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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi in America Latina



Da “K” a “O” e ritorno
Revisione “liberamente fluttuante” della proposta bioniana dalla prospettiva del “Brahman” e del “Logos”

di Chiara Berlinzani Deharo*


 

PREAMBOLO

ANDATA E RITORNO VERSO UN NUOVO PUNTO DI PARTENZA

“Anche i pensieri cadono talvolta immaturi dall’albero...”
(Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, 1937)


Cimentandoci nella lettura di Bion, ci ha immediatamente colpiti la straordinaria analogia che ci è parso di cogliere tra certi aspetti della sua proposta teorica e alcuni concetti metafisici premoderni (potremmo quasi dire “preclassici”), appartenenti al patrimonio universale dell’umanità. Ci riferiamo, da un lato, ai concetti che procedono dalla cosmovisione e dalle pratiche spirituali orientali (specialmente induiste e buddiste) e, dall’altro, ad alcuni canoni del pensiero presocratico greco (essenzialmente le supposizioni eraclitee, successivamente confluite nelle teorie di filosofi moderni e postmoderni quali Schopenhauer, Nietzsche, Wittgenstein, Deleuze e altri).

E tuttavia, per non “contaminare” eccessivamente il campo con pseudoconoscenze pregresse e avvicinarci invece a Bion più bionianamente, ovvero “senza pensieri già pensati”, non abbiamo voluto approfondire né verificare previamente quelle supposte convergenze – che tuttavia hanno continuato insistentemente ad aleggiare intorno alle nostre menti, “fluttuando liberamente” tra i nostri tentativi di comprensione (sempre in fieri…) del modello bioniano.

“Mai scoprirai nuovi oceani finché avrai paura di allontanarti dalla costa.”
(Marina Müller, Descubrir el camino, 2004)


All’ora di approfondire, è stato inevitabile lasciarsi condurre dall’urgenza che, vincendo la nostra già tanto sfibrata opposizione, si è imposta alla nostra disposizione d’attesa, infiltrandola ripetutamente d’incursioni insolenti e indisciplinate che, grazie all’inter-tempo dinamico e precosciente dell’elaborazione, hanno finito per trasformarsi in intuizioni “selvagge”.

Ci siamo “lasciati trasportare” – letteralmente – da quelle intuizioni erranti senza nessuna intenzione predeterminata e senza nessuna esigenza di strutturazione cartesiana, aperti all’esplorazione di un territorio che ci si annunciava decisamente più sconosciuto e destabilizzante di quello che ci saremmo aspettati…

Ci siamo quindi collocati “nella dispersione” con una disposizione d’attesa disciplinata, osservando se, da questa “penombra di associazioni”, la comparsa di qualche pensiero “non addomesticato” ci avrebbe permesso di generare un campo al quale, successivamente, provare ad attribuire un qualche senso.

Quando ci è sembrato che in qualche modo fossimo riusciti a offrire sufficiente spazio, forma e voce all’amorfo che dal suo luogo non identificato premeva per uscire, per organizzarsi e convertirsi da ß in α, allora abbiamo iniziato a ordinare le idee in un discorso più articolato – benché sempre, intrinsecamente, provvisorio. E all’improvviso ci è sembrato che le nostre premesse, da confuse e informi che erano, avessero incontrovertibilmente acquisito una nuova chiarezza e consistenza.

Le sottili interferenze che ci erano sembrate abitare alcuni concetti bionani (come quelli di “senza memoria e senza desiderio”, di “oscillazioni Ps<—>D”, di “terrore senza nome”, di “cambiamento catastrofico”, di “rêverie”, di “atto di fede”, tra gli altri) ci rinviavano più chiaramente ora alla matrice precristiana del pensiero umanista, prodotto di un’epoca in cui quasi simultaneamente si diffondevano nel mondo conosciuto le idee presocratiche e le metafisiche asiatiche di matrice buddista e induista.

Dopo questo tentativo di esplorazione da un “atteggiamento di non-vertice”, in un crescendo estatico di furor creandi, abbiamo deciso di verificare – quasi en passant – l’esistenza di un’eventuale bibliografia su ciò che ci era parso il “nostro” oggetto di studio esclusivo.

“Quello dell’origine è un processo complesso e diacronico,
è la fonte dalla quale sorge o che si trova in genesi perpetua
e che non smette mai di originarsi.”
(Salvatore Agresta, 2005)

 

Eabbiamo scoperto che non eravamo né gli unici, né ancor meno i primi ad aver pensato quei pensieri che ci illudevamo – tanto ingenuamente e presuntuosamente – di avere bionianamente “incontrato”…

Ciò che segue è dunque il risultato di un viaggio di andata e ritorno verso (e da) quello spazio interstiziale e terrificante che, pur tanto confusamente, configura la frontiera tra il presumibilmente conosciuto e il totalmente inesplorato: una “barriera di contatto” che consente l’incontro e lo scontro con i pensieri in attesa di un pensatore – e le sue infinite, tormentate riformulazioni.

Proprio in virtù di questa sua particolare genesi, il presente lavoro (lungi dal voler dissimulare le sue limitazioni intrinseche) non nutre altra ambizione se non quella di illustrare come un’intuizione dispersa, ma con aspirazioni entusiasticamente esplorative, abbia terminato per iscriversi in un ambito di ricerche che ignorava, che la precedono e che alla fine la trascendono.

Non smetteremo mai di esplorare.

E alla fine di tutto il nostro andare

ritorneremo al punto di partenza

per conoscerlo per la prima volta.

(T.S. Eliot 1943)

Avvertenza

Per esigenze di brevità, daremo per scontata la conoscenza sia dei principali concetti bioniani che dei riferimenti filosofici e teologici utilizzati in questa sintetica esposizione.

Per ragioni analoghe, ci riserviamo di illustrare più esaustivamente in una futura opportunità i riferimenti presocratici, qui solo accennati.

1. IL “MISTICISMO SCIENTIFICO” DI BION

Secondo un’antichissima descrizione buddista della metempsicosi, una volta che il nuovo essere si è reincarnato nell’utero della futura madre, ogni pur minima trasformazione del suo corpicino embrionale produce in lui terribili sofferenze. Quando le sue membra premono per uscire dall’indifferenziazione “pandermica”, le sue ossa si stirano, o il suo cuoricino inizia a battere, il dolore diventa talmente intollerabile che, al momento della nascita, è necessario che una potente amnesia elimini il ricordo di questa proto-esperienza intrauterina: se così non fosse, il grado di turbamento prodotto risulterebbe drammaticamente incompatibile con la sopravvivenza.

Secondo la citata figura della tradizione buddista (che alle menti orientate psicoanaliticamente non può non evocare l’economia del funzionamento psichico postulata da Freud, così come la sua idea della necessità di una – in qualche misura oscura – “rimozione primaria” del trauma della nascita), e alla luce delle proposte freudiana e bioniana, ogni minuscola modifica dello statu quo somatopsichico avrebbe il potere di dissolvere “catastroficamente” l’omeostasi interiore, senza peraltro apportare nessunissima garanzia di accesso al successivo stadio evolutivo1.

Abbiamo scelto quest’immagine non soltanto per la sua suggestiva plasticità, ma anche per la sua appartenenza a quella stessa cultura asiatica che doveva infiltrare capillarmente il proto-psichismo dell’anglo-indiano Wilfred Bion, immerso fin dalla nascita nella metafisica filosofico-religiosa di matrice indù.

“Ciò che il bruco considera la fine del mondo il maestro lo nomina farfalla”
(Aforisma buddista di area Zen)

 

Le radici culturali primordiali di quel pensiero millenario dovevano infiltrare tacitamente le profondità dell’inconscio di Bion, come orme di un antichissimo imprinting confluito nelle sue speculazioni successive.

Riferisce Parthenope Bion che in suo padre “esisteva sicuramente un livello, una stratificazione di conoscenza di un idioma indoeuropeo che era diventato completamente inconscio”.2 In effetti, Bion era nato nell’antica Muttra, città sacra dell’India – una regione del mondo nella quale si crede che la “vera conoscenza” non possa essere inferita attraverso processi razionali, poiché la ragione fuorvia e satura ogni possibilità di conoscenza.

Secondo le tradizioni induiste e buddiste, possiamo accostarci alla “realtà vera” solo sospendendo l’ordinaria disposizione di attenzione agli stimoli e ai sensi, per immergerci in una dimensione meditativa e contemplativa della mente molto più simile allo stato onirico.

Contrariamente all’Oriente – e salvo rare eccezioni (tra le quali possiamo senz’altro includere il fondatore della psicoanalisi) – l’Occidente ha ignorato o sottostimato questa potenza euristica della dimensione onirica, anteponendole lo stato di veglia.

 

“Le idee non sono di nessuno.
Se ne vanno svolazzando
di qua e di là,
come gli angeli”
(Gabriel García Márquez, Del amor y otros demonios, 1994)

 

È possibile invece evidenziare come, tanto nella concezione indiana come in quella greca antica, il mondo fenomenico si caratterizza per la sua “irrealtà trascendente”.

Nell’ottica orientale, gli organi di senso – principali supporti della percezione del reale nella prospettiva occidentale – sono considerati come fonti di errore e “illusione cosmica”, come sintetizzò Schopenhauer attraverso il concetto sanscrito di “M?y?” (straordinariamente concorde con la teoria platonica della natura illusoria della realtà fenomenologica, più conosciuta come il “mito della caverna”...).3

La “realtà vera”, secondo le metafisiche indù e presocratica, si situa oltre le percezioni ingannatrici dell’Io ed è accessibile soltanto attraverso l’intuizione e la contemplazione: due stati della mente che permettono l’esperienza immediata del “Brahman”4 (in ambito indù) o del “Logos”5 (nella concezione presocratica). Questa “esperienza immediata del Brahman”, tanto familiare ai mistici di ogni tempo e cultura, è ciò che gli yogin sperimentano praticando la meditazione: uno stato di coscienza senza pensieri, di “presenza sostanziale”, d’immanenza vigile, di permanenza nella “vacuità”.

“Essere qui e adesso, senza annichilire la mente né lasciarla sfrenatamente andare, ma essere acutamente coscienti di ciò che è” (Chögyam Trungpa 1968).

In un lavoro del 1997, gli italiani Giampà e Fiorespino citano il maestro di meditazione orientale Krishnamurti, contemporaneo di Bion, che nel suo Diario, scrive:

“La vera natura del pensiero è frammentaria, e pertanto questo vive in un mondo frammentario, di divisione e conflitto. La conoscenza anche è frammentaria, e seppure possa andare accumulandosi, strato su strato, continua a rimanere frammentaria, frammentata. Il pensiero può raggiungere una cosa chiamata integrità, che tuttavia continua ad essere un frammento. […] La meditazione è lo svuotamento del contenuto della coscienza. […] Quando avrai raggiunto questo senso della totalità, allora potrai entrare in contatto con l’universo...”6

In termini più psicoanalitici, questa dilatazione a-sensoriale della coscienza potrebbe definirsi, con Meltzer, come una “visione binoculare che rende possibile un vertice simultaneamente conscio e inconscio”,7 in quella “sospensione di memoria, desiderio e comprensione” che Bion considerava fondamentale nella pratica analitica, poiché genera quello stato mentale insaturo, simile al sogno, che permette di avvicinarsi per istanti a “O”.8 Sulla stessa linea, l’orientalista italiana Grazia Marchianò scrive:

“Riteniamo che quando Bion dice che il pensiero non ha bisogno di nessuno che lo pensi, esprima in sé quella parte della cultura indiana che ricerca il perfetto raccoglimento e l'in-centramento dell’attenzione (sam?dhi)”.

Per poter sperimentare “O”, o arrivare a “essere Brahman” – sostiene lo psicoanalista italiano Mario Giampà in Pensare il tempo con Bion (2007) – “bisogna eliminare o diminuire l’attenzione, l’annotazione, la conservazione dei risultati dell’attenzione, lo sviluppo del pensiero verbale”. Allenando la mente a una “disciplinata negazione della memoria e del desiderio”, sia per gli psicoanalisti che per gli asceti è possibile raggiungere “l’esperienza di essere in O”, di “divenire O”: permanendo “in un ‘tempo mentale’ che forse Bion considerava di origine acquatica (to my fish-like origin)”.

Si domanda molto suggestivamente Giampà: “Divenire ‘O’ è anche ascoltare echi dei messaggi inviati dalle nostre branchie alla nostra mente cosciente?”9

 

“Anche l’uomo più ragionevole
ha bisogno, di tempo in tempo,
di un ritorno alla natura,
cioè alla sua illogica posizione fondamentale verso tutte le cose.”
(Friedrich Wilhelm Nietzsche, Umano, troppo umano, 1878)


Secondo quest’autore, “O” corrisponderebbe a ciò che il maestro buddista Sankara (VIII secolo d.C.) definiva “il quarto stato” della coscienza, quello che segue il sonno profondo:

“Lo stadio della memoria del vuoto della scena mentale constatato in quel momento; si potrebbe definire come un sonno lucido, vale a dire come assenza di rappresentazioni”.

Analogamente, sottolinea Giampà, la dream-like memory corrisponderebbe a quello che Sankara definisce “esperienza vigile intera”: uno stato in cui, in accordo con il filosofo presocratico Parmenide, coesistono passato, presente e futuro…

Come enfatizza la psicoterapeuta junghiana Virginia Salles (2003), nella cultura occidentale questi “stati non ordinari di coscienza” suscitano diffidenza e rifiuto, poiché facilitano l’irruzione degli aspetti “irrazionali” e pertanto “incontrollabili” della mente.

Non sorprende dunque, con Zimerman (2004), che la proposta bioniana “no memory, no desire, no comprehension” sia stata “la più discussa e discutibile dell’establishment psicoanalitico”.

Tuttavia, quest’atteggiamento di distacco – così profondamente estraneo alla tradizione filosofica occidentale – è stato oggetto nell’ultima decade di numerose ricerche neurofisiologiche che hanno dimostrato come, nello stato di sam?dhi (quell’“estasi” che, secondo la tradizione mistica indù, permette di raggiungere l’identificazione dell’anima con il Brahaman), la privazione sensoriale, selettiva o totale (implicita nel concetto di ?uny?t?, “vacuità”, del buddismo tibetano Mah?y?na), può permettere l’“uscita dal tempo psicologico”, liberando così “infinite memorie emotive personali e/o collettive” attraverso l’annullamento dello spazio circostante.10

Analogamente (citando un altro recente studio italiano), venti secoli dopo la composizione della Bhagavad gita, il neurologo e premio Nobel Gerald Edelman afferma:

“Nella modalità del pensiero puro, l’individuo è così immerso in un particolare stato di concentrazione, inerente al progetto di pensiero in corso, da risultare ‘astratto’ – inconsapevole del tempo, dello spazio, di sé e della propria esperienza percettiva. Si può dire che, quando persegue questi livelli di astrazione e di significato, ‘il pensiero non è in alcun luogo’; ma questa è soltanto una metafora per esprimere il grado di allontanamento dell’individuo dalla consapevolezza di altre, parallele, attività della mente…”11

Il conseguimento di uno stato così acutamente recettivo può “trasformare l’esperienza mistica in un’esperienza cognitiva che opera a livelli di conoscenza insoliti” (Franco Filho 2007).12

Come fa notare Ancona (1999), si tratta di superare la cultura positivista per accedere ad una “conoscenza pluridimensionale” dove “scompare la distinzione fra oggetto osservato e

osservatore, dove il percipiente modifica il percepito e viceversa”. È precisamente in questo contesto che s’inscrive la “mistica laica” di Bion, del tutto “corrispondente a quella dell’estasi religiosa”. In entrambi i casi, conclude Ancona, “si richiede ‘un atto di Fede’: scientifica nel lavoro psicoanalitico, religiosa nel campo del sacro”.13

È sostanzialmente con la scoperta e l’uso della disciplina dell’“atto di Fede” – in questo raggiungimento di uno stato mentale nel quale l’esperienza di “O” diventa possibile e apre le porte a un’espansione del pensiero che ammette continue riformulazioni – che, come sostengono Giampà e Fiorespino (1997), “Bion inventa una nuova psicoanalisi”.14

 

2. DA UN ALTRO VERTICE:

IL DOLORE DI PENSARE IL DOLORE DEL MONDO

“Tutte le teorie sono legittime e nessuna ha importanza.
Ciò che importa è quello che si fa con esse.”
(Jorge Luis Borges)

 

L’idea iniziale di un dolore implicito nel mondo, di una sofferenza consustanziale alla vita e intrinsecamente embricata in ogni metamorfosi, non affonda le sue radici soltanto nella cosmovisione di matrice buddista ma abita anche il pensiero greco antico, substrato profondo della cultura occidentale.15

Come affermava il “pessimista” Schopenhauer (un filosofo affascinato dalla tradizione asiatica e presocratica) “la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra la noia e il dolore, con intervalli fugaci e illusori di piacere e gioia”.

Si potrebbe addirittura affermare che tutta la lezione del Novecento (con la sua concezione postmoderna di un mondo non più organizzato secondo una modalità teleologica e quindi ineluttabilmente infiltrato dal dolore16) contiene sia la nozione eraclitea di panta rei (“tutto scorre”) che le “Quattro Nobili Verità”17 del buddismo tibetano Mah?y?na.

E se le speculazioni di Bion hanno molto a che vedere con questa problematica nucleare della filosofia del XX secolo, così come con la ridefinizione del concetto di “razionalità” (rivisitato alla luce degli sviluppi della matematica e della logica), non sottovalutano nemmeno l’enorme portata epistemologica delle formulazioni mistiche asiatiche.

In quanto pensatore non sistematico, “insaturo”, dotato d’intuizioni vertiginose, Bion discerne l’incongruità della conoscenza rispetto alla trascendenza della Verità (Vegetti Finzi, 1987): convinto dell’insufficienza del modo ordinario di pensare, propone un nuovo tipo di logica.

Nella sua rigorosa riformulazione dell’epistemologia psicoanalitica, procede dunque alla progressiva erosione del paradigma metapsicologico classico, rielaborando in modo esponenziale ciò che quest’ultimo conteneva d’implicito.

“Ogni divenire, ogni crescere, implica in se stesso il dolore.”
(Friedrick Wilhelm Nietzsche, Il crepuscolo degli dei, 1889)

 

In questo senso, Bion opera una revisione radicale del concetto freudiano di “pensiero”, considerato dalla psicoanalisi classica come il mezzo per proteggere l’apparato psichico dalle inondazioni sensoriali e ricostituire l’omeostasi precedente all’irruzione dello stimolo perturbatore interno o esterno.

Dal punto di vista che stiamo esplorando, questo concetto freudiano rinviava a una necessità metafisica di ordinare il Caos primigenio (nella sua connotazione tanto ontologica quanto filogenetica) e par là même rendere praticabile l’universo.

Seguendo questa stessa linea di riflessione, il dolore caratterizzerebbe e accompagnerebbe ogni frattura dello statu quo – nelle cui brecce s’infiltrerebbero la disorganizzazione, la perdita di senso, il vuoto terrorizzante, la tentazione tanatica, la minaccia psicotica…

Da parte sua, parafrasando Franco Filho (2007), Bion ritiene che l’elemento fenomenologico che approssima l’esperienza psicoanalitica all’esperienza mistica è precisamente questa turbolenza che si manifesta con sensazioni di annichilimento, panico, frammentazione.

Nel confronto con se stessa e con “O”, la mente umana collassa inondandosi d’innominabile terrore, posto che l’incontro con “O” non avviene nell’armonia del Nirv?na18 ma piuttosto attraverso una “catastrofica” esperienza di “fine del mondo”.

In quest’area di contatto con “O”, con la Verità, si innescano processi molto attigui all’esperienza della psicosi, con il prodursi di spirali di sensazioni che trascinano il Sé verso il vuoto, la vertigine, l’informe e l’ignoto…

“Come matrici arcaiche della funzione alfa, gli elementi beta, rudimentali precursori del contenuto mentale alla ricerca di un contenitore trasformativo: un’esperienza simbolica uditiva e ritmica incominciata già durante la vita intrauterina (Meltzer-Harris 1999) e come tale possibile origine sia della psicosi che della mistica”(Ancona 1999).

E tuttavia, attraverso questa stessa fessura ontologica può filtrare quello che Freud chiamava il “sentimento oceanico”, Jung la “esperienza del sacro”, gli indù la “intuizione immediata del Brahman”, Eraclito la “coscienza del Logos” – e Bion “integrazione”, “trasformazione in K”, “divenire O”…

“Nel momento in cui affermi, stai domandando ancora.”
(Maurice Blanchot, L'Attente, l'Oubli, 1961)

Accogliendo la proposta freudiana di considerare il “sentimento oceanico” come apoteosi dell’esperienza mistica si potrebbe affermare, con Gerder (1999) che, creando l’espressione “senza memoria, senza desiderio”, Bion spinse alle estreme conseguenze la nozione freudiana di “attenzione fluttuante”. (A questo proposito è utile ricordare, con Franco Filho 2007, la raccomandazione espressa dallo stesso Freud in una lettera a Lou Andreas-Salomé: “Ci dobbiamo accecare artificialmente fino a intravedere una fiaccola di luce nell’oscurità”).

“Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume,
noi stessi siamo e non siamo.”
(Eraclito da Efeso, Frammento 49a)

 

Precisa Parthenope Bion (Bion Talamo 1996): “L’esperienza di affrontare questa tenebra interiore e caos, per dirla molto brevemente, è esattamente ciò che Bion intende con l’idea di contemplazione della posizione schizo-paranoide, senza memoria, desiderio di comprensione immediata”.

Come non coincidere dunque con Giampà (1997) quando afferma che tanto il “no memory…” quanto il concetto di “rêverie” sono infiltrati di orientalismo?19

D’altra parte, è precisamente in quest’oscillazione Ps<—>D tra stati di dispersione e d’integrazione, Essere e Non-Essere, Eros e Thanatos, vita e morte, Ying e Yang, Sams?ra e Nirv?na che si situa quello stesso “Divenire” considerato da Eraclito come un archetipo universale: il perpetuo cambiamento, un Essere in movimento che si trasforma e si rigenera in continua mutazione.20

“Sono le parole più silenziose quelle che portano tempesta.”
(Friedrich Wilhelm Nietzsche, Così parlò Zaratustra, 1883-1885)

 

Tanto nel modello bioniano quanto nel panta rei eracliteo gli opposti non si contraddicono ma formano un’unità dinamica regolata dal Logos (funzione α). Ma c’è di più: nella concezione eraclitea, la trasformazione universale si compie in due tappe che si succedono ciclicamente: una discendente per contrazione o condensazione (Ps?), e un’altra ascendente per dilatazione (D?).

Detto in termini indù: soltanto l’effettuare questa transizione dal registro del Sa?s?ra21 (come abbiamo visto, quello della dispersione, dell’universo ß) al registro del Nirv?na (quello dell’integrazione, della funzione α) accettando la sfida del “cambiamento catastrofico”, permette di avvicinarsi all’esperienza d’identità con l’Assoluto (K – O, secondo la formula bioniana).

3. CONCLUSIONE: “LA VERITÀ È UNA”

“La risposta è la sciagura della domanda.“
(Maurice Blanchot, L’entretien infini, 1969
citato in André Green, Lettre ouverte, 1989)

 

Grazie alla riformulazione scientifica della mistica orientale profondamente inscritta nelle sue tracce mnestiche, Bion è riuscito a compiere una sintesi metafisica che lo consacra oggi come demiurgo rivoluzionario e iconoclasta. Lasciandosi oscillare tra i differenti livelli del suo stesso “apparato per pensare i pensieri”, ha saputo integrare due concezioni del mondo apparentemente inconciliabili in un unico modello della mente, innovatore e, al contempo, risorto delle profondità dimenticate dell’euristica dell’Antichità – ovvero, in definitiva, della storia spirituale dell’Uomo.

Commenta l’indianista francese Alain Daniélou (citato in Giampà 1997):

“La Verità è una. Non esiste qualcosa come una sapienza occidentale e una orientale, una scienza che si oppone alla religione: queste non sono se non forme distinte della stessa ricerca”.

Dopotutto, e coincidendo con lo psicoanalista brasiliano Franco Filho (2007), “la psicoanalisi non pretende di essere una risposta, ma piuttosto una domanda. Sostenersi nel silenzio, nella cesura di una domanda senza risposta, presuppone un atto di fede e di tolleranza fondamentale. In questo vertice, si avvicinano gli psicoanalisti, i mistici, i poeti, gli scienziati in generale”.

 

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ALUMNA ECPPL

 

*Chiara Berlinzani Deharo
Psychothérapeute psychanalytique
Affiliée à la Fédération Française de Psychothérapie et Psychanalyse (FF2P),
à l'Association Européenne de Psychothérapie (EAP),
au Conseil Mondial de la Psychothérapie (WCP),
à la Fédération Latino-Américaine des Associations de Psychothérapie psychanalytique et Psychanalyse (FLAPPSIPP)
et au Centre de Psychothérapie Psychanalytique de Lima (CPPL)

Traduzione dallo spagnolo di Rossana Pierri

NOTE:

1 Come se nel cambiamento, in ogni tipo di cambiamento, la “pulsione di morte”, intensificandosi di fronte al disordine indotto dalla trasformazione, implodesse, producendo infiltrazioni massive di un’angustia (preesistente all’incontro con l’oggetto) così impensabile e primaria da non poter essere nemmeno concettualizzata…

2 “… e che gli permetteva di recitare antiche ninna-nanne indù completamente ‘dimenticate’, senza il minimo accento inglese…” (Bion Talamo 1997).

3 Platone, La Repubblica, Libro VII, IV secolo a.C.

4 Quello di “Brahman” – in estrema sintesi - è un concetto sanscrito che fa riferimento alla divinità assoluta vedica, brahmanica e induista. Sebbene etimologicamente il termine significhi “espansione”, nelle Upanishad è utilizzato come sinonimo di “Assoluto”: l’essenza di tutto, ciò che è, che trascende tutto, che è immanente e causa efficiente del cosmo. In quest’ultimo senso il concetto è stato utilizzato nel presente lavoro.

5 Ci sembra interessante enfatizzare la polisemia del sostantivo greco Lògos, di per sé illuminante… Nel suo primo significato, infatti, “Lògos” rinvia alla legge che governa l’universo, il suo principio unificatore. In secondo luogo, “Lògos” è l’equivalente del termine latino ratio: la ragione, l’intelletto umano – che spiega e comprende la legge universale. Infine, “Lògos” significa anche “parola”, “discorso”, “verbo”. Parafrasando il concetto, e ricorrendo a un gioco di parole: se il Lògos (intelletto) comprende il Lògos (la legge universale) e lo spiega attraverso il Lògos (la parola), la talking cure rappresenterebbe per antonomasia la via più adeguata per il ristabilimento dell’“armonia”...

6 Giampà, M., Fiorespino, F., Tra Oriente ed Occidente: "Assenza di memoria e desiderio" e controtransfert, 1997.

7 Meltzer, D., Il significato clinico dell’opera di Bion, in Lo sviluppo kleiniano, vol. III, 1982.

8 Giampà, M., Bion e il pensiero filosofico indiano, in “Attualità in Psicologia, trimestrale in studi ed esperienze in psicologia, psichiatria e neuropsichiatria”, vol. 19, n. 3-4, 2004. Giampà, M., La sconvolgente esperienza dell'incontro con Bion, in AA.VV., Verità e evoluzione in "O" nell'opera di Bion, “Funzione Gamma Journal”, 19, 2007. Giampà, M., Pensare il tempo con Bion, in AA.VV., Pensabile e impensabile in alcuni concetti di Bion, “Funzione Gamma Journal”, 20, 2007.

9 Giampà, M., Pensare il tempo con Bion, cit.

10 Giampà, M., La sconvolgente esperienza dell'incontro con Bion, cit.

11 Grazia Shogen Marchianò Zolla, moglie del celebre teorico delle religioni Elémire Zolla, citata in Giampà e Fiorespino (1997).

12 Franco Filho, O. de M., L'esperienza dei mistici e quella della psicoanalisi dal vertice di Bion, trad. it. di Giampà, M., in AA.VV., Verità e evoluzione in "O" nell'opera di Bion, “Funzione Gamma Journal”, 19, 2007.

13 Riproduciamo integralmente i passaggi ai quali ci riferiamo: “Per comprendere adeguatamente questa trasformazione occorre tuttavia una propedeutica del pensiero, che parte dalla necessità di oltrepassare la ‘conoscenza a impianto’ che è quella tradizionale, illuministica, categoriale, basata sul principio post hoc erga propter hoc ad una conoscenza ad essa antinomica: quella ‘a reticolo’, dimensionale, anzi pluri-dimensionale, dove post hoc, erga ante hoc. Una conoscenza dove scompare la distinzione fra oggetto osservato e osservatore, dove il percipiente modifica il percepito e viceversa e dove la relatività, non l'assiomaticità, la verosimiglianza e non la verità costituiscono il codice del conoscere. […] È in questa particolare e intensa dinamica, teorica e clinica, che come si è già sottolineato si realizza compiutamente la ‘mistica’ in cui Bion sta ed alla quale conduce: una mistica laica ma del tutto corrispondente a quella dell'estasi religiosa, alla quale può comunque fare da intelaiatura e da codice interpretativo. In ambedue i casi si richiede infatti un ‘atto di Fede’: scientifica nel lavoro psicoanalitico, religiosa nel campo del sacro.” (Ancona, L., Complessità e gruppi, in “Gruppo, nella Clinica, nelleIstituzioni, nella Società”, 2, 33-50, 1999).

14 Giampà, M., Fiorespino, F., Tra Oriente ed Occidente, cit.

15 È interessante notare che nell’etimologia latina del sostantivo “dolore” si trova una radice indoeuropea che rinvia all’azione di “sezionare”, “scindere”, “lacerare”. Secondo quest’accezione, il dolore si configurerebbe come l’effetto di una lacerazione, di una rottura – una sfumatura di senso rilevante per la comprensione del concetto bioniano di “cambiamento catastrofico”…

16 “La vita è, per sua propria natura, dolore: un dolore irredimibile perché radicalmente spoglio di ragione e di senso” scriveva Nietzsche in La nascita della tragedia...

17 La Verità del dolore; la Verità dell’origine del dolore; la Verità della cessazione del dolore; la Verità della via che conduce alla cessazione del dolore.

18 Nella tradizione asiatica (induista e buddista) il concetto di “Nirv??a” rinvia effettivamente alla coscienza originaria di una mente primordialmente “non oscurata”. Nei testi del buddismo Mah?y?na (Sutra del Loto etc.), invece, è uno stato associato con la “iluminazione”, nel quale tutti i desideri si sono estinti. Nella Bhagavad G?t?, nelle Upani?had e nelle scritture Vedanta, “Nirv??a” è infine la condizione che si origina dall’estinzione dell’Io nel “Brahman” (il principio infinito, trascendente e immutabile, ma immanente in tutti gli esseri). In ambito psicoanalitico, Freud mutuò questo termine sanscrito (introdotto in Occidente da Schopenhauer) della psicoanalista inglese Barbara Low, che lo definisce come una “tendenza alla riduzione, alla costanza, alla soppressione della tensione prodotta dall’eccitazione interna”. Secondo Freud, il “principio di Nirv??a” sarebbe “interamente al servizio della pulsione di morte” (S. Freud, 1920, 1924).

19 Speziale-Bagliacca (1984), da parte sua, ha identificato nel pensiero di Bion varie analogie con il buddismo Zen e il taoismo.

20 Secondo il filosofo francese Gilles Deleuze, “il divenire unico ed eterno, la radicale inconsistenza di tutto il reale, come insegnava Eraclito, è un’idea terribile e perturbatrice, i cui effetti sono direttamente imparentati con la sensazione che si potrebbe sperimentare durante una scossa tellurica: la sfiducia nella fermezza del suolo. Una qualità divorzia permanentemente da se stessa e si costituisce come qualità opposta; queste due qualità contrarie si sforzano permanentemente per unirsi di nuovo. […] Da questa lotta di qualità contrarie nasce tutto il divenire…”.

21 La realtà illusoria e ingannatrice percepita attraverso gli organi di senso e irrimediabilmente intrappolata nel ciclo di nascite-reincarnazioni, vale a dire il divenire fenomenico, considerato come l’origine del dolore.

 




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