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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



REVISTA DE PSICOANALISIS /TOMO LXIX/ NÚMERO 1/ MARZO2012
Green en APA: Ideas Directrices para un Psicoanalisis Contemporaneo
ASOCIACION PSICOANALITICA ARGENTINA

Adriana Ramacciotti



Il 2013 segna il settantesimo anniversario della Revista de Psicoanalisis Argentina. Nata nel luglio del 1943, dopo un anno dalla creazione dell’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA), grazie al sostegno di un imprenditore rimasto affascinato – e grato – dai risultati della cura psicoanalitica intrapresa da un manager della sua azienda, gravemente malato di agorafobia, con Pichon Riviere (Balan, 1991). In questi settant’anni, la Revista è stata pubblicata senza interruzioni nonostante tutte le difficoltà economiche, finanziarie, politiche e militari che il paese ha attraversato e con lui ovviamente anche tutte le istituzioni che ne fanno parte.

Rendiamo omaggio al suo primo numero ricordando le pubblicazioni di alcuni illustri autori: Garma e le sue ricerca sui sogni, Carcamo e l’analisi dei simboli, Alexander e i contributi alla Medicina Psicosomatica, Klein e lo sviluppo precoce del SuperIo, senza dimenticare la bella recensione di Rascovsky del Manuale di Psicoterapia di Mira e Lopez (Balan, 1991).

Questo numero 1 del 2012, che s’intitola “Green en APA: Ideas Directrices para un Psicoanalisis contemporaneo”, è decisamente straordinario.

Innanzitutto dà conto del profondo legame, durato più di venti anni, tra Green e la psicoanalisi argentina, sia con l’APA (che nel 2001 ha promosso al suo interno uno spazio di discussione, l’Espacio Green), sia attraverso la figura di uno psicoanalista argentino, Fernando Urribarri, allievo, interlocutore e amico personale di Green e legato da un rapporto così intenso e profondo da indurre Green a indicarlo nella sua volontà testamentaria come terzo oratore nel suo funerale. Green morì a 84 anni, nel gennaio del 2012.

A gennaio del 2012 questo numero della Revista era “in progress”. Tre mesi prima, in ottobre 2011, si tenevano a Buenos Aires le “Jornadas Green en APA”: questo numero della Revista, di 310 pagine, contiene anche tutti i testi dell’evento.

Per poter descrivere meglio la rivista la dividerei in due parti: nella prima parte troviamo i contributi di Andre Green, Fernando Urribarri, Julia Kristeva, Martin Bergmann, Adam Phillips e Dominique Cupa; nella seconda, invece, i testi e le discussioni dei cinque panels delle “Jornadas”.

Lo spazio − necessariamente ristretto − di una recensione non mi dà la possibilità di commentare i contributi uno a uno, come invece meriterebbero, vista la loro qualità: mi limito quindi a raccomandarne, vivamente, un’attenta lettura.

Della prima parte segnalo il lavoro storico di M. Bergman che riprende, dopo vent’anni, il dibattito tra Rangell e Green coordinato da Anna Freud durante il 29° Congresso di Psicoanalisi svoltosi a Londra nel 1975. Green, in quell’occasione, si presentava con il suo lavoro “The analyst, symbolization and the absence in the analytic setting”. Con molta vivacità di scrittura Bergman ci spiega come a quel tempo fosse difficile capire, soprattutto per Anna Freud, un analista come Green, freudiano, che aveva incorporato Lacan, Bion e soprattutto Winnicott e che inoltre proponeva un lavoro clinico con pazienti non nevrotici, i casi limite. Green aveva già concesso uno spazio molto importante alla pulsione di morte, per spiegare il disinvestimento dagli interessi vitali, pulsioni distruttive che portano al narcisismo negativo, e segnalava anche l’importanza di altri meccanismi di difesa quali la scissione, l‘espulsione somatica e l’espulsione agita.

La rivista riporta il testo completo di Green “Il setting psicoanalitico la sua interiorizzazione nell’analista e la sua applicazione nella pratica” è l’intervento che l’autore tenne in Quebec, nel 2000 e sembra quasi “dare il la” alla Revista. È un concentrato dei suoi principali contributi teorici e quindi risulta di non facile lettura. Dopo una partenza molto decisa, dove fa un’analisi della crisi che attraversa la psicoanalisi, pone delle domande sull’identità stessa degli psicoanalisti: chi /che sono Io quando mi definisco psicoanalista? Cosa faccio quando pratico la psicoanalisi? Cosa penso della teoria psicoanalitica? “Il disagio della civiltà è un tema più urgente oggi che nell’epoca di Freud”, ci dice l’autore.

Più avanti si muove intorno all’inconscio, passando in rassegna le concezioni di Freud in primis, quindi gli autori postfreudiani, indicando i punti di contatto e le differenze che corrono fra i diversi tentativi di dare forma al concetto.

Forza e rappresentazione, conflitto, pensabile e impensabile e il tema dei limiti sono trattati in differenti articolazioni e registri.

Alcune note sono particolarmente “accese”. Per esempio:

“Non è possibile prescindere dalla nozione di forza: senza di essa molti concetti psicoanalitici diventano impensabili, in particolare la fissazione, la resistenza, il transfert, la ripetizione e la compulsione a ripetere” (Green, pag. 15).

Il concetto di setting, che Green associa a diversi autori come Bleger, Winnicott, Donnet e Baranger, è definito come un campo di forze. Come fa l'analista a interiorizzare il setting? L’autore non risparmia l'insistenza sull'analisi e rianalisi dell'analista come via di accesso ai diversi registri rappresentativi. L’interiorizzazione del setting consente che esso sia sempre presente nella mente dell’analista, anche quando non può essere applicato direttamente, e viene messo in gioco comunque come riferimento rispetto al quale l’analista potrà, fortunatamente, analizzare ciò che fa (quindi l’analisi dell’analista e non solo del transfert o del controtransfert). Il setting interiorizzato rende possibile la comprensione dell’emergenza di ciò che impedisce, nel paziente, il processo d’internalizzazione – non solo la rimozione o la scissione ma anche la distruttività, che appare con maggiore chiarezza. C’è dunque la proposta di una finalità terapeutica che renda consapevole il paziente della distruttività indirizzata verso la sua attività psichica.

Ampio spazio viene dato ai rapporti tra linguaggio, affetto e struttura psichica.

È su questa scia che s’inserisce il dialogo Green-Urribarri. Uno degli ultimi libri di Green, “Idee per una psicoanalisi contemporanea”, si fonda su una serie di interviste che Fernando Urribarri ha realizzato all’autore, nel 2001. Non c’è la pretesa di prendere tali formulazioni come un nuovo dogma, ma c’è piuttosto la richiesta di utilizzarle come uno strumento che fornisca, con un certo ottimismo per il futuro della psicoanalisi, una mappa delle sfide presenti nella psicoanalisi attuale insieme a una bussola teorico-clinica per orientarsi, lasciando aree di respiro per lavorare sui punti più difficili.

Sempre Urribarri, più avanti, approfondisce “Il pensiero clinico” (2002) segnalando due assi tematici principali: il primo si incentra sullo studio della distruttività e comprende dal lavoro del negativo nelle strutture non nevrotiche fino alla revisione della teoria della pulsione di morte. Il secondo corrisponde a un’accurata riflessione sulla clinica che punta a sviluppare un nuovo modello clinico terziario organizzato intorno alla nozione di “pensiero clinico”.

Il pensiero clinico ha un versante epistemologico che corrisponde al paradigma della complessità, che è il prodotto delle influenze su Green del pensiero filosofico di Morin, Atlan e Castoriadis. I processi inconsci, sia a livello intrapsichico sia intersoggettivo, sono eterogenei e hanno logiche diverse. C’è un’idea di specificità dell’oggetto psicoanalitico, il suo “recorte” (recorte significa taglio) grazie al setting come condizione del metodo. Queste sono le premesse per la ricerca in psicoanalisi: ovvero il dispositivo metodologico ideale per la ricerca è il setting, condizione di possibilità della relazione analitica e della costituzione dell’oggetto analitico.

Il setting viene distinto dalla sola situazione materiale e si concepisce come una funzione costituente dell’incontro e del processo analitico, di natura transizionale (tra realtà sociale e realtà psichica). Il setting istituisce lo spazio analitico, spazio terzo che rende possibile l’incontro e la separazione tra lo spazio psichico del paziente e dell’analista. Contenimento e distanza: il setting delimita lo spazio potenziale che rende possibile la comunicazione analitica.

Urribarri ci riporta a Green quando distingue nel setting una frazione variabile e una costante. La costante, matrice attiva, di natura dialogica, è costituita dalle associazioni libere del paziente, dall’attenzione fluttuante e dalla neutralità dell’analista. La variabile, una sorta di astuccio protettivo della matrice attiva, si riferisce alle disposizioni materiali secondarie: frequenza, contratto, posizione del paziente.

Il ruolo del setting come strumento diagnostico per valutare il funzionamento rappresentativo e le modificazioni per stabilire le migliori condizioni per il funzionamento rappresentativo hanno come condizione l’interiorizzazione del setting da parte dell’analista nella sua propria analisi. E qui si arriva al punto di massima attenzione: la nozione di setting interno dell’analista come “processo terziario”, nozione che viene ampiamente lavorata nei suoi aspetti clinici, tecnici e teorici.

Molto interessante è anche il lavoro di D. Cupa il quale riprende D. Anzieu e, in particolare, la nozione di investimento psichico della pelle in relazione all'attaccamento e, aggiunge l’autore, in relazione all' "attaccamento in negativo”. Porta un caso molto interessante, che le consente di riconoscere, nel transfert con una sua paziente, l’allucinazione negativa nel senso greeniano, vale a dire, il fenomeno di cancellazione, di vuoto, di qualcosa che avrebbe dovuto essere percepito. La nozione di “madre morta” legata all’esperienza di vuoto o di negatività viene ulteriormente elaborata in relazione all’attaccamento e alle proibizioni nella relazione madre-bambino.

Nella seconda parte, dedicata alle “Jornadas”, i panels affrontano diverse problematiche: la rappresentazione, il narcisismo, la funzione simbolica, la funzione del setting, l'allucinazione negativa, la clinica del vuoto, gli stati limite, il tema dell'analizzabilità , il concetto di processo terziario, sono i temi più significativi.

Si capisce che c’è un lavoro di anni su concetti difficili che ha consentito agli autori di scrivere in modo chiaro e breve, senza tante circonlocuzioni. Compare anche una lettura di Freud in tutte le sue poliedriche sfaccettature, frutto di un entusiasmante e anche contagioso approfondimento che rende Freud “meno bacchettato”, come a volte si intravede da certe letture piuttosto ideologiche e, nel contempo, più “alla mano”.

La problematica della rappresentazione viene sviscerata con speciale attenzione (Marucco, Alvarez), passo a passo senza ommettere quelle necessarie spiegazioni intermedie che tanto ci servono a ragionare su un argomento. Per Green (Alvarez) la rappresentazione inconscia non è un dato di partenza, ma è frutto di un lavoro che fa sì che la pulsione si leghi alla rappresentazione cosa (qualcosa deve succedere perché questo avvenga!).

Diverse domande sono sviluppate: ciò che non ha potuto essere rappresentato per insufficienza di lavoro psichico, che tipo di lavoro analitico comporta? Quando e come entra in gioco la pulsione di morte in relazione a quello che non è rappresentato o rappresentabile? Che rapporto c’è tra libera associazione - attenzione fluttuante e rappresentabilità? L’irrappresentabile, che viene messo in rapporto con i momenti originari dello psichismo, non ha proprio possibilità di legami, solo di scarica nell’atto o nel corpo? Infine, (Galvez) come si gioca la rappresentabilità nelle psicosi?

Molto interessante mi è sembrato il contributo di Sverdik che pur affermando che in Green non c’è una vera e propria teoria dell’Io propone, in maniera molto rigorosa, l’analisi dei riferimenti nell’opera dell’autore che alludono all’organizzazione delle frontiere e ai rapporti con l’Es, SuperIo, ideali, soma, realtà e con l’altro, passando necessariamente attraverso la nozione greeniana di narcisismo come struttura.

L’ampliamento dei limiti dell’analizzabilità attraverso la concettualizzazione del funzionamento dei casi al limite non è solo uno dei legati di Green ma è anche un potente motore di ricerca. E questo motore continua a fare girare le idee (Tebaldi, Goldschmidt). La presenza di diversi paradigmi clinici, quello iniziale, sogno-racconto del sogno-interpretazione, quello ispirato nella seconda topica, scarica diretta della pulsione o elaborazione rappresentativa, e, ancora una volta, la rappresentabilità e la trasformazione delle urgenze in attese riflessive, implica obiettivi terapeutici non omogenei legati sia alle problematiche psicopatologiche, sia al campo creato tra paziente e analista. Quindi le variazioni delle capacità rappresentazionali (Goldschmidt) implicano variazioni delle possibilità di percepire l’analista (visibile e udibile) e indicano un lavoro nuovo che abbia a che fare con il materiale cosciente e precosciente per evitare crude incursioni dei contenuti inconsci, dove non solo il controtransfert abbia un ruolo e qualità fondamentale ma anche il setting venga chiamato in causa.

Il limite viene anche considerato non solo dal punto di vista clinico (gli stati limite) ma anche come concetto, vale a dire come una zona di trasformazioni tra le istanze psichiche, tra psiche e soma, tra soggetto e oggetto.

Un panel sulla sessualità negli stati limite pone a Francois Richard questioni relative da un lato all’economia libidica melancolica (psicosi e follia privata) e dall’altro all’adolescenza e ai destini della soggettivazione. Molto interessante è il tentativo di sviluppare alcuni punti non chiari attraverso il suo contributo personale.

Per concludere: penso che grazie a tutti questi interventi, André Green venga rivisitato in tutto il suo spessore e venga considerato come uno degli autori contemporanei che più si è speso per offrire risposte aperte alla difficile teorizzazione che la clinica attuale oggi ci pone.

Penso che questo sia davvero un numero speciale della Revista de Psicoanalisis, nella migliore tradizione della psicoanalisi argentina: l’importanza del dialogo, della dialettica per pensare e discutere temi fondamentali, il rispetto del contesto storico-culturale, lo sviluppo di aspetti clinici tecnici ed epistemologici, lo scambio continuo e proficuo con colleghi di altri paesi, la creatività come salvezza e, infine, per restare in casa, l’importanza data all’ ”encuadre”, ovvero al setting in psicoanalisi, tema di blegeriana memoria.


BIBLIOGRAFIA

Balan J.(1991), Cuéntame tu vida, Planeta Espejo de la Argentina

Medina R, Gitaroff G, Ortega R, López de Parada H, Para una Historia de la Revista de Psicoanalisis. In: 60 años de Psicoanalisis en Argentina. Pasado-Presente-Futuro. Ed Buenos Aires. Lumen 2002


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