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PSYCHOMEDIA
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Psicoanalisi




Psychoanalysis and the law
An italian discussion


A Round Table Discussion
Bice Benvenuto, Sergio Benvenuto, Sergio Contardi, Giacomo Contri, Marco Focchi, Giorgio Landoni, Valeria La Via, Paolo Migone, Diego Napolitani, Paola Ronchetti, Paolo Tucci

Versione in inglese su J E P Number 18 - 2004 / 1


Sergio Benvenuto



Scrivo per commentare il breve - ma denso - contributo di Diego Napolitani alla nostra Tavola Rotonda. Sono in gran parte d’accordo con lui, ma non su tutto.
Sono d’accordo che la psicoanalisi si intersechi con altre pratiche “antiche” - secondo la lista di Diego: scienza, arte, religione, etica - senza ridursi a nessuna di queste. E’ molto forte la tentazione, da parte di chi si rifiuta di concepire il nuovo, di ricondurre la psicoanalisi a una di queste forme già note - a cui aggiungerei almeno la medicina, come pratica tra scienza ed arte, e altre due di cui ora parlerò. Ad esempio in Italia si suol dire “andare in analisi è come andare a confessarsi per il cattolico” - certo la psicoanalisi ha delle analogie con la confessione, ma se ne distingue anche molto. (Da notare che oggi la confessione cattolica si chiama “riconciliazione” - e certo anche l’analisi porta ad una riconciliazione con le figure del proprio passato.) Cercare di disegnare il ruolo specifico della psicoanalisi, il luogo in cui essa è veramente “a casa sua”, è quindi un problema filosofico che eredita gli sforzi filosofici di sempre nel trovare la specificità di scienza, arte, religione, etica, ecc.: definire insomma quel che c’è di veramente scientifico nella scienza, di veramente religioso nelle religioni, di veramente psicoanalitico nella psicoanalisi, ecc. Ovviamente altri approcci filosofici negano che tra tutte queste forme di vita ci siano confini netti e precisi: una forma si accavalla all’altra, si prolunga nell’altra.
Trovo significativo però che Diego dimentichi, nella sua lista delle pratiche a cui l’analisi si paragona, proprie le due che evocava Freud: governare ed educare. Freud diceva che psicoanalizzare era un mestiere impossibile proprio come governare ed educare. Mi pare di capire che questa sua dimenticanza non sia un lapsus: proponendo l’idea dell’analisi come tipo di formazione, diciamo così permanente, egli sembra pensare all’analisi essenzialmente come ad una pratica educativa, o pedagogica che dir si voglia. Ad una forma di Bildung, come dicono i tedeschi. Qui non lo seguo più. Può darsi che egli abbia ragione: che tutti gli analisti, senza saperlo, siano essenzialmente dei formatori, che insomma la psicoanalisi sia una branca specializzata della psicopedagogia. Ma allora se così fosse, detto francamente, non troverei questo mestiere molto eccitante. In passato ho avuto a che fare con qualche analista che mi voleva “formare” - me ne sono andato a gambe levate.
Certo Diego ha una concezione moderna, cioè “debole”, della formazione: il suo modello, mi pare, non è quello dei rigidi collegi di un tempo, piuttosto “la formazione permanente” che oggi va per la maggiore. Oppure la formazione dei gesuiti di oggi, celeberrimi per la loro disinvoltura e il loro liberalismo. Evidentemente, per la psicoanalisi come per la pedagogia moderna non si tratta di imporre all’altro una forma, ma di far sì che ogni soggetto sia aiutato a trovare la propria forma: è l’ABC della pedagogia novecentesca. Ma appunto: sempre di formazione si tratta, cioè di dare una forma ad un soggetto, anche se una forma sempre cangiante. Ma allora, la psicoanalisi sarebbe una sorta di metodo Montessori applicato alla cura?
E se l’analisi fosse invece proprio fare il contrario? Essa di fatto porta un soggetto a perdere la sua forma, a dis-formarsi (che non significa de-formarsi). “Non so più che cosa sono!” dicono gli analizzanti dopo un po’: appunto, per fortuna perdono la forma (nevrotica, psicotica, borderline, ecc.). E’ evidente anche che col tempo, spontaneamente, ogni soggetto ricostituisce una sua forma, la quale - si spera - sarà più flessibile e aperta di quella precedente: ma l’analista dovrebbe veramente aiutarlo a trovarla? Di fatto ciascuno la trova, ma non grazie all’analista: questi si limita a sciogliere (ad “analizzare” nel senso di analuein, sciogliere) così come un cubetto rigido di zucchero si scioglie nel caffè, a distendere il crampo, a far perdere la forma predefinita, in breve, a dis-formare. Insomma, mi pare che l’analista di fatto faccia il contrario del formatore o educatore. Il che non significa che educatori e psicoanalisti siano incompatibili, tutt’altro - il problema di una pedagogia ispirata alla psicoanalisi si pone oggi come cento anni fa.
Mi sfugge invece perché Diego preferisca alla politica il termine etica. Forse perché, anche in questo caso, vede la psicoanalisi come una forma speciale di politica? Si aprono altre prospettive.

Grazie per l’attenzione

Sergio Benvenuto


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