradicare gli elementi magici e di superstizione, eliminare i rituali vuoti e stabilire un rapporto più diretto tra l’individuo e l’esperienza della salvezza (o ciò che i buddisti definiscono illuminazione). Proprio come la Riforma Protestante conteneva un aspetto democratizzante, nel mettere in dubbio il ruolo del clero come intermediario, incaricato da Dio, tra l’individuo e Dio stesso, allo stesso modo il Buddismo ha eliminato il ruolo, sancito dalla divinità, della classe dei sacerdoti, e ha enfatizzato la responsabilità dell’individuo per il proprio destino spirituale. E come il tentativo di liberare la cristianità dagli elementi magici ha avuto conseguenze sia desiderabili che indesiderabili, così anche il tentativo del Buddismo di purificare la religione indiana dai suoi aspetti magici ha avuto le stesse conseguenze. Entrambe le prospettive hanno posto grande insistenza sul significato interno della spiritualità, ma entrambe hanno sacrificato parte del magico e del mistero di cui il cuore dell’uomo è affamato.

Conflitto ed evoluzione all’interno del pensiero buddista

Fin dal principio, nel Buddismo si è animato il conflitto tra la prospettiva pragmatica/agnostica, che fonda la sua anima, e il bisogno di fede, di certezze epistemologiche e di assoluti metafisici. Per diversi aspetti, questo corre parallelo al conflitto, all’interno della psicoanalisi, tra la visione di Freud della psicoanalisi come un approccio puramente razionale, scientifico e analitico, e la tendenza a dare vita a una nuova terapia della fiducia e della cura. Un omologo di questo conflitto può essere individuato nell’evoluzione della filosofia buddista. La filosofia e la psicologia buddiste degli inizi erano codificate in un corpo di scritti, chiamato Abhidharma. Questi testi pongono l’accento sul fatto che il sé può essere decostruito in una serie di elementi costitutivi. Si suppone che tali elementi, nel loro sviluppo, dipendano l’uno dall’altro e da cause e condizioni mutevoli. È sulla base di questo che il sé è visto come mancante di un’esistenza reale. In pratica, si ritiene che il processo meditativo consenta di sperimentare la comparsa e l’allontanamento di vari elementi costitutivi del sé e questo insight conduca all’esperienza dell’illuminazione.

Nel corso del tempo, questa prospettiva venne reificata, e si diffuse la tendenza a considerare i vari elementi costitutivi del sé come aventi natura essenziale e sostanziale. Vennero offerte diverse e alternative teorie su ciò che potevano essere questi elementi costitutivi del sé. La scuola filosofica Madhyamika nacque in parte come reazione a questa tendenza. Questa prospettiva utilizzò una sofisticata analisi linguistica e logica per scomporre l’analisi abhidharmica del sé nei suoi elementi costituenti e dimostrare che nessuno di questi elementi possiede una realtà intrinseca. L’ipotesi non è che tali fenomeni siano inesistenti, quanto piuttosto che essi siano privi di un’esistenza intrinseca. In altre parole, tutti i fenomeni esistono in funzione della nostra costruzione degli stessi. Questa prospettiva anticipò l’ermeneutica contemporanea e il pensiero costruttivista di centinaia di anni. La tradizione Madhyamika non rappresenta un costruttivismo radicale, è invece un po’ più vicina a ciò che Hoffman (1998) definisce costruttivismo dialettico. Essa estende il principio buddista della Via di Mezzo a livello epistemologico, spingendo per una posizione tra gli estremi del realismo naif e del costruttivismo radicale. Mette in luce come la vuotezza in sé sia solo un concetto e non possieda alcuna realtà intrinseca. Come lo hanno esposto i filosofi Madhyamika, il concetto di vacuità è assimilabile a una medicina, una medicina contro la malattia del realismo naif. Ma, come per ogni altro medicinale, una dose eccessiva può essere dannosa.

Tuttavia, i critici della posizione Madhyamika la interpretarono come una forma di costruttivismo radicale, che conduce al nichilismo. La scuola di filosofia Yogachara tentò di correggere ciò che, del pensiero Madhyamika, vide come una tendenza verso il nichilismo, adottando una posizione che, in alternativa, tese al metafisico e al trascendente. La scuola Yogachara ritiene che sia la percezione che l’oggetto della percezione derivino da un unico seme, che è contenuto in un tipo di substrato della coscienza. Questo sottostrato di coscienza è paragonabile ad un fiume, che è costantemente mutevole e tuttavia rimane lo stesso. Possiede sia gli aspetti personali che quelli universali.

Nel Buddismo c’è anche quella che viene chiamata tradizione Tathagatagarbha, che sostiene che tutti gli esseri senzienti sono dotati della natura del Budda e quindi hanno il potenziale per “risvegliarsi” e realizzare la loro identità intrinseca come esseri illuminati. Questa essenza del Budda, anche definita quiddità (“come essa è”, “in quanto tale”), o tathata in sanscrito, è spesso considerata un equivalente della vuotezza, ma ha una qualità più positiva. Essa è descritta come senza inizio e senza fine e come permeante ogni cosa. In alcune tradizioni questo concetto dell’essenza del Budda, o suchness, sembra essere preso più alla lettera, sconfinando così nel tipo di sostanzialismo contro cui il Buddismo delle origini aveva combattuto. In altre tradizioni, tuttavia, il concetto è assoggettato al tipo di logica decostruttivista, caratteristica dell’approccio Madhyamika.

A un livello più pratico, il contrasto tra i poli di pragmatismo/agnosticismo e fede/assolutismo si riflette nel modo in cui il Budda viene concettualizzato nelle diverse tradizioni. Nel Buddismo antico, e in alcune forme di Buddismo contemporanee, il Budda è empaticamente visto non come una figura divina. È un essere umano che arrivò all’illuminazione attraverso i propri sforzi, e che servì da modello per altre persone alla ricerca di spiritualità. Dopo la sua morte egli non fu più considerato attivo in modo diretto nel mondo; il Budda non è, quindi, qualcuno a cui rivolgere la proprie preghiere. Nel tempo, diverse dottrine e tradizioni svilupparono l’idea del Budda storico solo come personificazione del principio d’illuminazione. Da questo punto di vista, il cosmo è popolato da un numero infinito di Budda, passati, presenti e futuri, ciascuno dei quali costituisce una presenza attiva nel mondo e aiuta gli esseri senzienti a raggiungere l’illuminazione. In alcune tradizioni buddiste, i praticanti pregano o si rivolgono all’uno o all’altro dei diversi Budda, esattamente come i cattolici pregano i santi. A livello della dottrina filosofica, c’è la consapevolezza che questi Budda non esistano in senso assoluto e che, come tutti i fenomeni, essi siano privi di esistenza intrinseca. Tuttavia, a livello psicologico, essi hanno per le persone la stessa funzione che hanno i santi nella tradizione cattolica o gli dei e le dee nelle culture pre-moderne.

Un altro esempio di questo contrasto può essere individuato nel ruolo che la credenza nella rinascita gioca nelle varie tradizioni buddiste. Nonostante il Buddismo antico abbia rifiutato la nozione di sé eterno o atman, accettò quella di rinascita. Come nella tradizione upanishadica, una formulazione dell’obiettivo del Buddismo delle origini era (e in qualche forma di Buddismo contemporaneo continua ad essere) quello di ottenere la liberazione dal samsara, o ciclo di morte e rinascita. Questo stato di liberazione, definito nirvana, è concettualizzato come quello in cui cessano tutte le esigenze centrate sul sé. Eppure, a livello della pratica, l’obiettivo è spesso formulato nei termini di raggiungere una vita migliore nel successivo ciclo di rinascita. La mia impressione è che ci sia sempre stato un certo contrasto tra la dottrina buddista ufficiale dell’anatman, o non-sé, e la fede nella rinascita. La filosofia buddista cerca di ricomporre questo contrasto in vari modi. Per esempio, sostenendo che ciò che passa da una vita all’altra non è il sé nella sua sostanza o l’anima, ma piuttosto una sorta di connessione causale. L’analogia che viene utilizzata è quella della fiamma che passa da una candela all’altra. La fiamma che passa da una candela a quella successiva non è esattamente la stessa, ma non è neppure completamente differente. Ma, secondo me, questa soluzione è lontana dall’essere soddisfacente. Alcune tradizioni buddiste ridimensionano l’importanza della dottrina dalla rinascita. La tradizione zen, per esempio, tende ad interpretare le buone o le cattive rinascite come stati della mente.

D’altro canto, il Buddismo tibetano pone grande enfasi sul principio della rinascita. Infatti c’è l’usanza di scegliere leader spirituali importanti di età avanzata, perché si ritiene che essi siano reincarnazioni di leader spirituali deceduti. Ad esempio, il Dalai Lama, il supremo leader spirituale e temporale del Tibet, è considerato la quattordicesima reincarnazione del primo Dalai Lama.

Quando il Buddismo si diffuse in Cina, esso fu influenzato dalla cultura preesistente, dalla filosofia taoista e dal confucianesimo, che erano dominanti in quel periodo. Sebbene una varietà di forme diverse di Buddismo si sia sviluppata in Cina, il Buddismo Chan (più conosciuto con il nome giapponese di Zen) è, forse, quello più comunemente collegato alla Cina. Lo Zen è spesso caratterizzato dalla qualità dell’essere diretto e legato alla terra. L’antica cultura indiana era portata ad apprezzare il pensiero filosofico astratto e la speculazione metafisica. Essa tese ad assumere una tendenza pessimistica verso il mondo. Come abbiamo visto, nella tradizione upanishadica la vita è sofferenza, e l’obiettivo è rappresentato dalla ricerca della liberazione dal ciclo infinito di rinascite, che avviene attraverso la comprensione dell’illusione della propria individualità. Il pensiero cinese antico aveva un sapore più ottimistico, umanistico e terreno. Nella tradizione taoista, la liberazione si ottiene sintonizzandosi con l’armonia naturale e spontanea dell’universo, il Tao. Questo Tao non è qualcosa che può essere definito a parole o afferrato con un concetto. In effetti, ogni tentativo in questo senso interferisce con una possibile funzionalità in questa dimensione di armonia. Si può agire in accordo col Tao solo quando si è in grado di liberarsi dal tentativo di concettualizzarlo, agendo così in modo spontaneo e inconsapevole di sé. Questo ci consente di sintonizzarci ed essere ricettivi verso la configurazione del momento.

Sebbene originariamente il Budda fosse servito come esempio del modo in cui tutti gli esseri umani potevano raggiungere l’illuminazione attraverso i propri sforzi, gli sviluppi successivi del Buddismo in India tesero a rappresentare l’illuminazione come uno stato sempre più straordinario, rarefatto e trascendente, accessibile a pochi. Lo Zen cercò di riportare l’illuminazione sulla terra, dove effettivamente era, e cercò di demistificarla e demitizzarla.

C’è un elemento iconoclastico nello Zen, che fu probabilmente influenzato da un’antica rappresentazione taoista del saggio come qualcuno che veniva liberato dalle convenzioni e dal pensiero stereotipico. L’illuminazione, nella tradizione zen, viene generalmente associata alla spontaneità e alla libertà dal dover inibire la propria autoconsapevolezza e dal conformismo. L’illuminazione è vista come uno stato in cui gli eventi sono vissuti in modo diretto, senza l’intrusione dell’autoconsapevolezza riflessiva. C’è una disinteressata apertura all’esperienza.

In Tibet il Buddismo assunse una forma molto diversa dal Buddismo cinese. In Tibet alcuni sviluppi del Buddismo indiano (in particolare il Buddismo tantrico) si fusero con la tradizione indigena tibetana del Bon, che contiene forti elementi magici e sciamanici. Tutto questo risultò in una sintesi interessante di pratiche magiche e sciamaniche con la visione e l’epistemologia buddiste. La tradizione tibetana pone grande enfasi sulla figura del maestro (definito guru o lama), che è visto come la personificazione del Budda e la via d’accesso all’illuminazione. La cosmologia buddista tibetana è popolata da un pantheon [che consta] di dei e dee che vengono invocati durante le sessioni di meditazione, che includono elaborate visualizzazioni. Nello stesso tempo queste divinità sono viste come prive di esistenza, e come creazioni della mente del meditatore stesso.

Nel Buddismo tibetano, una delle pratiche meditative fondamentali è quella definita del guru yoga. L’obiettivo del guru yoga è di facilitare lo sviluppo di fede e devozione verso il proprio lama. In termini psicoanalitici, la tradizione tibetana cerca di favorire il dispiegarsi di un transfert idealizzante nei confronti del maestro, e di usare questo come veicolo di cambiamento. Questo transfert costituisce un’ispirazione continua per lo studente, per procedere lungo il difficile sentiero dello sviluppo spirituale nonostante le numerose difficoltà, aiutandolo a generare e mantenere in vita l’idea che il cambiamento (o il sollievo dalle sofferenze) è possibile. Il lama o il guru servono come promemoria viventi del fatto che un tale cambiamento è possibile, dal momento che funzionano come personificazioni dei princìpi su cui lo studente spera di poter fondare la propria realizzazione. Inoltre, essere in relazione con un lama, che personifica qualità speciali, aiuta lo studente a sentirsi investito di potere.

Nella tradizione tibetana, la relazione con il lama non è mai interpretata, come invece avviene nella psicoanalisi. Fin dal principio, tuttavia, si insegna allo studente a coltivare una visione paradossale nei confronti del lama; egli è visto, da un lato, come la personificazione dei più alti ideali e valori della tradizione buddista e, dall’altro, come un essere umano, con limiti e difetti umani.

Come in gran parte della tradizione tibetana, il guru yoga fa riferimento all’antico trucco indiano della corda, in cui lo yogi si arrampica su di una corda sospesa a mezz’aria, distrugge la parte di corda dietro di sé e scompare. Allo studente s’insegna ad evocare, nella sua immaginazione, un mondo di divinità della meditazione o ad attribuire al lama poteri straordinari; poi gli si insegna ad usare queste immagini, costruite nella sua fantasia, per aiutarsi a coltivare certe attitudini verso la realtà. Alla fine di ogni seduta di meditazione, il meditatore dissolve l’immagine, riportandola alla non essenza da cui ha preso origine. Egli distrugge la corda.

Anche se ci sono molte varianti del guru yoga, tutte includono qualche combinazione della pratica della visualizzazione e di preghiera o incantazione, pensate per aiutare lo studente a vedere il lama come l’incarnazione del Budda (e delle qualità che il Budda incarna) e a stabilire una profonda connessione con lui, in modo da, alla fine, interiorizzare le sue qualità. Per esempio, il meditatore visualizza il lama come manifestazione di un Budda o di un’altra divinità circondata da un seguito di figure d’importanti lignaggi o circondata da varie dakini (divinità femminili visualizzate per concentrarsi sulla mente). Diversi colori di luce sono poi visualizzati come emananti dalle dakini e dal lama. Essi lavano e purificano il meditatore dal bisogno di essere centrato su se stesso, aiutandolo a riconoscere tutti i fenomeni come privi di esistenza intrinseca.

Questa particolare pratica mette in luce due caratteristiche delle pratiche di visualizzazione del Buddismo tibetano. In primo luogo, la visualizzazione è impregnata di una sorta di logica o realtà transizionale, per usare i termini winnicottiani. Anche se la visualizzazione è intenzionalmente costruita dal meditatore, è anche trattata come se avesse vita propria (si prega il lama visualizzato). Allo stesso tempo tu ricordi esplicitamente a te stesso, attraverso le incantazioni prescritte, che non la visualizzazione, ma neppure il lama stesso, hanno alcuna esistenza intrinseca. Il meditatore cerca così di entrare in una sorta di spazio transizionale, nel senso che i confini tra realtà soggettiva e oggettiva vengono intenzionalmente resi meno nitidi. Egli si sforza di mantenere una sorta di doppia visione, da un lato sapendo che l’esperienza è soggettiva, dall’altro lato trattandola come se fosse oggettiva o reale.

In secondo luogo, questa pratica implica la costruzione immaginaria di un mondo in cui i normali confini dell’identità personale diventano permeabili. Nella visualizzazione, il lama diventa identico al Budda, e la mente del lama diviene inseparabile da quella del meditatore. Questa identificazione aiuta a sciogliere le costrizioni della comune logica dualistica e a sfidare la distinzione convenzionale sé/altro. Quando il meditatore evoca un intero stuolo di divinità minori e maggiori e, facendo questo, riconosce che esse contemporaneamente sono e non sono creazioni della mente, il meditatore attinge a una ricca e vasta esperienza che rimpicciolisce la realtà convenzionale.

Il Buddismo e la cultura psicoanalitica

La secolarizzazione e il ritorno del rimosso

La tendenza alla secolarizzazione nel mondo moderno, anche se profondamente liberante per certi aspetti, ha anche contribuito a far sperimentare il sé come vuoto e, in alcune culture più tradizionali, è stata vista come una forma di oppressione e un assalto agli stili di vita tradizionali. In certi casi questo ha causato il risorgere dell’interesse religioso in una varietà di forme diverse, una sorta di ritorno del rimosso. A metà del ventesimo secolo, in pochi avrebbero predetto che la religione sarebbe diventata, ancora una volta, un’importante forza sociale. Eppure, dalla drammatica influenza del fondamentalismo islamico in Medio Oriente e a livello internazionale, alla crescente influenza della destra cristiana nella politica nord americana, sta diventando sempre più chiaro che la tendenza verso il secolarismo si è drammaticamente rovesciata. Come ha sottolineato Karen Armstrong (2000), l’ascesa del fondamentalismo religioso deve essere compresa non come un ritorno alla prima forma di fede religiosa, ma come una reazione alla crisi spirituale e culturale della modernità. Nel suo estremismo e rigidità, questo rappresenta un fragile e difensivo tentativo di riportare in vita una cultura frammentata e di puntellare un senso del sé sotto assalto.

Un’altra reazione è legata all’emergere della spiritualità New Age, che implica una sincretica fusione di diverse spiritualità sia orientali che occidentali con la psicologia popolare. Questa forma di espressione religiosa deriva da una sete di significato e da un genuino desiderio di spiritualità. Ma, a differenza di forme più mature di spiritualità, che enfatizzano l’equilibrio tra i bisogni del sé e il bene di un insieme più vasto di persone, essa tende verso forti elementi di concentrazione narcisistica sul sé e onnipotenza personale.

Abbiamo visto come sia il Buddismo che la psicoanalisi si sono dibattuti negli anni nell’ambito del contrasto tra il polo dell’agnosticismo o ateismo e quello della fede o devozione. All’interno della psicoanalisi, la tendenza a deificare Freud e a trattare le sue parole come vangelo può essere vista come un’altra forma di questo ritorno del rimosso.

Da una prospettiva psicoanalitica contemporanea, una delle attrattive del Buddismo è il modo in cui la sua sensibilità agnostica e le sue radici nell’epistemologia costruttivista entrano in risonanza con la svolta postmoderna. Certamente il Buddismo, come tutte le religioni, è passato attraverso varie forme d’istituzionalizzazione, e ha spesso perso questa sensibilità agnostica. È, quindi, importante non idealizzare il Buddismo, un particolare pericolo per gli occidentali che hanno cominciato a sentirsi estranei rispetto alle proprie tradizioni spirituali e cercano un significato spirituale in una tradizione straniera, non contaminata da associazioni negative. L’enfasi postmoderna sulla critica all’autorità, che gioca un ruolo importante nel dialogo psicoanalitico contemporaneo, può, tuttavia, sfidare gli aspetti istituzionalizzati del Buddismo, che oscurano le sue dimensioni più emancipatorie. La critica postmoderna può aiutare a far luce sui diversi e insidiosi modi in cui il Buddismo, come tutte le tradizioni religiose, può essere utilizzato per servire gli interessi dei privilegiati.

Il costruttivismo nel buddismo e nella psicoanalisi

Una delle attrattive del pensiero buddista da una prospettiva psicoanalitica è che l’epistemologia costruttivista, che risulta così rilevante nella filosofia buddista, è compatibile con la tendenza al costruttivismo che caratterizza il pensiero psicoanalitico contemporaneo. Alla luce di questa compatibilità, è interessante pensare alle spinte che stanno dietro a questa tendenza nelle due differenti tradizioni. Per quanto riguarda la psicoanalisi, un’importante influenza ha avuto il generale avvicinamento al costruttivismo nella filosofia e in altre discipline. Ma, in più, un impulso centrale è stato il desiderio di democratizzare la relazione terapeutica, enfatizzando i limiti della conoscenza dell’analista. Collegato a questo è l’importanza della reciprocità della relazione analitica e della co-costruzione della realtà da parte di paziente e analista. Il porre l’accento su questi aspetti è coerente con la tradizione occidentale dell’individualismo democratico e con l’accortezza delle diverse forme di autorità. La tendenza verso il costruttivismo in psicoanalisi è coerente anche con la crescente enfasi posta sull’importanza di costruire narrative terapeutiche nel contesto della crisi post-moderna dell’assenza di senso.

Nel costruttivismo buddista, la prima indicazione è quella di coltivare un radicale senso di apertura. Si crede che i concetti ci rendano schiavi e che la tendenza alla reificazione generi sofferenza. L’enfasi non è posta sulla costruzione di narrative adattive, ma piuttosto sulla decostruzione radicale di tutte le narrative. È interessante notare che l’enfasi posta sull’apertura radicale è simile, per certi aspetti, alla crescente consapevolezza, nel pensiero analitico, dell’importanza della franchezza dell’analista e della tolleranza dell’ambiguità (v. Bion, 1970; Stern, 1997; Eigen, 1998).

Ci può essere qui una preziosa complementarietà tra le due tradizioni. Gli analisti, nonostante l’attrazione per il pensiero costruttivista, tendono ancora ad avere un atteggiamento distorto teso a voler capire e aiutare i pazienti a capire. Ci sono volte in cui l’esperienza della comprensione può essere d’aiuto; specialmente in una cultura più individualistica come la nostra, la costruzione del senso personale (che il Buddismo tende a negare) può essere molto importante. Tuttavia, lasciar stare il bisogno di capire può portare a sperimentare sottomissione, accettazione e reverenza di fronte al mistero della vita.

Sé multipli e non-sé

L’enfasi che il Buddismo pone sul riconoscimento dell’insostanzialità del sé offre un possibile antidoto contro la configurazione del sé narcisistico o “vuoto”, caratteristica della nostra cultura. Prima, tuttavia, è importante tenere a mente che, esattamente come l’adozione della visione del sé come multiplo può riflettere un tentativo contro-fobico di padroneggiare la paura dell’auto-frammentazione (Fairfield, 2001), l’adozione della prospettiva buddista del sé come vuoto può rappresentare un tentativo di affrontare il proprio senso soggettivo di vuotezza del sé, normalizzando questo stato.

In apparenza, ci sono somiglianze tra il concetto buddista di non-sé e le concezioni psicoanalitiche contemporanee del sé multiplo. Infatti, il crescente interesse degli analisti per la molteplicità del sé può contribuire a creare un clima di ricettività verso la concettualizzazione buddista del sé. È importante, tuttavia, essere consapevoli delle diverse funzioni che la sfida alla concezione tradizionale del sé assume nelle due tradizioni. Come abbiamo visto, la fascinazione della psicoanalisi contemporanea per il sé multiplo sembra derivare, almeno in parte, da un desiderio di sfidare le visioni monolitiche della salute mentale, che sono, per natura, implicitamente conformiste. L’enfasi sulla concezione buddista del non-sé tende a diminuire il senso d’isolamento esistenziale, enfatizzando la natura costruita del confine tra sé e altro e l’interdipendenza di tutti gli esseri viventi. Come scrive Francis Cook, nel pensiero buddista “Non c’è una realtà trascendente ‘al di là’ o una realtà diversa da questo mondo di esseri interdipendenti. È un luogo in cui l’individuo emerge da un ambiente estremamente vasto di altri individui – i genitori, i nonni, la cultura, il suolo, l’acqua, la pietra, la foschia e molto, molto altro – e prende il suo posto come ogni altro individuo. Una volta nel mondo, l’individuo è costantemente ed enormemente condizionato dal vasto ambiente degli altri individui” (Cook, 1989, 24).

È interessante notare che, per certi aspetti, questa prospettiva è paragonabile alla teoria delle relazioni oggettuali, in cui il sé è costruito attraverso l’interiorizzazione dell’altro. Dal punto di vista della teoria delle relazioni oggettuali, tuttavia, l’obiettivo è liberare il sé, sganciando ciascuno dai legami con i vecchi oggetti interni. Da una prospettiva buddista, invece, la libertà deriva dal riconoscere che non esiste un sé indipendente dagli altri3.

C’è un famoso passaggio tratto da Dogen, un noto maestro buddista giapponese del tredicesimo secolo, che recita come segue:

Studiare la via del Buddha significa studiare il sé

Studiare il sé significa dimenticare il sé

Dimenticare il sé significa essere resi autentici da una miriade di cose

Così, quando siamo in grado di vedere veramente il modo in cui noi costruiamo la nostra esperienza del sé, la barriera tra sé e altro si dissolve. Emerge quindi un’esperienza di autenticità, non dall’esperienza del vero sé come individuo, ma dall’esperienza di essere in relazione con l’altro, come ogni dito di una mano è legato all’altro. Qualcosa di simile a questa prospettiva lo si ritrova nel concetto di Burber di relazione I-Thou, che sottolinea che relazionarsi all’altro come soggetto (anziché come oggetto) è associato all’esperienza di essere interconnesso. Un ulteriore dialogo tra la prospettiva buddista e quella psicoanalitica può aiutare la psicoanalisi a recuperare una dimensione mistica – nel senso di sperimentare la sensazione di essere tutt’uno con il cosmo. Il rischio, con ogni tipo di soluzione spirituale, è certamente quello di usarla in modo difensivo, come un modo per evitare di affrontare i conflitti emotivi o come tentativo di riempire il sé vuoto o di supportare un senso di onnipotenza narcisistico. La tradizione buddista, che non è sicuramente immune da queste tentazioni, almeno cerca di neutralizzarle in diversi modi. La tradizione zen, in particolare, enfatizza il “this-worldly” o gli aspetti quotidiani della pratica del Buddismo e, coerentemente, si concentra sull’evitare l’escapismo4 spirituale, lasciando delle cicatrici nel narcisismo spirituale degli studenti.

Ad esempio, in una nota storia zen, uno studente chiede al maestro: “Come posso raggiungere l’illuminazione?” Il maestro risponde: “Hai finito di mangiare il riso?” “Sì”, replica lo studente. “Allora”, risponde il maestro, “Lava la ciotola”. Come illustra questa storia, l’enfasi è posta sulla “magia ordinaria” di essere completamente immersi nella vita di tutti i giorni, piuttosto che cercare soluzioni idealizzate o scorciatoie. Nelle parole del poeta zen P’ang-yun: “Potere miracoloso e attività meravigliosa – Raccogliere acqua e spaccare legna” (Watts, 1957, p. 133).

C’è anche un’iconoclastia intrinseca al Buddismo, che è coerente con alcuni dei recenti sviluppi in psicoanalisi che sottolineano l’importanza della spontaneità e della sensibilità personale del terapeuta (v. Hoffman, 1998; Ringstrom, 2001). I leggendari maestri zen si distinguono spesso per la loro spontaneità, per l’essere non convenzionali e per la tendenza ad usare tattiche inaspettate per scuotere gli studenti dai loro modi ordinari di vedere le cose, con l’obiettivo di avvicinarli a uno scorcio di illuminazione o a un’esperienza incondizionata. Nel Buddismo tibetano esiste la tradizione della “saggezza folle”: alcuni insoliti e molto rispettati maestri agiscono in un modo che li fa sembrare eccentrici o pazzi, dal punto di vista degli standard convenzionali. Tuttavia si crede che la loro eccentricità, la tendenza e la capacità di trasgredire gli standard convenzionali siano segni della loro illuminazione, invece che sintomi di psicopatologia. Così, per esempio, uno dei più amati e popolari eroi del Tibet era un personaggio di nome Drunkpa Kunley, noto per comportamenti disdicevoli, come ubriacarsi e accoppiarsi con prostitute. Allo stesso tempo, egli era considerato un maestro illuminato, che guidava (o forse provocava) molte persone all’esperienza dell’illuminazione.

Come ogni altra religione o istituzione sociale riconosciuta, il Buddismo possiede elementi profondamente conservatori. Al suo interno c’è sempre stata una certa tensione tra gli elementi più conservatori e quelli più radicali. Ma per quanto conservatore, c’è sempre stato qualcosa di sovversivo nel Buddismo, fin dalle origini. Il Budda stesso, profondamente consapevole dei limiti delle parole e dei concetti, presumibilmente paragonò i suoi insegnamenti ad una zattera con cui attraversare un fiume. Appena si abbandona la zattera dopo aver attraversato, ci si rende conto che i vari insegnamenti buddisti sono solo un veicolo per trasportare le persone lungo la via del risveglio o dell’illuminazione. Aderire a questi insegnamenti come se avessero una qualche realtà intrinseca sarebbe contrario alla spinta di base del Buddismo. Nella tradizione zen si dice: “Non confondere il dito che indica la luna con la luna”, ancora una volta enfatizzando la natura pragmatica dei concetti.

Il reincanto del mondo

Le culture pre-moderne guardavano al mondo come ad un posto incantato. In queste culture, le distinzioni tra realtà interna ed esterna e tra soggetto e oggetto erano meno nitide che nella cultura moderna. Il sociologo Morris Berman definisce questo “consapevolezza partecipe”. Egli scrive: “La visione della natura che dominava in occidente fino alla vigilia della rivoluzione scientifica era quella di un mondo incantato. Le rocce, gli alberi, i fiumi e le nuvole erano visti tutti come meravigliosi e vivi; gli esseri umani si sentivano a casa in questo ambiente. Il cosmo, in breve, era un luogo di appartenenza. Un membro di questo cosmo non era un osservatore alienato in esso, ma un partecipante diretto del suo divenire. Il suo destino personale era connesso con il destino del cosmo e questa relazione dava un senso alla sua vita” (Berman, 1981, 16).

Al contrario, per la consapevolezza moderna, l’universo è meccanicistico e funziona sulla base di principi impersonali e sull’idea che sia inerte e privo di vita. Gli esseri umani vivono fuori dalla natura. La moderna consapevolezza è, dunque, fondamentalmente alienata. Non c’è una fusione estatica con la natura, né un senso di appartenenza al cosmo.

Ernest Becker dice qualcosa di simile: “La caratteristica della mente moderna è l’aver bandito il mistero, la fede naive, la speranza semplice. Noi mettiamo l’accento su ciò che è visibile, chiaro, sulla relazione di causa ed effetto, sulla logica – sempre sulla logica. Conosciamo la differenza tra i sogni e la realtà, tra i fatti e le finzioni, tra i simboli e i corpi. Ma immediatamente possiamo vedere che queste caratteristiche della mente moderna sono esattamente quelle della nevrosi. Ciò che caratterizza il nevrotico è che ‘conosce’ la sua relazione vis-a-vis con la realtà. Non ha dubbi; non c’è niente che gli si possa dire per fargli cambiare idea, per dargli la speranza del credere” (Becker, 1973, 201).

Come hanno sottolineato Hans Loewald (1980) e, più di recente, Mitchell (2000), la psicoanalisi ha involontariamente teso a riprodurre i valori di una cultura che sperimenta il mondo come disincantato. Privilegiando il processo secondario rispetto a quello primario e celebrando il trionfo del principio di realtà sul principio di piacere come essenza della salute mentale, ha contribuito alla perdita di significato.

L’avvicinamento a una prospettiva costruttivista all’interno della psicoanalisi, tuttavia, ha aperto la porta alla riconsiderazione della relazione tra realtà e fantasia. Tradizionalmente la fantasia era vista come una distorsione della realtà e il compito analitico consisteva nell’aumentare l’insight sulla natura di questa distorsione. Ma, come mostra Mitchell nella sua esegesi della prospettiva di Loewald: “Separare la fantasia dalla realtà è solo uno dei modi di organizzare l’esperienza. Perché la vita sia significativa, vitale e forte, fantasia e realtà non possono essere troppo separate l’una dall’altra. La fantasia staccata dalla realtà diventa irrilevante e minacciosa. La realtà staccata dalla fantasia diventa insulsa e vuota. Il senso dell’esperienza umana è generato dalla reciproca e dialetticamente arricchente tensione tra fantasia e realtà; ciascuna necessita dell’altra per svegliarsi” (Mitchell, 2000, p. 29).

È impossibile, per noi, tornare alla visione del mondo dei nostri antenati in modo genuino o autentico. Possiamo rifiutare la visione moderna, ma non possiamo mai sfuggirle del tutto. Essa colora inevitabilmente il modo in cui facciamo esperienza della realtà. È possibile raggiungere qualche grado di reincanto del mondo, in cui sperimentare un senso di consapevolezza partecipante, senza un atto di rifiuto o autoinganno? L’approccio del Buddismo tibetano, che integra pratiche e rituali di natura più magica con l’epistemologia costruttivista, può fornire qualche indicazione. La cultura tibetana in cui originariamente queste pratiche si svilupparono era una cultura prescientifica e tradizionale, in cui la realtà magica e soprannaturale esisteva come parte dell’esperienza di tutti i giorni, proprio come nella cultura occidentale prima dell’Illuminismo e della nascita dell’era scientifica.

In questa cultura, ciò che distingueva il Buddismo tibetano non era l’uso di pratiche di natura magica, ma piuttosto la co-opzione dei rituali e dei simboli magici per raggiungere l’obiettivo buddista di arrivare a comprendere che tutti i fenomeni sono privi di esistenza intrinseca. Al contrario, in un contesto occidentale contemporaneo, l’utilizzo delle tecniche di meditazione del Buddismo tibetano, o di pratiche che da esso derivano, può avere una diversa funzione. Può diventare un modo di partecipare all’esperienza di una realtà incantata, che non è normativa nella cultura contemporanea, mentre, allo stesso tempo, ci ricorda il nostro stesso ruolo nel costruire quella realtà. Un attento esame dei processi attraverso cui operano queste pratiche può quindi avere un qualche ruolo nel raffinare il pensiero psicoanalitico attuale su come il cambiamento possa avere luogo.

Riduzionismo versus non-dualismo

Come ha sottolineato Becker (1973), una delle intuizioni fondamentali di Freud aveva a che fare con il riconoscimento, da parte degli esseri umani, dell’essere irrevocabilmente creature. Sempre iconoclasta, realista e distruttore d’illusioni, Freud insistette a ricordarci che, alla fine, nonostante tutte le nostre nobili aspirazioni e ambizioni, noi siamo fondamentalmente animali motivati da istinti aggressivi e sessuali. Molti analisti contemporanei sono critici rispetto a questa prospettiva e la considerano riduzionista. Tuttavia è importante riconoscere la genialità della visione di Freud a questo proposito e il suo appassionato impegno nel punzecchiare le nostre ambizioni e nel rivelare i nostri auto-inganni. Il problema sorge quando lo spirito è visto come qualcosa di separato dagli istinti di base. Noi immaginiamo che, in qualche modo, possiamo liberarci del nostro essere creature e immaginiamo ci sia una chiara distinzione tra sacro e profano. Il pericolo, sempre presente, è che la spiritualità possa portare al moralismo, anziché alla moralità, e alla dissociazione e alla proiezione, anziché all’accettazione.

Dalla prospettiva buddista, questo tentativo di separare il sacro dal profano giace al centro del dilemma dell’uomo. Tuttavia, piuttosto che considerare la spiritualità come un derivato degli istinti più bassi, l’enfasi è posta sull’aiutare le persone a riconoscere che il sacro e il profano sono tutt’uno. Nella tradizione del Buddismo Mahayana, per esempio, si evidenzia che il samsara (l’esistenza condizionata e non illuminata o il ciclo di vita e morte) non è diverso dal nirvana (lo stato d’illuminazione in cui tutti i bisogni centrati sul sé cessano di esistere). In altre parole, non c’è paradiso o stato ideale da raggiungere. C’è solo questo mondo e il momento presente; e l’illuminazione consiste nella realizzazione esperienziale di questo. La tradizione zen è nota per il suo legame con la terra. Ad esempio il maestro zen Lin-chi disse: “Non c’è posto nel Buddismo per usare lo sforzo. Solo essere ordinari e niente di speciale. Libera l’intestino, orina, indossa i vestiti e cibati. Quando sei stanco vai e sdraiati” (Watts, 1957, p. 101).

Nel Buddismo tibetano alcune tecniche di meditazione utilizzano immagini sessuali come modo per esprimere la natura non-duale della relazione tra il sacro e il profano. Mentre c’è qualcosa di giusto nell’insistenza di Freud sul considerare le nostre più alte sensibilità e talenti come derivati della sessualità e dell’aggressività, c’è anche qualcosa d’infondato in questo. Il suo riduzionismo finisce per sminuire il valore dei nostri più alti successi e aspirazioni, piuttosto che celebrare la bellezza della natura umana con tutti i nostri difetti, imperfezioni e auto-inganni. L’insistenza buddista sulla non-dualità fornisce una prospettiva che risuona con le importanti intuizioni di Freud sulle nostre motivazioni più basse, ma, nello stesso tempo, rappresenta un correttivo al suo riduzionismo.

Collocare la psicoanalisi all’interno della vita

Nell’elogiativa recensione di Ritual and Spontaneity in the Psychoanalitic Process di Irwin Hoffman, Donnel Stern afferma che il libro di Hoffman si distingue per il fatto di “collocare la psicoanalisi all’interno della vita, piuttosto che intorno” (2001, p. 464). Ciò a cui egli si riferisce qui è l’impegno di Hoffman a mantenere una prospettiva esistenziale, che sottolinea come lo sforzo continuo di creare un significato di fronte alla mortalità giace al centro del dilemma umano. Una delle ragioni per cui il libro di Hoffman s’impone è che, con poche eccezioni (la più nota Otto Rank), gli psicoanalisti tradizionali tesero a non concentrarsi su questa dialettica o, per lo meno, a non considerarla centrale.

Tradizionalmente queste preoccupazioni esistenziali sono state, di certo, al centro di tutti i sistemi religiosi, ed è comprensibile che gli psicoanalisti, nel desiderio di prendere le distanze dai loro predecessori religiosi, siano riluttanti ad addentrarsi in questo territorio. Tuttavia sappiamo tutti, a un certo livello, che il nostro cuore e la nostra anima sono lasciati intatti se non siamo in grado di indirizzare le preoccupazioni esistenziali fondamentali sul senso della vita (o sulla potenziale assenza di senso) verso l’ombra, sempre presente, della morte.

Nei periodi della vita in cui le cose vanno bene, quando sia noi che i nostri cari siamo in salute, siamo capaci di ritirarci rapidamente dietro una maschera di diniego e la morte diventa un’astrazione, invece che qualcosa di cui preoccuparsi nell’immediato. Come il protagonista de “La morte di Ivan Ilyich” di Tolstoj prima della malattia, noi tutti ci relazioniamo alla morte come a qualcosa che accade agli altri, ma non a noi stessi – o come a qualcosa che ci accadrà un giorno in un futuro lontano.

Il Buddismo pone il confronto con la morte, la perdita e la sofferenza, al centro delle cose. E, alla fine, offre un rifugio, non nella promessa di una vita futura migliore o della protezione da parte di una figura divina, ma nella forma di un percorso verso una maggiore accettazione della vita come essa è, con il suo dolore e la sua sofferenza. Ci sono due caratteristiche chiave di questo percorso. La prima è la fede che il pieno riconoscimento e accettazione dell’impermanenza di ogni cosa conduce, paradossalmente, a un’esperienza di pace e alla capacità di valorizzare a pieno la vita. È interessante che Freud stesso espresse una sensibilità simile in un breve saggio scritto a ridosso della Prima Guerra Mondiale. In questo articolo (Freud, 1915), egli riporta una conversazione con un giovane poeta che aveva espresso abbattimento nel contemplare la natura transeunte dell’esistenza. Freud risponde che il riconoscimento del fatto che tutto ciò a cui teniamo e abbiamo caro sia intrinsecamente transeunte può originare abbattimento o un maggiore apprezzamento di ciò a cui teniamo. Il fattore determinante è se siamo capaci di accettare a pieno questa transitorietà intrinseca, senza indietreggiare di fronte al lutto che è collegato a questa accettazione.

Il secondo principio è il riconoscimento che siamo tutti membri della comunità umana, che siamo tenuti insieme dal legame della condivisione del dolore e della sofferenza nella vita. C’è una vecchia storia buddista che immortala l’importanza di questo senso di comunità. Una madre, a cui era recentemente morto il figlio, andò dal Budda e gli chiese di riportarlo in vita. Il Budda rispose che se lei gli avesse portato un seme di senape dalla casa di qualcuno che non aveva mai conosciuto la perdita, lui l’avrebbe aiutata. Andando di casa in casa, la donna cominciò a realizzare che una simile casa non poteva essere trovata. Cominciò a sentirsi gradualmente meno separata dagli altri nel suo dolore e capace di trovare pace nel mezzo della sua sofferenza.

Freud (1927) credeva che la religione costringesse le persone a rinunciare ai loro istinti, attraverso le promesse di una salvezza illusoria e le minacce di una punizione eterna. Egli riteneva che fosse importante per le persone avere il coraggio di riconoscere in modo genuino e accettare le avversità, la crudeltà e le umiliazioni della vita, abbandonando il conforto illusorio della religione, per poter dedicare le proprie energie a creare una vita migliore sulla terra. Data l’antipatia di Freud verso ogni tipo di religione, c’è un’affinità ironica tra la sua visione e la prospettiva buddista su questa questione. Entrambe le visioni hanno una qualità stoica, coraggiosa e intransigente. Tuttavia, mentre la visione freudiana, a volte, cade nel pessimismo e nel cinismo, la prospettiva buddista è più ottimista. Quest’ottimismo non è affatto naif o semplice. Come ho approfondito in diversi punti nel corso di questo capitolo, la visione buddista di quale tipo di cambiamento sia possibile ha un sapore delicato e paradossale. Come lo espresse meravigliosamente Ch’ing-yuan: “Prima che avessi studiato lo Zen per trent’anni, vedevo le montagne come montagne e le acque come acque. Quando giunsi ad una conoscenza più approfondita, arrivai al punto in cui vedevo che le montagne non sono montagne e le acque non sono acque. Ma ora, che ho compreso la sua sostanza autentica, ho trovato pace. È solo per questo che vedo, ancora una volta, le montagne come montagne e le acque come acque” (Watts 1957, p. 126).

Se abbiamo intenzione di collocare la psicoanalisi all’interno della vita piuttosto che intorno, sarà necessario accogliere la sfida di affrontare ciò che Hoffman (1989) definisce dialettica del significato e della mortalità in modo più sostenuto e sistematico. Il dialogo tra Buddismo e psicoanalisi può giocare un ruolo prezioso nel facilitare questo processo.

Un dialogo

Il pensiero post-moderno ha sfidato la visione scientifica, che era dominante ai tempi di Freud. Esso ha relativizzato il valore della razionalità e della scienza e ha illustrato il pericolo di qualsiasi tipo di narrativa del maestro – religiosa o scientifica – che marginalizza o esclude il valore dell’altro. Freud considerava la religione un’illusione. Ma, per la prospettiva post-moderna, la fiducia di Freud nella visione scientifica è essa stessa una forma di religione. Il dialogo tra Buddismo e psicoanalisi fornisce un confronto tra due diverse strade verso la liberazione. La pratica psicoanalitica contemporanea incarna, per molti aspetti, i valori occidentali dell’individualismo democratico. Da un lato, la crescente enfasi sulla natura relazionale di tutta l’esperienza umana può essere vista come un correttivo all’eccessivo individualismo della cultura occidentale. Dall’altro lato, la crescente enfasi sulla mutualità della relazione analitica e sulla natura posizionale di tutta la conoscenza è coerente con quest’insistenza sul valore dell’individuo e sulla sfida alle tradizionali fonti di autorità. Anche l’enfasi contemporanea sulla costruzione del significato personale e sull’arricchimento e la rivitalizzazione del sé è in accordo con questi valori. La liberazione, in questo modello, tende ad essere associata con la libertà.

Il modello buddista della liberazione enfatizza la libertà dai bisogni centrati sul sé. In questa prospettiva, l’esperienza del sé come autorevole e legato giace al centro del dilemma umano. Per certi aspetti, la prospettiva buddista può servire come correttivo all’eccesso d’individualismo che si evidenzia nel pensiero psicoanalitico. Essa può anche aiutare a riconquistare la dimensione spirituale perduta, in un modo che sia in sintonia con la sensibilità post-moderna contemporanea. D’altro canto, la psicoanalisi può fornire un importante contrappunto a certe prospettive buddiste. Il valore dell’individualismo democratico può rappresentare un correttivo alla tendenza, che il Buddismo condivide con tutte le religioni, a cristallizzarsi in un’ortodossia religiosa. Inoltre, l’enfasi psicoanalitica sulla motivazione inconscia può ridurre il rischio di utilizzare la spiritualità in modo difensivo. Il dialogo tra Buddismo e psicoanalisi, quindi, ha in sé il potenziale per arricchire entrambe le tradizioni. Attraverso questo incontro, il Buddismo sarà inevitabilmente trasformato, esattamente com’è stato trasformato quando si diffuse dall’India alle altre culture asiatiche. E la psicoanalisi sarà inevitabilmente trasformata, esattamente come quando si estese al di fuori della sua cultura d’origine della Vienna di fine secolo. Mentre è impossibile predire quali nuove forme terapeutiche e spirituali potranno alla fine emergere da questo incontro, il contributo di questo libro consiste nell’aprire un importante scorcio sul processo rivoluzionario in corso.

 

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Note:

1 Certo questa è una semplificazione. È forse più preciso concettualizzare la psicoanalisi come un processo attraverso cui i valori sono negoziati da analista e paziente (v. Mitchell, 1993; Pizer, 1998). Inoltre, come sottolinea Lewis Aron (1999), è importante distinguere tra i valori della comunità analitica e i valori del singolo analista. Come suggerisce Aron, la comunità analitica può essere concettualizzata come un “terzo” che media la relazione diadica tra paziente e analista. È essenziale per l’analista riconoscere il modo in cui i valori personali e quelli della comunità si interpenetrano e si influenzano a vicenda; ed è essenziale, quando emergono, negoziare le tensioni tra essi in modo riflessivo. Anche dati questi fattori qualificanti, tuttavia, è ancora importante riconoscere che il processo analitico implica inevitabilmente un’influenza sociale.

2 Riconosco che la concettualizzazione del “vero sé” di Winnicott implica il riconoscimento che esso consiste in un processo evolutivo in corso – la “continuità dell’essere” – piuttosto che in un’entità statica. Tuttavia, argomenterei ancora che la popolarità di quest’aspetto del pensiero riflette un senso di importanza dell’individuo che è culturalmente radicato.

3 Certo si può sostenere che l’obiettivo di essere liberati dai propri legami con i vecchi oggetti non è necessariamente incompatibile con l’obiettivo di riconoscere che non c’è un sé indipendente dagli altri. Per esempio, W.R.D. Fairbairn concorderebbe con l’idea che liberare qualcuno dall’attaccamento ad oggetti interni cattivi gli permetterebbe di aprirsi a nuove relazioni. Tuttavia, questo è ancora diverso dall’esperienza d’interdipendenza valorizzata dal pensiero buddista.

4 Condizione psicologica caratterizzata dalla tendenza alla fuga dalla realtà, dai problemi, dalle responsabilità [N. d. C.].


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