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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina


SULLA FUNZIONE TESTIMONIANZA IN PSICOANALISI

Marcio de Freitas Giovannetti

  1. Secondo Giorgio Agamben, la parola testimone condensa due significati che in latino erano separati: quello che deriva dalla parola testis – colui che si colloca come terzo di fronte ad un processo o ad un litigio – e quello che deriva dalla parola superstes – colui che ha attraversato e ha vissuto una esperienza fino alla fine e può pertanto rendere testimonianza di ciò. Più di quaranta anni di esperienza acquisita nell’ascoltare molte persone nel mio studio di psicoanalista, mi permettono di dare una testimonianza, anche se precaria, di quella esperienza che Freud collocò tra le “impossibilità” umane. Così, questo lavoro, più clinico che teorico, ha come obbiettivo esporre come avvenne l’accostarmi all’idea di ciò che chiamo funzione testimonianza dell’analista, che aggiungo alla originaria funzione interpretativa e alla già classica funzione contenitore e/o di holding, conforme alle teorizzazioni di Bion e Winnicott. Sia al di qua della funzione interpretativa e sia al di là della funzione contenitore, essa sempre si colloca in questo luogo intermediario, nello spazio di confine e anche di sostegno tra le due funzioni. Meno come un “testis” più come un “superstes”, l’analista va tentando di dare voce e parola a quello che non si trova nell’area del represso ne tantomeno nell’area della faglia, della rottura della trama psichica ma propriamente più nell’area del “ non è stato possibile essere riconosciuta come esperienza vissuta”.

  2. Agli inizi degli anni novanta, in qualità di analista didatta nella mia Società, mi venne fatta una richiesta di una analisi didattica da una donna, più anziana di me di circa venti anni. Il suo forte accento, come anche la sua postura e la gestualità, erano in totale sintonia con il suo originale nome tedesco. Era già una affermata professionista e ben inserita nell’ambito del lavoro della sanità mentale e mi intrigò il fatto che chiedesse di iniziare una lunga e dispendiosa formazione psicoanalitica nella nostra Società, in quel momento della sua vita, avendo già alle sue spalle un’ottima formazione psicoanalitica acquisita in un’altra seria istituzione di San Paolo, ed avendo già fatta una lunga analisi personale. Ma, secondo lei, non si sentiva ancora una vera psicoanalista, in quanto riteneva che nel suo lavoro di analista ci fosse l’influenza della sua iniziale formazione di fisioterapista. Riteneva che la Società Brasiliana di Psicoanalisi di San Paolo (SBPSP) avrebbe potuto legittimarla in qualche modo nel ruolo di psicoanalista. Iniziato il nostro lavoro, mi raccontò che, quando venne dalla Germania nell’America del Sud, all’età di diciassette anni, era stata ricevuta dalla Dr.ssa Adelheid Koch, analista tedesca, a suo tempo inviata in Brasile dall’IPA per fondare la nostra Società. “Lei era un’amica della mia famiglia a Berlino, prima di trasferirsi in Brasile”. Conversammo su un ovvio desiderio di ri-collocarsi in un ambiente familiare, la SBPSP – famiglia di origine. Dall’altro lato, le domandai come non considerare questo “gap” di cinquant’anni? “Ma è che non sono rimasta in Brasile in quell’epoca, soltanto ero di passaggio, avendo deciso di vivere in un altro paese sud – americano, dove cominciai a lavorare, a studiare e dove anche mi sposai con un altro emigrante tedesco. Mi sono trasferita in Brasile soltanto venti anni dopo, e la Dr.ssa Koch, già era praticamente in pensione”.

  3. Capì che non si dilungava molto rispetto a quei tempi, le sue associazioni giravano più intorno alla sua vita attuale, al suo lavoro, alla perdita del marito, morto da alcuni anni, ed anche parlava dei suoi dolori somatici. Solamente dopo alcuni mesi di analisi venni a conoscenza che la sua famiglia era ebrea e lei aveva lasciato la Germania con l’ultima nave che era partita da un porto italiano. “Ma io mai sono stata ebrea. Nella mia casa si festeggiava il Natale, mai abbiamo osservato le feste ebraiche e solo venni a sapere di essere ebrea quando dovetti andar via dalla scuola che frequentavo. Due anni dopo, venni inviata qui. Nessuno della mia famiglia è sopravvissuto”. Le chiesi in quel momento del suo nome, così tedesco. “ E’ il cognome di mio marito, che uso da quando mi sono sposata”. Non usava il nome della sua famiglia, non si sentiva ebrea. Odiava il passaporto che le era stato dato nel momento della partenza dalla Germania, nel quale, come a tutte le donne ebree era stato aggiunto il prenome Sarah. E lei mai si era sentita Sarah. Posso dire che questo fu il tema centrale della sua analisi che durò 6 anni. Verso la fine dell’analisi iniziò a scrivere le sue memorie. Mai le ha pubblicato. Si sentiva ormai legittimata come psicoanalista, “appartenendo” adesso alla Società. Lei, la sopravvissuta, morì dopo alcuni anni .

  4. Quasi niente di questa sua storia aveva raccontato nella sua precedente analisi. All’inizio ciò mi sorprese ma adesso ripensandoci mi faceva sentire

come il primo testimone di una esperienza, andando oltre i suoi dolori somatici, dove esisteva l’impossibilità di sentirsi di appartenere a qualche luogo, passibile di essere riconosciuta. Intenso fu l’impatto che ho vissuto durante lo svolgimento della sua analisi. Pure io ebbi bisogno di molti anni, quasi dieci, per poter iniziare a teorizzare su tutto ciò. Questo iniziò ad accadere quando più o meno cinque anni fa, due fatti, praticamente sincronici, mi portarono a rivedere l’esperienza che avevo avuto con quella donna espatriata e con nomi aggiunti ed anche nascosti. La lettura di “Homo Sacer” e “ Ciò che resta di Auschwitz” di Agamben, che partendo da Primo Levi, lavora in modo acuto e preciso sulla problematica della testimonianza, a proposito del “musulmano”, colui che sopravvisse – soltanto a livello di vita vegetativa – nel campo di concentramento, è il termine di riferimento. Inoltre l’esperienza con un giovane paziente, che lavorava e viveva fuori dal Brasile, mi portò ad esperimentare una nuova forma di seduta: conversavamo via skype. E’ chiaro che in questi dieci anni, esperienze con altri analizzandi, l’arrivo di internet e la perplessità che tutti noi abbiamo vissuto con l’avvenimento dell’11 settembre del 2001, hanno anche avuto un ruolo, più che significativo, in queste mie considerazioni.

  1. Io ho due certificati di nascita, il primo solo con il nome di mia madre, il secondo, quando mio padre mi ha riconosciuto” mi disse quel giovane di 25 anni nel nostro primo incontro. Questo incontro era stato richiesto insistentemente, con urgenza, per telefono dalla madre, ed avveniva di venerdì, al di fuori del mio orario di lavoro. L’urgenza era dettata dal fatto che il figlio rimaneva soltanto due giorni a San Paolo, ritornando il lunedì al suo lavoro in Africa. “Quando avevo 5 anni mia madre andò a vivere con un’altra donna che fu in qualche modo un padre per me”. “ Con mio padre stesso, ebbi sporadici contatti fino ai miei diciassette anni, dopo passai un mese con lui nella sua casa negli Stati Uniti”. “Sono già due anni, da quando ho terminato l’università, e dopo aver trascorso un anno sabatico, in giro nel Sud Africa. Poco prima di rientrare, ricevetti una proposta di lavoro, da una multinazionale, che non ho potuto rifiutare. Da allora, sono uno dei responsabili delle vendite in 5 paesi dell’Africa, ciò mi porta ad essere sempre in movimento da un luogo all’altro“. Egli non mi sembrava per niente depresso, o sull’orlo di un suicidio, come mi aveva detto la madre. Neanche voleva dei farmaci, soltanto cercava urgentemente un interlocutore. Al termine del nostro incontro, gli dissi che avrei potuto indicargli un collega nell’Africa del Sud ma a ciò reagì con fermezza. “No, io ho parlato che sono sempre in movimento da un luogo all’altro, al di là di tutto, lei mi piace. Perché non parliamo via Skype?” Fui titubante, ma accettai, dicendogli che per alcune volte avremmo potuto conversare. Quando dopo 4 o 5 sedute, portai in primo piano la possibilità di chiudere le conversazioni, egli mi disse: “non esca da lì”. Capì che con le sue parole mi diceva che adesso aveva un luogo fisso, da me rappresentato; un luogo dove si poteva rivolgere in caso di emergenza, da un certo punto di vista, un luogo di ancoraggio tra tanti spostamenti e trasferimenti nel tempo e nello spazio. Per più di 3 anni, ci siamo incontrati, una o due volte per settimana, io nel mio consultorio, egli, ogni volta in un luogo diverso, di solito degli hotels. Luoghi – o non-luoghi, conforme a quello che teorizzò Marc Augé – è stata la tematica principale delle nostre conversazioni per qualche tempo. Più che l’interpretazione nel senso classico del termine, i miei interventi puntavano su ciò che egli trovava di diverso tra le città, tra un hotel e l’altro, tra gli hotel e le case. In un determinato momento egli mi disse: “ Diamine, sarà che è per questo, per tentare di prendere possesso, che io conservo, colleziono tutte le chiavi degli hotel e tutti i miei boarding di lasciapassare?” In un altro momento, dopo avermi raccontato che il giorno prima si era svegliato tardi ed era dovuto andare all’areoporto in pigiama, cambiandosi poi nella toilette, gli dissi che un filosofo attuale aveva scritto che gli areoporti sono gli esempi dei “non luoghi”. Al che egli esclama: “Diamine, sarà per questo che sempre rimango depresso quando attraverso la dogana? Attraversandole molte volte, finisco col riconoscere un funzionario e lo saluto allegramente. Ma lui non risponde, in verità non si rende conto che già mi ha visto”.

  2. Da un lato lo sguardo che riconosce e dall’altro, lo sguardo burocratico, di quello che sta soltanto svolgendo un compito. Da quel momento, mi sono imbattuto con ciò che chiamo, adesso, “la funzione testimonianza dell’analista”. In qualche modo, ho riconosciuto quella persona come unica, nella sua singolarità, nel suo proprio nome e nella sua umanità, per così dire. La sua esistenza unica. Né ogni donna ebrea è Sarah, come voleva la più radicale delle burocrazie, la nazista. Neanche quello che passa per una dogana è soltanto un corpo da essere ispezionato, come fa la più banale delle burocrazie attuali, quella degli aereoporti. Non basta per questo che la foto del passaporto o le impronte digitali impresse in esso confermino l’identità di ognuno. Questo era il problema essenziale che mi segnalavano tanto questo giovane dei tempi di internet quanto quella signora ammalata dei tempi di Auschwitz.

  3. L’analista fornisce con il suo ascolto e la sua conversazione un luogo storico, un luogo finalizzato, dove si riconosca l’esperienza vissuta. Pertanto, non si tratta solo di una risposta interpretativa, come quella che emerge dalla topica freudiana, né una ricostruzione, come emerge dalla teoria strutturale di “Costruzioni in Analisi”. Il luogo che emerge da quello che chiamo la funzione testimonianza si avvicina di più a quello che Walter Benjamin, chiama il tempo dell’avvenimento stesso, il tempo di “Kairós”. Quello che è sempre contemporaneo e per questo proprio difficile da essere appreso. Non si tratta pertanto di scoprire ciò che è latente, né di ricostruire la trama psichica interrotta, ma di riconoscere in un nuovo registro i segni degli avvenimenti, o delle sue rovine. In una parola, tentare di dare voce, luogo e tempo per quello che “resta”, nel senso che gli dà Agamben in “Quel che resta di Auschwitz”, l’eccesso, l’indicibile di tutta l’esperienza vissuta. Come Primo Levi, fu il portavoce del musulmano, di quello che “ha visto la Gorgona”, questo sì vera testimonianza.

  4. Era per questo tipo di riconoscimento che si dirigeva la ricerca della mia analizzanda nella Società creata dalla Dr.ssa Kock. Era per questo tipo di riconoscimento che si dirigeva la ricerca del mio giovane paziente nel parlarmi dei due certificati di nascita. Quale dei due è il legittimo? Riconoscimento questo solo si può avere nell’attraversamento delle frontiere, in questo luogo intercapedine che non è né manifesto né latente, né la dissoluzione del tessuto psichico per il trauma. Benché necessiti, in qualche modo, anche di questi due per realizzarsi. La mia analizzanda ebrea-tedesca mi raccontò allegramente e orgogliosamente che sua figlia, un’artista, aveva fatto una esposizione nella quale gli oggetti esposti erano enormi pezzi di tessuto, tutti differenti, uniti in patchwork, in modo che formavano grandi ed originali bandiere. Magnifica allegoria della ricerca di una identità. E’ sempre la nuova generazione che, rivisitando i concetti classici, apprende in modo nuovo i suoi “resti”, ciò che loro portavano in potenzialità e non poteva ancora essere letto.

  5. Nel chiedermi di ascoltarlo via Skype, il mio giovane paziente mi portò a vedere che il luogo dell’analista è quello che rende l’analisi possibile, non è il suo studio, né il suo divanetto, neanche la corporeità fisica dell’uno e dell’altro, né tutta la totalità della conoscenza teorica dell’analista. Ma ancora di più la possibilità di trasferirsi dal luogo precedentemente definito e comodo delle nostre teorie per poter dare una testimonianza dell’evento che è quell’incontro, la “talking cure”. Non come un terzo, ma come un partecipante che è capace di guardare e nell’ascoltare che riconoscerà e legittimerà ogni esperienza umana. Non manca di sorprenderci il fatto di vedere con molta frequenza analisi molto ben fatte, praticate da colleghi anche inesperti, anche in formazione, e analisi molto mal fatte, praticate da grandi maestri. Così, non è l’interpretazione dei sogni quella che origina e dà una sequenza alla Psicoanalisi. Ma altresì l’ascolto vivo dell’appello del figlio al padre con il quale Freud inizia il suo classico capitolo VII, da quel libro: “Padre, tu non vedi che io sto bruciando?”. Questo appello nel risvegliarsi è la parola che resta di quello che è apparentemente morto - la teoria reificata e feticizzata-, segnalando un luogo confinante: né il sonno, né la veglia ma l’essere capace di fluttuare dentro l’uno e l’altro, il luogo e il tempo stesso del sogno, non della sua interpretazione. Non ritornare cosciente o incosciente, ma, legittimando l’espansione delle catene associative, e con esso favorire che dove era questo – il resto- sopraggiunga un tanto in più di IO.

agosto de 2013


Traduzione dal portoghese di Mario Giampà



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