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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi

Amae e il buddismo in occidente

Roberto Carnevali


dal volume
"Tra sogni del budda e risvegli di Freud"
di Anthony Molino e Roberto Carnevali


Molti anni fa, in un periodo particolare della mia vita che mi aveva portato ad iniziare la mia terza (ed ultima per fortuna) analisi, mi capitava di trovare libri con titoli accattivanti o comunque inconsueti, che leggevo nella speranza di trovare qualcosa di nuovo che desse linfa vitale a un mio modo di pensare e di sentire che in quel momento era entrato in confusione. Tra questi, mi aveva attirato in modo particolare Anatomia della dipendenza di Takeo Doi (R. Cortina, 1991). Non conoscevo questo autore, ma l’idea che ci fosse uno psicoanalista giapponese che si occupava della dipendenza all’interno della propria cultura, usando un termine come “Anatomia” per trattarlo (il titolo è identico anche in inglese, e sicuramente l’autore lo ha accettato e forse pensato in questi termini), mi stimolava moltissimo. Fu una lettura “empatica”. Mi trovai a ritenere di essere veramente entrato nel mondo giapponese con (forse) la presunzione di “capire” ciò che, a quanto pare, fuori dal Giappone si riteneva non potesse essere capito fino in fondo. Sentii che amae, il concetto centrale del libro di Doi, era qualcosa che conoscevo da sempre, e che se anche non ero cresciuto in Giappone con una mamma giapponese e con quella cultura intorno, avevo sperimentato nella mia vita passata qualcosa di quel tipo, che mi aveva accompagnato fin lì e che mi stava accompagnando e mi avrebbe accompagnato nella mia vita futura. Rimase tutto dentro di me. In analisi venne fuori poco o nulla di quest’esperienza, perlomeno a livello esplicito; mi portavo dentro soltanto il sentore di qualcosa di importante che avvertivo a livello preconscio, e che aveva a che fare col mio mondo materno.

Nella primavera del 2008, finita da molti anni la mia terza analisi, ho partecipato ad un convegno a Milano incentrato sui rapporti fra psicoanalisi e buddismo, ed è stato in quest’occasione che ho conosciuto Anthony Molino. La sua relazione mi ha colpito per tanti aspetti, tra i quali uno stile espositivo e una modalità di relazionarsi con i quali sento una profonda affinità, dove la soggettività di chi parla emerge continuamente, a volte con riferimenti autobiografici, a sottolineare il senso fortemente personale del pensiero espresso, rispetto al quale i sentimenti e le emozioni che lo animano non sono accessori, ma parte integrante del discorso (leggendo pure soltanto queste poche righe risulta facilmente comprensibile che questo stile espositivo è anche il mio).

Tra i riferimenti autobiografici che ha proposto, Molino ha citato a più riprese l’importanza nella sua vita dell’incontro con Richard De Martino, che fu suo docente in un’università statunitense. Il nome di De Martino mi era noto come autore di un saggio comparso insieme ad altri due, uno di E. Fromm, l’altro di D. T. Suzuki, nel libro Psicoanalisi e buddhismo zen (Astrolabio, 1968), che conoscevo da molto tempo essendo un estimatore di Eric Fromm ed avendo letto molti dei suoi libri. Quando poi ebbi da Molino una copia di The couch and the tree (Open Gate Press, London, 1998), versione originale inglese di Psicoanalisi e buddismo (R. Cortina, 2001), vidi che tra i lavori esclusi dalla versione italiana ce n’era uno di Takeo Doi, in cui si parlava di amae.

Mi si perdoni questa lunga digressione introduttiva autobiografica, ma è necessaria per permettere al lettore di capire come mi sia ritrovato a collegare fra di loro autori e pensieri che si sono espressi e sviluppati in luoghi e tempi diversi, e che una serie di circostanze ha fatto sì che si fondessero dentro di me, dando corpo a pensieri ed emozioni a cui ho potuto, attraverso di loro, dare una veste più compiuta.

In un lavoro comparso su Setting (Carnevali R., 2008), accenno al discorso che qui vorrei trattare in forma più estesa.

Amae: definiamolo per approssimazioni

Il concetto di amae non è immediatamente definibile in una lingua che non sia il giapponese, perché in tutte le altre culture, comprese quelle orientali fuori dal Giappone, non se ne dà un’esperienza immediata. Possiamo dunque arrivare a definirlo cercando di avvicinarci il più possibile con delle similitudini, utilizzando i termini che abbiamo a disposizione nella nostra lingua. “Dipendenza” è il primo, ma, se da un lato universalmente questo termine si collega alla dimensione materna in cui ciascun soggetto si affaccia alla vita, dall’altro, nella cultura occidentale, è un termine usato quasi esclusivamente con una connotazione negativa: dipendenza dal fumo, dalle droghe, dal gioco, e negli ultimi anni dai videogiochi e da internet,… ecco alcuni dei principali mali del nostro tempo, fonti di enormi problemi di ordine sociologico oltre che psicologico, e considerati vere e proprie patologie. Tant’è che quelli che in passato si chiamavano SerT (Servizio Tossicodipendenze) oggi (parlo della realtà lombarda, quella più vicina a me) si chiamano SerD (Servizio Dipendenze) e si occupano (o dovrebbero occuparsi) per l’appunto di tutte le forme di dipendenza patologica presenti nella società.

Il termine “patologico” si presta ad un rilievo, collegato al titolo del libro di Doi. In medicina esiste una disciplina che descrive la struttura del corpo umano, ed è l’anatomia; esiste poi una sottodisciplina, diventata disciplina a sé stante, che si occupa della struttura del corpo malato, ed è l’anatomia patologica; l’attività principale del medico anatomo-patologo è l’autopsia, cioè lo studio dei cadaveri che permette, sezionandoli, di entrare dentro di loro e capire quale alterazione anatomica ha prodotto la morte della persona. Trasponendo a mo’ di metafora questo discorso in quello che stiamo facendo, possiamo pensare (ma leggendo il libro di Doi lo si capisce benissimo) che le letture “patologiche” di amae e della dipendenza in generale, prodottesi nella prospettiva occidentale al problema, sono lontanissime dal pensiero di Takeo Doi, e non rendono la complessità del concetto di amae, né dell’idea giapponese di “dipendenza” anche nel senso più esteso.

Come esempio di una lettura “in negativo” di amae, cito alcuni passi della definizione che si trova in Wikipedia, una delle più celebri e consultate enciclopedie on-line.

La persona che sta esprimendo amae può implorare o lamentarsi o, in alternativa, può agire nella convinzione che la persona che si occupa di lei perdonerà e sarà condiscendente. Il comportamento dei bambini verso i genitori è forse l’esempio più comune di amae, ma è stato suggerito che le pratiche pedagogiche nel mondo occidentale cercano di interrompere questo tipo di dipendenza nei bambini, mentre essa continua fino all’età adulta, nelle relazioni più strette, in Giappone.

[…]

Vari dizionari bilingui definiscono l’amae come “contare sulla buona volontà di una persona”, “agire amorevolmente verso qualcuno (come un bambino molto coccolato si comporta verso i suoi genitori)”, “trarre vantaggio da”, “comportarsi come un bambino viziato”, “approfittare di”, “comportarsi in modo carezzevole con un uomo”, “parlare in modo civettuolo”, “approfittare di (della gentilezza, del buon carattere, di qualcuno, ecc.)”, e così via. L’amae è essenzialmente una richiesta di condiscendenza verso i propri bisogni percepiti.

[…]

Voci correlate

Hikikomori

Single parassita [corsivo mio]

Vediamo qui come quello che viene espresso a chiare lettere dicendo che “le pratiche pedagogiche nel mondo occidentale cercano di interrompere questo tipo di dipendenza nei bambini, mentre essa continua fino all’età adulta, nelle relazioni più strette, in Giappone” è poi sotteso in modo più sottile ai discorsi e alla terminologia con cui si cerca di definire amae e il modo di dipendere che esprime, e tutto ciò è chiara espressione del pensiero occidentale nel merito.

Alla luce di quanto fin qui detto, possiamo ritenere di aver compiuto un passo fondamentale nella nostra approssimazione: amae ha a che fare con la dipendenza ma, a differenza che da noi, nel mondo giapponese ha una connotazione positiva, o almeno neutra, senza implicazioni che la configurino come qualcosa che debba essere “curato”. E qui nasce un primo problema, che riguarda la patologia e la cura a livello psichico. Se rispetto al corpo la definizione di ciò che è normale o patologico può relativamente prescindere (almeno per la stragrande maggioranza delle patologie) dalle implicazioni sociali, rispetto alla psiche questo discorso non è più proponibile: per definire la cosiddetta “malattia mentale” non si può prescindere dalla struttura sociale in cui questa “malattia” viene definita1. Possiamo dunque trovare nell’idea di amae qualcosa che sollecita la nostra società (intendo quella occidentale) ad interrogarsi sui princìpi che fondano l’idea di “sanità” e “malattia” a livello psichico. Ciò che intendo dire è che per capire il concetto di amae dobbiamo essere disposti ad amplificare i nostri orizzonti rispetto a ciò che è sano e a ciò che è malato, evitando di dare per scontate certe categorie presenti nel nostro mondo di pensieri e rappresentazioni.

Prendiamo un esempio di qualcosa di scontato nella nostra società di fronte a cui Takeo Doi racconta di essersi trovato in difficoltà, perché gli risultava incomprensibile.

…l’espressione “please help yourself” (si serva, prego) che gli americani usano tanto spesso, ha urtato a lungo le mie orecchie, fino a che non mi sono abituato alla conversazione inglese. Il suo significato, ovviamente, è “non esiti a servirsi di quello che desidera” ma, tradotto letteralmente, suona un po’ come “si serva da solo, nessuno lo farà per lei”, perciò non riuscivo a capire come potesse essere considerata una forma di cortesia. La sensibilità giapponese richiederebbe che, ricevendo un invitato, l’ospite dimostri sufficiente sensibilità da prevenire i desideri e lo “serva” di conseguenza. Abbandonare a se stesso un invitato che non conosce la casa, dicendogli di “servirsi da solo”, costituirebbe una forma assai grave di scortesia. Tutto ciò rafforzò la mia convinzione che gli americani non avessero, nei riguardi degli altri, la stessa considerazione e la stessa premura dei giapponesi e rese i primi tempi del mio soggiorno ancora più solitari di quanto comunque sarebbero stati, trovandomi io lontano da casa.

Nel punto di vista diverso tra la mentalità giapponese e quella americana che qui viene proposto possiamo trovare un punto nodale per un nuovo passo di avvicinamento al concetto di amae. Nell’idea americana del “fare da solo” c’è l’implicita idea della dipendenza come qualcosa di negativo, e dunque l’esortazione ad “arrangiarsi” (“help yourself” in fondo può benissimo essere tradotto “arrangiati”, espressione che ha anche nel nostro contesto culturale una connotazione a volte negativa) sottolinea che comunque, anche se possono esserci delle circostanze in cui sarebbe bello avere qualcuno che si occupa di noi, se siamo capaci di fare da soli, di “non dipendere da nessuno”, possiamo affrontare il mondo con qualcosa in più, perché sapremo sempre cavarcela. Per il giapponese (e anticipo che io condivido pienamente questo punto di vista) sviluppare la capacità di fare da soli, e dunque rinunciare ad amae, comporta la perdita di qualcosa di fondamentale, che non è ripagato dal fatto di riuscire a portare a compimento qualunque compito prefissato2.

Pensando alla psicoanalisi e alla psicoterapia, possiamo ora porci un interrogativo. Quando ci prendiamo cura di qualcuno, consideriamo la “dipendenza” un sintomo? O addirittura una sindrome? Se qualcuno si aspetta aiuto dagli altri, o si fida della gente mettendosi nelle mani di qualcuno di cui non ha verificato l’affidabilità, deve essere curato per questo? Chi si aspetta di essere trattato con affetto e secondo giustizia è un illuso a cui vanno chiarite le idee, magari a suon di interpretazioni? Il tono ironico che uso tradisce come la penso, ma sono convinto che molti analisti, a volte senza dichiararlo esplicitamente ma attuandolo nella pratica quotidiana del loro lavoro, tendano a curare i propri pazienti pensando che un obiettivo, magari quello principale, sia quello di renderli indipendenti. E se costoro hanno mai avuto a che fare con amae, questo dovrà essere estirpato come il bubbone di una grave malattia.

Senza dare una definizione precisa siamo arrivati per approssimazioni a capire cos’è amae. È qualcosa che si esprime come una dipendenza, che nasce nel rapporto con i genitori, in particolare con la madre, e che crea delle aspettative nei confronti del mondo circostante, che porta ad essere fiduciosi e a non temere di dipendere, ad essere indulgenti con sé stessi e con gli altri e a pensare che i propri bisogni potranno trovare soddisfazione in uno dei luoghi possibili dove andremo, perché ci sarà qualcuno che potrà capirci.

Amae e la madre

Affrontiamo ora il rapporto che intercorre tra amae e il mondo materno, rapporto che è stato citato fra le righe e a cui ora dedico tutta l’attenzione che penso meriti. Chiaramente la prima dipendenza che ciascuno vive è quella dalla madre. Spesso gli psicoanalisti, almeno quelli che si muovono in una prospettiva relazionale o intersoggettiva, fanno riferimento all’idea di Winnicott dell’inscindibilità della coppia “madre-bambino” nella comprensione dello svilupparsi della struttura di personalità del soggetto. Questo non comporta però che la visione degli psicoanalisti relazionali sia univoca su quali possano essere gli sviluppi “patologici” del permanere di tale inscindibilità nella vita adulta. La stragrande maggioranza parla di distacco, separazione, taglio del cordone ombelicale, ma qualcuno tra i più sensibili propone la possibilità di una traccia del legame con la madre che può accompagnare il soggetto anche nella vita adulta risultando favorevole al suo incontro con il mondo. Credo che, se si può vedere qualcosa di amae trasmigrare in occidente, ciò possa configurarsi intorno a quest’idea. E qui ritorna il pensiero di Erich Fromm. Non è, a mio avviso, un caso che Fromm sia considerato uno dei capostipiti della psicoanalisi interpersonale e al tempo stesso sia uno dei pochi psicoanalisti che si siano occupati del pensiero orientale e in particolare del Buddismo Zen. Più avanti vedremo la relazione che ritengo di poter rintracciare tra il discorso che propongo e il buddismo; per ora mi limito a proporre un parallelismo fra il concetto di amae secondo il pensiero di Takeo Doi e la bipolarità necrofilia-biofilia, incentrata sulla figura materna, secondo il pensiero di Erich Fromm.

Eric Fromm, che, come or ora detto, fu uno degli epigoni della psicoanalisi relazionale, affrontò in maniera molto approfondita il discorso della distruttività umana, sia nel celeberrimo Anatomia della distruttività umana3, sia in un’opera di poco precedente, The heart of man, comparso in Italia col poco felice titolo Psicoanalisi dell’amore4. Una delle tesi centrali di Fromm, che mi sento di sposare in pieno, è che esistano due forme ben distinte di aggressività: una, naturale e riscontrabile in tutti gli animali, è espressione di un “andare verso” le cose, per impossessarsene all’interno di una ragionevole lotta per la sopravvivenza; l’altra, pressoché assente negli animali, è quella che più propriamente può essere definita “distruttività”, e che, estranea alla lotta per la sopravvivenza, si esprime nella sopraffazione e nella soppressione dell’altro per il puro piacere di distruggere. Questa seconda forma di aggressività viene da Fromm fatta risalire al rapporto con la figura materna. Fromm parla di una tendenza alla biofilia o alla necrofilia, a seconda che da parte della madre sia presente un atteggiamento che tende a favorire nel figlio un fiducioso rapporto di apertura verso la vita o invece un ritiro diffidente dalla vita stessa. L’atteggiamento necrofilo è quello che vede pericoli dappertutto, che invita a iperproteggersi e ipertutelarsi, scorgendo in ogni elemento del mondo circostante un potenziale nemico. La distruttività ne sarebbe la naturale conseguenza: il bambino cresciuto in un clima di diffidenza nei confronti del mondo, educato a vedere pericoli e nemici dappertutto, sviluppa nei confronti di ciò che lo circonda un vissuto ostile, che lo induce ad attaccare preventivamente per difendersi. Quella che la Klein chiama “posizione schizoparanoide”, attribuendole una radice naturale e una presenza ineludibile in ciascun soggetto, viene da Fromm ascritta alle tendenze necrofile della madre. È infatti ragionevole pensare che non esistano la madre necrofila e quella biofila come due figure separate, ma che esista una bipolarità sull’asse necrofilia-biofilia che caratterizza la figura materna e ciascun soggetto in relazione ad essa, e che la distruttività di ognuno sia da far risalire all’incidenza della polarità necrofila nel clima relazionale nel quale egli si è formato nella prima infanzia5.

Ciò che qui intendo sostenere è che la madre prevalentemente biofila sia una madre che instaura col figlio un rapporto caratterizzato da amae. Se è relativamente immediato collegare la distruttività alla necrofilia, può risultare non altrettanto semplice individuare in cosa consistano gli effetti di una modalità biofila di relazionarsi. Sarebbe infatti semplificante collocare al polo opposto della distruttività qualcosa definibile genericamente come creatività, o anche costruttività. Entrambi questi concetti infatti si collegano all’idea di un “dare vita” a qualcosa, di un “produrre” che non è intrinseco al concetto di bio-filia, presupponendo la “filìa” un rapporto di armonia con l’oggetto che non necessariamente deve indurre a rinnovarlo o trasformarlo, ma può portare anche semplicemente ad “accoglierlo”. Tornando all’idea di “aggressività” proposta da Fromm, possiamo pensare che anche quella naturale, quella che va “verso” le cose per impossessarsene nella lotta per la sopravvivenza, abbia ragione di essere se le cose non vengono “naturalmente” a noi. Qualcosa che ci si offre non ha la necessità di essere “aggredita”, e dunque se sappiamo cogliere le opportunità che il mondo ci pone d’innanzi possiamo limitare la nostra aggressività, anche quella non distruttiva, alle situazioni in cui è strettamente necessaria, sviluppando al tempo stesso la capacità di riconoscere le situazioni di disponibilità da parte del mondo a venirci incontro. E qui compare amae. La madre biofila infatti è quella che risponde ai bisogni del bambino, non solo soddisfacendoli quando può farlo, ma anche aiutandolo a relazionarsi al mondo con fiducia, sapendo capire quali sono le situazioni e le persone a cui tale fiducia può essere data. Ciò presuppone il crearsi, nel figlio, di aspettative di soddisfacimento dei propri bisogni e desideri che, attraverso la dipendenza dalla madre, possano essere estrapolate ad alcuni elementi del mondo circostante. E questo è null’altro che amae.

Aspetti sociali e pedagocici della visione negativa di amae in occidente

Se è vero che amae in occidente non ha molta diffusione, e che nessuno prima d’ora ha cercato di rintracciare elementi di tale concetto nella nostra vita quotidiana, ciò può essere dato dal fatto che la nostra cultura si fonda su princìpi politici e pedagocici che anche nei tempi più illuminati (che non sono certo quelli attuali) non hanno potuto o saputo prescindere da certi presupposti considerati come scontati, come degli assiomi indiscutibili che da molto tempo ci portiamo avanti in modo pressoché acritico. E l’amarezza che accompagna Fromm nella gran parte dei suoi scritti testimonia la difficoltà che egli aveva a riscontrare nella cultura che lo circondava i presupposti per uno stile di vita improntato alla valorizzazione delle risorse dell’uomo.

Cito due esempi di questi “assiomi indiscutibili”: la competitività come molla per l’economia e per gran parte dei rapporti sociali6, e il meccanismo “premio-punizione” come regolatore degli stessi, in una logica di legalità che fonda il rispetto degli altri sulla paura della sanzione. Partendo da entrambi questi assiomi la fiducia è un handicap; tanto più la dipendenza. La madre biofila appare un’illusa sognatrice che si fa portatrice di valori che creano dei figli perdenti e senza futuro.

Non molto tempo fa, Rudolph Giuliani, allora sindaco di New York, coniò l’espressione “tolleranza zero”, che ancora oggi è molto in auge, per esprimere l’idea, che realizzò in forma piena, di un intervento radicale nei confronti della devianza, teso ad estirparla senza mezzi termini. Al di là dei dubbi sull’efficacia del metodo, trovo che quest’idea sia profondamente nociva in termini di visione del mondo, perché dà per scontato il fatto che la tolleranza sia un lusso che ci si può permettere solo nelle situazioni in cui non accade nulla di particolarmente rilevante, e che invece, nelle situazioni dove è necessario trovare una soluzione, questa si debba fondare su un intensificarsi della repressione e della sanzione. La “tolleranza zero” vene descritta come una sorta di ribaltamento di un pensiero tollerante perché chi trasgredisce è arrivato al culmine, ma in realtà è una mancanza di tolleranza alla radice, qualcosa che preesiste all’apice della trasgressione da parte del trasgressore: chi approva la prospettiva di Giuliani è intollerante per metodo, e ipocritamente applica una tolleranza fasulla aspettando il momento di poter giustificare il proprio intervento con il “pugno di ferro”, che ritiene sia l’unico efficace, e che applica nelle circostanze più gravi, le sole cui attribuisce veramente importanza, sentendosi giustificato a farlo.

Restando a casa nostra, possiamo vedere come, soprattutto nei governi di centrodestra, ma anche, almeno per alcuni aspetti, nei momenti di governo del centrosinistra, l’unico rimedio a cui si pensa nei confronti di tutto ciò che si manifesta in termini di devianza sia l’intensificarsi della repressione. E questo benché proprio nei tanto elogiati Stati Uniti si sia avuta l’esperienza del proibizionismo che ha dato esiti (anche sul piano pratico) devastanti in senso negativo, criminalizzando situazioni che, condotte in termini diversi, potrebbero, e in alcuni casi già hanno potuto, essere affrontate più efficacemente: parlo della prevenzione, dell’educazione, di una pedagogia improntata alla tolleranza “vera”, che rimane tale in ogni circostanza, come metodo e non come ripiego per situazioni che comunque non danno troppi problemi.

L’abbassamento della soglia d’età punibile penalmente, il generale “inasprimento della pena”, evocato ogni volta che accade un reato particolarmente grave che indigna l’opinione pubblica7, e spesso realizzato dal governo di turno, di destra o di sinistra che sia, le ronde, la penalizzazione del semplice uso personale di sostanze stupefacenti e la criminalizzazione degli alcolici ai minorenni, e ci metto pure la patente a punti, a mio avviso una delle più grosse idiozie che siano state realizzate, e che continua ad essere in vigore anche se le statistiche recenti hanno rilevato la sua totale inefficacia; tutto ciò esprime una società che di fronte alla devianza pensa che solo con una punizione esemplare si possa porvi rimedio, avendo abdicato al suo principale compito, quello di promuovere la giustizia intesa come valore e non come erogatrice di sanzioni.

E questo riguarda anche il cosiddetto fenomeno del “bullismo”, rispetto al quale prevale comunque l’idea di un intervento repressivo e sanzionatorio invece che educativo e pedagocico sulle famiglie dei ragazzi che arrivano a diventare “bulli”. E così abbiamo la reintroduzione del voto in condotta, con il “5” che manda in fumo un anno di vita dello studente, con un’efficacia tutta da provare.

Amae nella relazione, analitica e non

Ritenere che nei casi di grave aggressività la tolleranza debba diventare zero significa ritenere che non esista alcuna attitudine costruttiva nell’uomo, che la tolleranza può essere applicata solo quando non c’è in gioco niente di importante, e invece, nei casi in cui la natura umana si esprime nella sua pienezza, non possa esserci altro che distruttività (pulsione di morte come “naturale”, sulla scia del Freud più legato alla teoria delle pulsioni), e che tale distruttività vada punita e repressa perché non emerga. È dato per implicito che solo la paura della punizione può far sì che determinate azioni distruttive non vengano compiute. Ciò è smentito, oltre tutto, dai fatti, perché non solo non è vero che i regimi più repressivi siano quelli dove avvengono meno reati, ma è vero esattamente il contrario.

La madre biofila è invece quella che, riconoscendo le risorse costruttive del soggetto di cui si occupa, ne favorisce lo sviluppo aiutandolo a mettersi in contatto positivamente col mondo. E il fondamento di questo contatto positivo è il rapporto di fiducia tra la madre e il figlio e tra la madre e il mondo, che genera la fiducia del figlio nel mondo. Questo è ciò che concepisco come amae. Un’aura che accompagna il figlio di una madre biofila mettendolo nella condizione di rapportarsi al mondo avendo fiducia nelle proprie risorse e nella possibilità di incontrare luoghi e persone in cui e con cui tali risorse possano attivarsi.Amae e la madre biofila non creano persone “viziate” o “parassite”, come un malinteso senso comune del mondo occidentale sembrerebbe ritenere, ma al contrario persone che si muovono nel mondo con una certa disinvoltura, perché pronte a cogliere le mani che vengono loro tese da quelle persone disponibili che, poche o tante che siano, sanno riconoscere incontrandole sulla propria strada. Non sono persone “indipendenti” nel senso stretto della parola, cioè non sono preoccupate di badare a se stesse e di non essere di peso a nessuno, ma accettano l’aiuto quando viene loro offerto, non preoccupandosi di “sdebitarsi” al più presto, perché non sentono il legame come un peso, ma come una componente essenziale della vita. Dipendono sapendo di dipendere e scegliendo le persone da cui dipendere, pronte ad aiutare quando queste persone lo richiedono, senza per questo essere smaniose di farlo per pareggiare i conti e tornare “libere” dal debito contratto.

E, per sfatare un altro luogo comune della società, e di una certa psicologia, di oggi, non si rapportano agli altri avendo come primo obiettivo quello di non farsi “manipolare”. Non vedono il mondo pieno di manipolatori potenziali e dunque entrano in contatto con gli altri senza mettersi in partenza sulla difensiva. Questo spesso induce anche nell’interlocutore un atteggiamento più fiducioso che rende non più necessaria la costruzione di barriere difensive.

L’analisi è un luogo in cui amae può trovare spazio e diventare un valido strumento di lavoro. A differenza di molti, soprattutto tra gli analisti di oggi, ritengo che una delle funzioni principali dell’analisi sia il configurarsi come esperienza emozionale correttiva (Alexander F., 1948 – tr. it. 1969), e attribuisco molto valore al modo di porsi dell’analista nei confronti del paziente, non solo per creare un “clima relazionale” (Carnevali R., 2003) empatico, ma anche come esempio di uno “stile” relazionale che può, per l’appunto, dare luogo a un’esperienza emozionale correttiva. Nel mio modo di essere analista amae è presente come elemento di primo piano. Molti colleghi mi dicono che sono un ingenuo perché credo sempre a tutto quello che i pazienti mi dicono, e che devo invece imparare a diffidare, perché loro sono furbi e tendono a manipolare. Sono convinto di essere un ingenuo, ma non voglio fare niente per non esserlo, intendendo l’ingenuità in senso etimologico, come qualcosa che va alla radice, sfrondata il più possibile dai pregiudizi. Non mi importa di verificare se i miei pazienti mi dicono cose vere o invece vogliono manipolarmi; mi importa di trasmettere loro il fatto che ho fiducia, e che sulla fiducia può fondarsi una relazione in cui le persone in gioco non hanno bisogno di ingannarsi a vicenda, evitando così di ingannare anche se stessi. Nella relazione analitica amae può giocare il ruolo di quell’elemento di scambio tra analista e paziente che non è stato presente nello scambio tra il paziente bambino e la polarità necrofila di sua madre, aprendo le porte a un modo più fiducioso di relazionarsi al mondo. Questo è fondamentalmente ciò che cerco di fare col mio lavoro di terapeuta e di analista.

Amae e il buddismo

Come posso pensare di aiutare qualcuno a rapportarsi al mondo rinunciando almeno ad alcune delle proprie difese, se io sono il primo a mettermi sulla difensiva nei suoi confronti, cercando di prevenire le sue eventuali manipolazioni? Mi sembra oltretutto che l’uso del termine “manipolazione” riferito al paziente in questo contesto sia del tutto improprio, così come l’attribuirgli (come molti, anche terapeuti, fanno) la qualifica di “furbo”, visto che le manovre difensive gli portano come unico vantaggio quello secondario della sua patologia, mettendolo nella condizione di rimanere sprofondato nella sua sofferenza per l’incapacità di sperimentare vie nuove.

Vie nuove che invece può osare di percorrere se trova un analista “biofilo” che, disarmato, gli apre la porta e con lui va verso il rischio del “fidarsi dell’altro”.

Il collegamento tra amae e la madre biofila si condensa dunque nell’idea della ricerca di una propria collocazione nel mondo in cui il soggetto viva in un rapporto di mutuo scambio con l’ambiente, immerso in esso e dunque necessitante di un rapporto di fiducia.

Qualcuno mi ha fatto rilevare, in relazione al mio scritto cui già ho fatto riferimento (Carnevali R., 2008), che il collegamento tra amae e il buddismo, cui già in quel contesto faccio brevemente cenno, è tutt’altro che evidente, e che non è detto che ciò che proviene dalla cultura orientale sia riferibile tout court al buddismo.

Per argomentare contro questo rilievo, e a favore dell’idea che il concetto di amae sia a buon diritto riconducibile al buddismo, voglio riprendere la citazione (già comparsa nello scritto medesimo) di un’intervista fatta da Francisco Varela al Dalai Lama, contenuta in Molino A. (a cura di), 1998; tr. it. 2001, di cui riporto qui di seguito qualche stralcio e il mio commento.

A un certo punto il narratore riporta un’idea del Dalai Lama che agli astanti appare piuttosto singolare (pp. 113-114):

“…Potremmo fare una distinzione tra il livello mentale più grossolano e la mente sottile. In termini di mente grossolana, potrebbe esserci una connessione tra la mente dei genitori e quella del figlio se, ad esempio, i genitori, o anche solo uno di essi, avessero una rabbia così forte da causare cambiamenti fisiologici nel loro corpo, cambiamenti dovuti appunto a quelle precise tendenze mentali. In tal caso la mente influenzerebbe il corpo. In seguito, generando un figlio, si potrebbe constatare che il corpo è stato influenzato dal corpo dei genitori. Il corpo del figlio, prodotto dal corpo dei genitori, potrebbe quindi influenzare lo stato mentale del figlio stesso, cosicché finirebbe per sperimentare analoghe emozioni di rabbia o attaccamento. In tal caso potremmo vedere un livello mentale grossolano, sia questo rabbia o attaccamento, che passa da una generazione all’altra. È possibile. Non è una relazione diretta da mente a mente, ma una sequenza dalla mente al corpo e dal corpo alla mente”.

[…]

Più avanti, parlando dell’io in relazione all’esperienza, il Dalai Lama riprende i concetti di “coscienza grossolana” e “coscienza sottile” (pp. 119-120):

“…l’io può essere designato sulla base della coscienza grossolana o di quella sottile. Un modo di considerare l’idea che l’io puro sia il ricettacolo delle impronte mentali è osservare la questione dal punto di vista convenzionale. Quando una persona compie una certa azione, che lascia determinate impronte, in seguito a quella stessa esperienza ha una certa propensione. Tutto qui. Non c’è bisogno di definire una base sostanziale, che svolga il compito di accogliere la propensione…”.

Senza stare ad aprire un contenzioso sul fatto che Freud […] rispetto alla teoria dell’evoluzione era un seguace di Lamarck […] qui mi limito ad evidenziare che, rispetto all’idea, opposta a qualunque prospettiva relazionale, di un “essere sé stessi” corrispondente a un “liberarsi dai condizionamenti per ritrovare la vera natura del proprio sé”, la concezione qui sostenuta dal Dalai Lama ne è lontana mille miglia, proponendoci l’idea di un come qualcosa in continuo divenire grazie al rapporto di dare e ricevere che ha continuamente col mondo circostante. E questo in una visione che per di più ha almeno un punto fondamentale in comune con la teoria psicoanalitica freudiana più ortodossa.

Mi sembra evidente che lo sfondo in cui si muove il discorso del Dalai Lama riconduce a una prospettiva che si differenzia fortemente da quella (spesso riferita con immediatezza da molti al pensiero buddista) di un “distacco” dalle cose del mondo inteso come disinteresse o come evitamento della relazione; l’espressione “cogliere l’attimo presente” può essere vista come un contatto pieno, di fusione col mondo, un “immergersi” con un’intensità totalizzante nel rapporto con ciò che ci circonda, cogliendone tutte le sfumature; la consapevolezza dell’attimo è consapevolezza “in relazione”, è possibilità di comprendere sé stesso e l’“altro”, e una prospettiva “biofila” e la presenza di amae intesa secondo quanto fin qui detto non possono che favorire questo processo, collegandosi quindi, con un profondo legame, al pensiero buddista, almeno nell’accezione qui proposta, che peraltro si fonda, come s’è visto, sulle parole del suo massimo esponente.

Per concludere, vorrei proporre una considerazione a proposito della tecnica (o più precisamente circa la teoria della tecnica) psicoanalitica. Può forse apparire astrusa o molto complessa l’applicazione di amae al lavoro analitico, e molti possono ritenere che il discorso fin qui proposto tocchi alcuni punti magari interessanti sul piano epistemologico ma di scarsa o nulla applicabilità, arrivando dunque a incidere poco o niente sulla prassi operativa. Dall’interno del mio lavoro quotidiano posso dire al contrario che quando, poco più sopra, in relazione al fatto che “Nella relazione analitica amae può giocare il ruolo di quell’elemento di scambio tra analista e paziente” che apre “le porte a un modo più fiducioso di relazionarsi al mondo”, affermo che “Questo è fondamentalmente ciò che cerco di fare col mio lavoro di terapeuta e di analista”, esprimo qualcosa che per me è un modo di essere, uno stile di vita, un’immersione pressoché costante in una dimensione relazionale che mi accompagna nel lavoro ma anche nella mia vita privata, un humus da cui cerco di far germogliare i semi che continuamente il mondo circostante mi “mette dentro”. La presenza di amae è dentro di me in un continuum, e dunque non ha bisogno di essere evocata: è costantemente viva nella mia prassi operativa analitica, a meno che non venga sottoposta a processi difensivi (controtransferali) di rimozione, ai quali cerco di porre attenzione perché non avvengano. Questo non significa che l’idea di amae per un suo utilizzo come strumento operativo sia facilmente trasmissibile, e forse il senso più profondo di questo mio lavoro è aver cercato di offrire qualche suggestione “approssimativa” che potrebbe aver favorito in qualcuno per l’appunto un “approssimarsi” a un lavoro analitico “biofilo” fondato su amae.

Bibliografia

Alexander F. (1948), Gli elementi fondamentali della psicoanalisi, Sansoni, Firenze, 1969.

Carnevali R. (2003), L’immaginario e il diavolo, FrancoAngeli, Milano.

Carnevali R. (2008), “C’è qualcosa di nuovo… anzi d’antico”, in Setting n. 26; II° sem. 2008, FrancoAngeli, Milano.

Doi T. (1971), Anatomia della dipendenza, R. Cortina, Milano, 1991.

Fromm E. (1964), Psicoanalisi dell’amore, Newton Compton, Milano, 1971.

Fromm E. (1973), Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975.

Fromm E., Suzuki D. T., De Martino R. (1960), Psicoanalisi e buddhismo zen, Astrolabio, Roma, 1968.

Molino A. (a cura di) (1998), The Couch and the Tree, Open Gate press, London – tr. it. Psicoanalisi e Buddismo, R. Cortina, Milano, 2001.

Note:

1 Senza andare a scomodare Foucault e la sua Storia della follia, possiamo pensare ai dissidenti sovietici internati negli ospedali psichiatrici o a quello che accade alla protagonista del film di Clint Eastwood Changeling, che in una città americana degli anni ’30 viene rinchiusa in una clinica psichiatrica perché sostiene che quello ritrovato dalla polizia non è il suo bambino scomparso.

2 Porto qui un esempio della mia affinità con la visione giapponese e col concetto di amae attingendo alla mia storia personale. Quando vado a fare acquisti con mia moglie, mentre vedo che lei (che evidentemente, almeno in questo, è molto “occidentale”) riesce a comprare cose belle e di qualità a poco prezzo, facendo passare decine di abiti appesi in magazzini dove centinaia di persone si servono da sole e hanno un contatto col personale solo al momento del pagamento o, se questo contatto avviene prima, è solo per qualche fugace informazione, mi rendo conto che per me c’è bisogno di un “negozio” vero e proprio, dove appena entrato un commesso mi accolga e mi dedichi attenzione, guidandomi all’acquisto e portandomi passo dopo passo verso il pagamento e l’uscita; essendo per di più daltonico, dipendo dagli altri anche per la scelta dei colori, e chiedo dunque conferma sia a chi mi accompagna (in genere per l’appunto mia moglie) sia al commesso per essere certo di non sbagliare; mai mi è capitato di sentire questo come un limite da superare, né ho mai fatto nulla per entrare nella logica dell’acquisto “help yourself”.

3 Fromm E. (1973), Anatomia della distruttività umana, Mondadori, Milano, 1975.

4 Fromm E. (1964), Psicoanalisi dell’amore (titolo orig. The heart of man), Newton Compton, Milano, 1971.

5 Ad integrazione del pensiero di Fromm possiamo pensare che anche la figura paterna svolga un ruolo fondamentale nel costituirsi di questo clima, mantenendo come chiave di lettura la bipolarità necrofilia-biofilia.

Un elemento centrale di questo discorso diventa una rilettura dell’Edipo in chiave relazionale. Un atteggiamento necrofilo nei confronti del mondo investe anche, e prima di tutto, la figura del nascituro: quello che possiamo considerare un naturale atteggiamento di “rigetto” rispetto a un elemento di discontinuità che viene a inserirsi in una continuità (la nascita del bambino vista come elemento perturbante rispetto alla coppia) si declina in tutta la gamma delle possibilità sull’asse necrofilia-biofilia. Prima di pensare all’impulso distruttivo di Edipo nei confronti di Laio, pensiamo dunque alla profezia che vede Edipo come l’usurpatore, e induce Laio a mandare il bimbo a morte. Prima che ci sia un bimbo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre, c’è una coppia di genitori che vede in lui tutto questo, e che, proprio per evitare che ciò accada, costruisce una situazione che fa in modo che il fato si compia. In altri termini, possiamo vedere nella coppia di genitori nei quali prevale l’atteggiamento necrofilo, che vede negli elementi del mondo circostante pericoli potenziali che devono essere distrutti prima che ci distruggano, il primo e più importante “segno” che viene posto sul nascituro, che non già porta in sé il destino dell’essere Edipo, ma viene reso assassino e incestuoso dalle difese che i genitori mettono in atto nei suoi confronti.


6 Per non appesantire troppo questo mio scritto, cito quest’aspetto ma lo sviluppo solo brevemente in questa nota a piè di pagina. Da secoli l’economia capitalista è sposata da una parte considerevole del mondo occidentale, ma la caduta del muro di Berlino ha decretato la fine del comunismo in tutti i sensi, e negli ultimi vent’anni si dà per scontato che l’“uomo nuovo” ipotizzato da Marx sia una figura utopica; l’uomo viene oggi concepito, in occidente, come unicamente dedito a fare il proprio interesse, e si esclude che ci possa essere una naturale propensione a socializzare e ad andare verso gli altri. In questo senso, l’unico stimolo alla realizzazione di sé diventa “aggredire” il mondo e farlo proprio, in una sorta di lotta per la sopravvivenza. Anche qui vediamo il prevalere dell’atteggiamento necrofilo che, vedendo come prima necessità quella di non soccombere di fronte a un mondo popolato di lupi, sollecita ad attivare tutte le difese possibili e a sopraffare per non essere sopraffatti. Silvio Berlusconi è un esempio lampante di questa mentalità, e il credito che riesce ad avere esprime il dilagare di una prospettiva in cui è cancellata la possibilità dell’uomo di avere una propensione naturale all’incontro con l’altro e con il mondo. Un esempio, spicciolo ma significativo, è l’aver egli affermato che un imprenditore, o un professionista, che vota a sinistra è un coglione (sono orgoglioso di appartenere a questa categoria), ritenendo impensabile che il voto possa dipendere da un senso di giustizia e da un bisogno di equità sociale e non dall’interesse individuale di ciascuno.

7 Voglio dire due parole sull’inasprimento delle pene ai pedofili, giustificato dal fatto che è un reato che indigna l’opinione pubblica per la sua particolare ripugnanza; comprensibile l’indignazione e più che comprensibile la ripugnanza, ma questo cosa c’entra con l’inasprimento della pena? Secondo quale logica può avere una qualunque efficacia? C’è qualcuno che può pensare che un pedofilo, prima di avviarsi a circuire un bambino per poi abusare di lui, si chieda quanti anni di pena rischia, e se gli anni sono tre o quattro allora compie il suo abuso, mentre se gli anni sono quindici o venti si trattiene perché ritiene di rischiare troppo? Non c’è bisogno di essere fini psicologi per capire che nella mente di un pedofilo l’ordine di pensieri è di tutt’altro tipo, e che il rischio della sanzione non lo sfiora nemmeno come determinante del suo agire. Alla fine del 2007 la Società Italiana di Psicologia Clinica e Psicoterapia ha organizzato a Milano un convegno intitolato “Pedofili oggi: proviamo a curarli?”, proponendo argomenti a mio avviso di grande interesse, che però, pur essendoci stata una nutrita partecipazione, si sono esauriti all’interno di una ristretta cerchia di operatori del settore, che hanno un’incidenza sull’opinione pubblica e sui politici pressoché nulla.

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