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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



Edipo e i suoi fuori-pista

di Claudio Castelo Filho
Traduzione di Mara Gentile


L’analizzanda si stende e comincia a lamentarsi della sua sorte. A dispetto del fatto che abbia cinquant’anni, cerca di dimostrare in tutti i modi che sua madre è la responsabile delle sue disgrazie. Infila teorie su teorie per spiegare ciò che le è successo e che accade al momento attuale. Descrive una lunga e melodrammatica storia di quelli che sarebbero stati i rapporti di sua madre con sua nonna, quest’ultima sarebbe responsabile di episodi sofferti dalla prima, ora per noncuranza, ora per iper-protezione, senza rendersi conto della contraddittorietà delle sue teorie.

Sintetizzando: la madre e la nonna sono le colpevoli di ciò che le succede.

Dice che la madre non accusa la nonna delle disgrazie passate, che questo si deve ad una repressione intellettuale della madre, che non avrebbe mai parlato con la nonna delle gravi “disgrazie” passate a causa della sconsideratezza della nonna. Al tentativo di parlare con la madre di queste cose, la madre dice che si trattano di fatti accidentali e niente di più. L’analizzanda accusa la madre di non risolvere i suoi problemi con la nonna e questo finisce per compromettere il suo rapporto con lei (l’analizzanda), manifestandosi nella sua infelicità.

Lei non ha nessun dubbio su quello che riguarda le sue storie. Esse corrispondono, per l’analizzanda, agli stessi fatti accaduti. Le sue memorie sono i fatti; la madre e la nonna sono esattamente come lei le descrive (a dispetto delle incongruenze del racconto, come quella della nonna che è al tempo stesso noncurante e iper-protettiva).

Delicatamente cerco di dirle che potrebbe soffrire di un’intossicazione da teorie “psicologiche” e “psicanalitiche” che “spiegano” tutto ciò che le accade. Eppure, l’analizzanda ribatte indignata dicendo che non erano teorie, ma era proprio ciò che era successo e succedeva.

Al tentativo di scambiare idee con l’analizzanda, mi vedo senza spazio per sviluppare qualunque idea non corrisponda a quello che lei dice di essere la verità della sua storia e l’origine dei suoi problemi. Si difende come se qualsiasi dubbio io potessi sollevare sui suoi racconti fossero accuse che le starei facendo. Si sforza insistendo sulla realtà fattuale delle sue memorie e delle sue spiegazioni, ripetendole ossessivamente, in tono drammatico.

Dopo diversi tentativi, ciò che sembrò dare qualche frutto fu quando le dissi che quel suo modo di accusare la madre per le sorti della sua vita, quando già aveva cinquant’anni, mi sembrava fuori luogo per la sua età. Era cosa abituale per chi ha quindici, sedici anni, che frequentemente accusa i genitori per questo o quel problema, o per questo o quell’altro tipo di frustrazione che sperimentano. Anche quando si tratta di persone che hanno avuto, effettivamente, genitori orribili e malvagi, non è detto che, nel procedere delle loro vite, debbano inevitabilmente rimanere a lamentarsi dei genitori che hanno avuto e per questo rimanere impossibilitati a portare avanti le loro vite. Giravano pagina e andavano avanti. Continuare a comportarsi in quel modo, normale a quindici anni, a cinquanta, era segno che qualcosa in lei non funzionava, anche se, di fatto, i suoi genitori fossero state persone deplorevoli. Lei continua a lamentarsi della sfortuna di avere quella madre, quella nonna, il padre che, secondo lei, con la madre litigava soltanto, non sembrava che fosse qualcosa che potesse aiutarla nella vita, a quel punto. Era una diagnosi che faceva della sua situazione che non sembrava portarla da nessuna parte. La madre era colpevole, la nonna era colpevole, il padre era colpevole. E allora? Non sembrava che ne uscisse. Le propongo di considerare un altro cammino, dal momento che quello, nonostante apparentemente sembrasse risolvere la situazione trovando un colpevole, sembrava essere una strada senza uscita.

In quel momento sembra che qualcosa risuoni in lei e si apra uno spiraglio di riflessione. L’analizzanda rimane mezza imbrogliata nel discorso, dal momento che il mio sembra averle disarticolato lo schema. Lei si domanda perché si sente tanto colpevole, allora? Riconosce che ha molta paura che sua madre, che è molto anziana, possa morire, senza aver risolto la situazione con lei. E’ terrorizzata dall’idea di perdere la madre, nel caso in cui questo accadesse, crede che si sentirebbe colpevolissima per la sua morte.

Dico all’analizzanda che io l’ho vista operare dentro ad un sistema di ricerca dei colpevoli e che l’ho vista reagire a qualunque tentativo di riflessione da me propostole come se questo fosse un accusa che le stessi facendo. Dal mio punto di vista, io cercavo solo di mostrarle un altro angolo di percezione, un'altra prospettiva che potesse aiutarla ad uscire dal pantano in cui sembrava trovarsi. Tuttavia, se la dimensione in cui vive è quella in cui ha bisogno di trovare un colpevole, lei sente tutto ciò che dico come qualcosa che la vuole accusare o condannare. Così, ha bisogno di liberarsi immediatamente da quello che le propongo di considerare, che sente come un ingiustizia da parte mia e trovare un colpevole delle accuse di cui la starei imputando. Il colpevole sembra sempre essere la madre, persino delle situazioni che io osservavo accadere nello stesso consultorio, che lei ha cinquant’anni e sua madre non è presente. Le propongo che se lei opera in un sistema in cui ci sono colpevoli, che consideri almeno che io possa agire in un’altra dimensione, in cui non sto cercando un colpevole, ma sto solo cercando di presentarle un quadro di ciò che percepisco che, eventualmente, potrebbe farla riflettere ed esserle utile.

In quel momento avverto che c’è un reale cambiamento del suo stato emozionale e che finalmente può ascoltarmi senza sentirsi perseguitata.

Lei commenta che realmente vive immersa in una situazione in cui c’è sempre un colpevole. In quello stesso momento, però, di nuovo trova un colpevole per la sua condizione, che è il lavoro svolto in ambito giuridico. Dal convivere quotidiano con giudizi e condanne, ha finito per essere contaminata da quel sistema di funzionamento. Le suggerisco di invertire la sua prospettiva. Lei è una persona molto minacciata, che vive in un mondo di accuse e di colpevoli, che ha avuto bisogno di andare dietro ad un’attività che reiterasse questo nel mondo esterno, smettendo di considerare che questa è una sua situazione interna. Forse è rimasta sorpresa dal considerare che la risposta della madre, che non accusa la nonna, possa essere reale: che tanto la madre (che io non conosco, è solo un’ipotesi), quanto io, a chi la sente che sta tutto il tempo a giudicare e ad accusare, possiamo vivere in una dimensione in cui non si va a caccia di colpevoli, ma lei al contrario sì e in questo modo, vive tutto nella stessa maniera.

Con mia sorpresa, dal momento che non pensavo di essere espresso in un primo istante in una forma che le fosse accessibile, lei conferma, non solo con una laconica risposta verbale, ma anche con un’espressione emozionale che mi sembrò congruente (convergente).

L’analizzanda, un po’ ansiosa, si chiede: “Ma allora, che mi succede perché io mi senta in questo modo? Al chè le rispondo: “la cosa migliore sarebbe considerare che non sappiamo, non si sa e dunque, fare un lavoro di ricerca su quello che non sappiamo e così, eventualmente, possiamo arrivare a capire effettivamente qualcosa di chiarificante e utile. Per questo, tuttavia, abbiamo bisogno di aspettare, senza precipitare le risposte, che questo si manifesti. E’ necessario che lei ed io restiamo pazienti”.

 

Il non pensare, il pensare e il mito di Edipo

La cosa più abituale è mettere in risalto nel mito e nella tragedia di Edipo, la componente sessuale. Tuttavia, da tempo Bion ha spostato l’importanza della sessualità dal centro della questione edipica e ha individuato il nodo della questione nella capacità di pensare. La sessualità propriamente non costituisce un problema. Tanto meno l’incesto. L’incesto è derivato dalle limitazioni della capacità di pensare così come gli altri “imbrogli” che possono coinvolgere l’espressione della sessualità.

Da qui dunque, possiamo considerare che il problema di Edipo non era quello dell’incesto e della sessualità, ma del suo non poter pensare. Non potendo pensare, non può neanche pensare la sessualità, tra le altre questioni.

Il problema di Edipo era fondamentalmente la sua arroganza. Qui sottolineo che non sto considerando l’arroganza un difetto morale. Come ha ben rilevato Klein (1946), l’arroganza è manifestazione di un “meccanismo di difesa” contro l’angoscia (cominciando dalla paura di annichilimento che si manifesta ai primordi della nostra esistenza post-uterina). Il meccanismo di difesa è l’onnipotenza.

Edipo era sicuro di sapere chi era. Non aveva nessun dubbio a riguardo. Sentendo il vaticinio dell’oracolo che affermava che lui era destinato a uccidere suo padre e sposare sua madre, senza porsi alcuna domanda, senza avere dubbi o fare verifiche, si allontana da Corinto, convinto delle sue conoscenze su se stesso. Lui sa chi sono i suoi genitori e sa chi è lui. Non ha nessun dubbio su questi “eventi” e sul loro svolgimento.

Un serio problema che spesso osservo quando faccio supervisioni, è quello che hanno i supervisionati, molto ben intenzionati che hanno l’abitudine di prendere alla lettera le storie che ascoltano dai loro pazienti e le descrizioni che questi fanno dei loro genitori. Non riescono a capire che quei genitori dell’analizzando non necessariamente hanno a che fare con i genitori che realmente hanno o possono aver avuto.1

Non si accertano se quei genitori dell’analizzando possano essere come quei genitori che Edipo era convinto fossero i suoi. Sono storie raccontate dai pazienti sui miti che hanno delle loro stesse vite. I genitori dell’analizzando (salvo quando si tratta di bambini) non sono verificabili dall’analista. Anche quando si tratta di bambini e quando i genitori “reali” possono essere intervistati, sarebbe sempre sensato considerare che i genitori a cui i bambini si riferiscono durante l’analisi, non sono quelli intervistati ma quelli che loro hanno nelle loro teste. Allo stesso modo i figli di cui parlano i genitori durante le interviste sono quelli che i genitori hanno nelle loro menti, ma non necessariamente corrispondono ai bambini osservati all’occorrenza in seduta. L’analista che ascolta il bambino descritto dai genitori finisce per non riconoscere il bambino che hanno davanti a loro, che essere molto diverso da quello sul quale gli sono state date informazioni dai genitori o per mezzo di anamnesi. Freud rimase sorpreso nel verificare che il padre di Dora2 non corrispondeva effettivamente al genitore che lei di fatto aveva, il che lo portò a focalizzarsi sull’importanza della realtà psichica.

L’analista avrebbe bisogno di considerare che tutto ciò che gli dice l’analizzando sulla sua vita fuori dal consultorio è solamente questo: ciò che egli racconta. Ciò che l’analista può realmente verificare è ciò che si presenta davanti a lui durante il suo consultorio. In caso contrario, comincerà a interagire con l’analizzando e con quello che egli crede che siano i fatti, rimanendo imbrigliato in uno stato di allucinazione 3(come sarebbe accaduto a Jocasta).

Un modo per aiutare l’analizzando, sarebbe quello di permettergli di avere una chance che Edipo non ebbe, che sarebbe quella di poter dubitare delle proprie convinzioni.

Torniamo al mito.

Convinto di sapere chi è, Edipo va incontro al mondo. Lui sa che è destinato ad uccidere il padre e a sposarsi con la madre. Eppure, poco dopo essersi allontanato, si imbatte ad un bivio in un uomo più vecchio ed il suo seguito. Punto nel suo onore (nella sua arroganza e nella sua onnipotenza) su una questione di diritto di precedenza – chi passa per primo all’incrocio (in questo senso padre e figlio si muovono sulla stessa frequenza mentale, non essendoci uno con più capacità mentale dell’altro, ciò porterà alla tragedia) – si lancia contro lo sfidante e uccide non solo lui ma anche tutto il suo seguito.

Seguendo il suo (fuori) pista, Edipo si imbatte, davanti alle porte di Tebe, nella sfinge. Questa gli propone l’enigma: deciframi o ti divoro! Edipo da una risposta all’enigma. La sfinge si distrugge.

Ma la risposta data all’enigma corrisponde alla verità sollecitata? La sfinge era un mostro assetato di risposte. Ma questa aveva veramente interesse per la verità? O gli bastava solo una risposta? Avendola ottenuta, non aveva più ragione di esistere4.

Così come sottolinea Bion, citando Maurice Blanchot nei suoi seminari a Tavistock, la réponse est le malheur de la question!5. La risposta è la sventura della domanda.

Edipo diede una risposta e si convinse di avere la conoscenza6. Non considerò che potesse solo aver prodotto una risposta, plausibile, ma che quella non potesse essere la verità cercata, questo non lo pensò.

I nostri analizzandi vanno in cerca di risposte e soluzioni ad enigmi. Quanto grave deve essere la nostra situazione se anche noi ci comportiamo come Edipo: convinti di dover produrre spiegazioni e soluzione a problemi. Ci troviamo di fronte a persone che ci mettono nella condizione di doverle liberarle dai flagelli e dai mali che le affliggono. Così come Edipo, andremmo dietro alle interpretazioni degli enigmi per liberare Tebe dal mostro che la terrorizza. Così come Edipo, pensando che così staremmo procedendo sulla strada del successo, ci ritroveremmo invischiati in errori e mali ancora più grandi, reiterando uno stato di onnipotenza mentale e falsità (così come fu per Tebe).

Edipo lasciò la sfinge pensando di essere molto saggio – eppure si trovava così lontano dalla saggezza.

Noi, come analisti, abbiamo la tendenza a pensare di poter dare risposte e spiegazioni in grado di risolvere le vite dei nostri analizzandi. Conosciamo molte teorie e, in questo modo, possiamo avere l’illusione di avere risposte per tutte le domande che ci assillano.

Così come Edipo, possiamo rimanere immersi in un sistema morale che cerca colpevoli per dare soluzione a sofferenze.

Ritengo che trarremmo maggior beneficio per i nostri pazienti e per noi stessi, se acquisissimo maggior capacità di sopportare dubbi e privazioni. Questa potrebbe evolversi se potessimo suggerire, a chi si rivolge a noi, la possibilità di riflettere su quello che siamo chiamati a risolvere, fino al punto di ri-considerare se il problema enunciato è reale. Frequentemente non lo è. Il maggior guadagno verrebbe dallo sviluppo della capacità di tollerare l’assenza di risposte e non di poterle dare o avere. Edipo aveva risposte per tutto, eppure non riusciva a vedere al di là del suo naso.

Annientato il mostro, egli viene accolto in trionfo a Tebe. Come premio gli spetta sposare la regina della città che, per un caso, era divenuta da poco vedova, dopo l’assassinio del marito.

Ora, davanti agli occhi di Edipo c’erano tutti gli elementi: una vedova che aveva la stessa età che poteva avere sua madre, suo marito ucciso per mano di un assassino. Lui stesso, poco tempo prima, aveva ucciso un uomo e il suo seguito. Tutto era lampante. Nonostante questo, mancava che potesse vedere ciò che era visibile. Il problema non era quello di trovare qualcosa di rimosso e di inconscio, ma percepire ciò che era evidente, eppure non notato; era pensare il mai pensato o l’impensabile.

Preso dalla sua arroganza, Edipo non riconosce nulla di ciò che era ovvio.

Gli psicanalisti molte volte sono presi dall’ansia di capire o spiegare gli enigmi che gli sono proposti nelle storie che gli vengono raccontate, come l’enigma della sfinge – e non scorgono ciò che hanno davanti agli occhi, che si svolgono durante i loro stessi consultori.

Anche Giocasta sapeva di essere destinata a sposarsi con suo figlio. Eppure, lei crede in quello che gli avevano raccontato (che il figlio era morto). Anche lei ha davanti a se tutte le cose evidenti, ma non vede nulla. Il giovane con cui si sta per sposare potrebbe essere suo figlio. Come presi da uno stato di allucinazione, entrambi vanno avanti.7

L’analista nel credere in quello che gli racconta il paziente, e nel tentare di lavorare con questi racconti o con quanto gli è mostrato e non con quello che effettivamente osserva, rimane così invischiato in questo stato di credenza in ciò che ascolta, da non riuscire a percepire più ciò che ha davanti.

Un analizzando racconta che è vittima della crudeltà del suo capo e dei suoi colleghi. Nonostante questo, posso verificare nel suo comportamento con me, che non trovo mai riscontro quando tento di dirgli qualcosa che penso potrebbe essergli utile. Si sente così perseguitato e sulla difensiva che sente tutto ciò che cerco di comunicargli come un’accusa. Posso proporgli, verificando questo nella mia esperienza con lui, che consideri quanto possa essere difficile la convivenza dei suoi colleghi e superiori con lui. Dopo un po’ di tempo passato con chi reagisce sempre come vittima a tutto quello che gli è detto o gli viene proposto di considerare, le persone devono davvero perdere la pazienza e finiscono con l’odiarlo, come reazione al suo comportamento non come qualcosa a priori. Io, come analista, posso osservare ciò che avviene nel relazionarsi a me, e , avendo condizioni emozionali tali da vivere questa situazione senza rimanere coinvolto da questa, ho l’opportunità di presentargli un diverso quadro della situazione che vive. Questo potrebbe dargli da pensare ( ciò che non gli permette il vedersi come vittima). Nel caso verificasse ciò che gli mostro, potremmo proseguire la nostra ricerca, indagando su cosa succede che lo porta a sentire tutto in quel modo (che lo fa sentire attaccato, anche quando non è il caso).

Il desiderio di vedersi libero da un’angoscia e il barlume di una sua sostituzione con una gioia consequenziale, offuscò le fragili menti di Edipo e Giocasta. Non ci fu spazio per nessuna possibile frustrazione e dubbio. Il sollievo sembra proprio essere lì, afferriamolo immediatamente, senza più pensarci. Una è vedova e abbandonata in una terra devastata da una creatura mostruosa. L’altro, un giovane esiliato e vagabondo, che si vede con una nobile sposa e un regno ai suoi piedi. Chi potrebbe volere di più? Solo chi non fosse preso dall’ebbrezza del momento e potesse vedere non solo ciò che loro mostrano, ma anche qualcosa al di là di quello. Se siamo avidi di cogliere il sollievo, la soluzione – difficilmente potremmo pensare. Proporre uno spazio di riflessione prima di immergerci nei piaceri della cura e delle risposte, sembra essere qualcosa di crudele. Tuttavia, può essere proprio ciò che giustamente evita le tragedie legate all’impossibilità di pensare.

La sessualità entra in questo campo. Se un individuo può pensare, lo farà in relazione a tutto ciò che arriva fino a lui, sia che venga dall’esterno o da dentro la sua persona. Se non può pensare, quasi sicuramente farà di tutto per avere a che fare con la realtà che pensa esista e non con quella che di fatto è lì per essere considerata.

L’analizzando si lamenta per il fatto che mi racconta una serie di problemi e si infuria perché io non lo aiuto. Io gli dico che ritenevo che il suo problema fosse esattamente quello di esigere da me che pensassi per lui e che gli dessi le risposte che voleva sentire. Consideravo, però, da un punto di vista, che dargli risposte e dirgli come risolvere i suoi problemi sarebbe stato esattamente ciò che gli avrebbe impedito di sviluppare la sua capacità di risolvere i suoi problemi. Per di più, anche se gli avessi potuto indicare la soluzione a problemi che io non conosco veramente, chi garantisce che possano essere quelle le soluzioni adeguate? Ciò che può essere buono per me, potrebbe essere pessimo per un’altra persona. Come potrei sapere ciò che è meglio per lui? Io potrei tentare di aiutarlo a sviluppare le sue facoltà mentali, la sua capacità di pensare, in modo che egli possa arrivare ad una decisione che sia conforme ai suoi interessi, assumendosene la responsabilità. Se io dessi la risposta, lo starei privando esattamente di ciò di cui ha bisogno: tollerare i dubbi, l’angoscia, e sperare che le idee possano svilupparsi nella sua mente, impiegando il tempo necessario per far questo. Il non sopportare di rimanere senza risposte e spingere perché qualcun altro lo faccia, era questo il suo reale problema, non quelli che mi diceva che fossero. Qui, ancora una volta, soltanto sotto un altro aspetto, si pone la situazione di Edipo e della sfinge.

Sofocle inizia la sua tragedia con il regno di Edipo. Finisce con Edipo, che pensava di sapere tutto, che si rende conto della sua prepotenza e della sua ignoranza. Dalla presunzione (onnipotenza) si arriva all’umiltà necessaria alla comprensione delle esperienze di vita. Tutta la nostra esperienza è sempre precaria e transitoria, in attesa di nuove esperienze che possano riconfigurare tutto ciò che percepiamo.

Se, tuttavia, il vertice nell’indagine fosse quello di un’autorità morale in cerca di un colpevole, questa tenderà ad essere occultata, visto che il risultato sarà probabilmente, non l’umiltà necessaria, ma la distruzione e auto-distruzione, come quella di Edipo che letteralmente si strappa gli occhi, Giocasta che si impicca e i figli dilaniati dal dolore.

Lo stesso dramma si ripete anche in Antigone, in cui avviene una lotta per la supremazia tra divergenti autorità morali (tra la nipote e lo zio), che impedisce il sorgere di un insight e annienta i suoi antagonisti.

In psicanalisi, ciò che importa non è quello che pensiamo di sapere, ma quello che ignoriamo del tutto. Il vertice deve essere quello dell’ignoto, per non trovarci come Edipo, accecati da quelli che crediamo siano i fatti o con le nostre capacità annientate come la sfinge, perché crediamo di avere le risposte e le spiegazioni agli enigmi che ci si presentano.

 

Sintesi

Un’analizzanda di mezza età incolpa i suoi genitori della sua infelicità. L’analista dovrebbe occuparsi degli eventi che questa dice siano reali, seppure non verificabili, rimanendo invischiato nelle sue storie. Lei risolve la sua vita trovando un colpevole ai suoi mali. La soluzione non trasforma la sua infelicità. L’autore ricorre d Edipo e propone che il suo reale problema fosse quello dell’incapacità di pensare. Onnisciente come l’analizzanda, confonde ciò che sa di se con i fatti reali. Certo di chi è e di cosa è, agisce e questo lo porterà alla sua tragedia. Ha le risposte, ma non ha la saggezza. E’ un’autorità morale (un re) che trova colpevoli, questo è ciò che gli impedisce di vedere ciò che gli sta davanti. L’analista non dovrebbe considerare i problemi che gli sono proposti, ma quelli che osserva a contatto con l’analizzando. Per non cadere negli equivoci di Edipo, deve rifiutare la funzione di autorità morale e focalizzarsi su ciò che non sa, che ignora.

Summary

An analysand in her fifties says her parents are guilty of her unhappiness. The analyst, according to her, should concern himself with what she says were and are real facts, though he cannot verify their actuality in the office, getting involved in her stories. She finds a solution for her troubles and her life accusing her parents of being responsible for her misfortune. However, the solution does not change her unhappiness. Following Oedipus steps, the author proposes that his real problem is his incapacity to think. Omniscient as the analysand he confuses what he knows with the ultimate reality of the facts. Without any doubt about who or what he is, he acts, what leads him to his tragedy. He knows the answers, but is not wise. He is a moral authority (a king) in search of a culprit, what impedes him to see what is right in front of his eyes. The analyst should not get involved with the problems that he is told to consider, but he must pay attention to the ones that he can observe in his relationship with the analysand. In order not to fall in Oedipus errors, he must avoid the function of moral authority and focus his attention in what he does not know, in the unknown.

 

Parole chiave

Edipo, allucinazione, colpa, pensare, sconosciuto.

 

Key words

Oedipus, hallucinosis, guilt, to think, unknown

 

Riferimenti bibliografici

Freud, S. (1905[1901]) Fragmentos da análise de um caso de histeria. In: Obras Completas. Edição Standard, v. 7, Rio de Janeiro, Imago, 1972.

Bion, W.R. (1965) Transformations. In: Seven Servants. Four Works by Wilfred R. Bion. New York, J. Aronson, 1977.

Klein, M. (1946) Notes on some schizoid mechanisms. In: Envy and gratitude and other works. London, Hogarth, 1980, p. 1-24.

Sophocles (496-406 a.C) Oedipus the king. In: The Complete plays of Sophocles. New York, Batam Books, 1967

Sophocles (496-406 a.C) Oedipus at Colonus. In: The Complete plays of Sophocles. New York, Batam Books, 1967

Sophocles (496-406 a.C) Antigone. In: The Complete plays of Sophocles. New York, Batam Books, 1967

 

Claudio Castelo Filho

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Note:

1 Spesso ascolto pareri di professionisti, di questo tipo: “Ma certo, con una madre così! Non poteva non aver problemi! Povero paziente!” Il racconto del cliente è preso alla lettera. Il risultato, nonostante porti ad individuare un colpevole, è una strada senza uscita.

2 Freud, S. (1905).

3 Bion, 1965

4 Si veda Bion in Cogitations, p 275-278.

5 The Tavistock Seminars, p. 8 e si veda anche il prologo di Elements of Psychoanalysis.

6Questo stato di convinzione e di superiorità morale (i colpevoli sono gli altri) sarebbe caratteristico delle trasformazioni nell’allucinazione (si veda Bion in Trasformations, 1965)

7 Si può dire che la pre-concezione edipica e non la concezione o il concetto edipico, è attaccata e distrutta. In questo modo, non disponendo della pre-concezione, Edipo e Giocasta nel ritrovarsi in eventi che potrebbero portare ad una realizzazione della pre-concezione, non vivono la realizzazione e tanto meno raggiungono la concezione o il concetto edipico.


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