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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Lacaniana



Lacan era intuizionista?

Antonello Sciacchitano



Alcune premesse

L’improbabile interesse per il quiz si appiglia ai due significanti della domanda-titolo di questo testo. Il primo perché lo giustifica di fronte all’uso selvaggio del pensiero del maestro da parte di scuole e scuolette lacaniane, ciascuna votata alla causa persa dell’autenticità e dell’ortodossia. (Per non parlare delle loro immagini speculari, le scuole dove si insegna a pentirsi del lacanismo come peccato di gioventù). Il nostro interesse non è lì, però. Noi preferiamo indagare su come si colloca la produzione di questo singolare analista nel panorama culturale contempo­raneo.

In un certo senso, il secondo significante, in­tuizionismo, ci acchiappa ancora di più per mo­tivi non solo storici ma strutturali, riguardanti cioè la configurazione dell’apporto laca­niano nelle sue affinità e divergenze rispetto a campi teorici contigui alla psicanalisi. Uno di questi è il cosiddetto - infelicemente - intuizionismo,1 assio­ma­tizzato a più riprese da Heyting, Kleene e Gentzen e semantizzato da Jaskowski e Kripke. In proposito, senza entrare in ec­cessivi tecnici­smi, va detto che, venuta meno, gra­zie al teorema di in­completezza di Gödel, la presa ideo­lo­gica del con­trasto tra le scuole formalistica di Hilbert e intuizionista di Brou­wer, l’intuizionismo si è rivelato per quel che era. Non tanto la logica dell’atto matema­tico, la cui forza creatrice ex nihilo Brouwer contrappo­neva all’essenza pla­tonica extratemporale degli enti matematici, ma una “semplice” matematica tra le tante, ben riconoscibile per il suo stile. Si tratta, infatti, di una particolare forma di matematica che vuole, fortemente vuole, l’indebolimento del gioco binario del vero e del falso (intesi classicamente come immagine involutoria l’uno dell’altro) e che, pertanto, meglio di altre si presta a matematizzare il sa­pere matema­tico stesso (e, se­condo noi, anche quello analitico), fotografandolo nell’atto di circoscrivere quel parti­colare og­getto, difficile da cogliere e controllare mediante rappresen­tazioni ideali aprioristiche ed esaustive, un oggetto unübersichtlich [letteralmente: non perfettamente visibile, non perspicuo; quindi, non del tutto chiaro perché complicato] si direbbe con parola te­desca intraducibile, e cioè l’infinito, l’oggetto matematico per eccellenza.

La matematica intuizionistica à la Brouwer è oggi particolarmente vitale (né più né meno della matematica formalistica à la Hilbert con cui si integra in un programma costruttivista allargato). Citiamo alcuni esempi, importanti per noi perché cadono in un decennio impor­tante e fecondo per l’elaborazione lacaniana. Gödel (1958) di­mostra la coerenza dell’aritmetica intuizionista del primo ordine (da un finitem Standpunkt, da un punto di vista finitista)i. Spector (1962) estende il risultato all’analisi intuizionista. Risultati di spicco, im­pensabili nella matematica classica. Fitting (1969) incorpora nell’intuizionismo il for­cing, semplificando l’armamentario con cui Cohen crea oggetti ge­nerici e di­mostra l’indipendenza della congettura cantoriana del continuo dal resto della teo­ria degli insiemiii. Tutto ciò di­mostra che, una volta de­cantato dalla premessa filosofica che concepisce la matematica come attività alinguistica, supposta in presa diretta sul reale, l’intuizionismo ha qualcosa di va­lido da dire a chi si interessa di problemi fondazionali dell’infinito. Come psicanalisti il no­stro interesse per questa logica nasce in modo naturale dai problemi posti da Freud (1938) nella sua Analisi finita e infinita (e non terminabile e interminabile come si continua a leggere). I quali riguardano la particolare esperienza che in analisi il parlante fa di quel particolare infi­nito non numerico (ma numerabile) che è il linguaggio.

Tuttavia, poiché non siamo matematici di professione, ma solo dilettanti, non po­niamo la questione dell’intuizionismo nella sua generalità, per es. come candidato alla fondazione di un’epistemologia psicanalitica non necessariamente scientifica (del resto ogni epistemologia, essendo un’opzione filosofica, non è scientifica) - non alla Popper, per in­ten­derci -, ma in riferimento alla singolare vicenda intellettuale di un particolare soggetto, il dottor Lacan, che a più riprese arrivò alle sacre so­glie in­tuizioniste senza mai varcarle. Ma non sarà storico-filologico il nostro la­voro. La rigorizzazione della tesi di Lacan, che per ora è solo simpatica e, scientificamente parlando, forse anche un po’ truccata, può es­sere rimandata a dopo. Quando avremo dimostrato che, seppure La­can era intui­zionista, lo era incon­scia­mente, nel senso da lui stesso dato alla parola, cioè, (non) senza sapere di sa­perlo.

In effetti, in prima battuta, sembrerebbe che con la sua teoria del soggetto del desiderio come effetto effimero del linguaggio Lacan sia molto lontano dall’atto che - afferma Brou­wer nel suo modo involuto di esprimersi - fonda l’intuizione basilare della matematica in quanto attività extralinguistica che coglie la duità come momento di separazione vitale e, spo­gliatala da tutte le qualità, ne conserva la forma vuota nella memoria. Tuttavia, le tipiche for­mule lacaniane di indebolimento delle certezze binarie, per lo più esistenziali nega­tive, dal non esiste metalin­guaggio al non esiste rapporto sessuale, depongono per una sua chiara presa di posizione epi­stemica di marca intuizionista. Un atto, il suo, che, se non è una libera scelta nel senso brouwe­riano del termine (Sciacchitano 1995), individua il nucleo della questione intuizionista nel tentativo di introdurre un’asimmetria tra affermazione e negazione.

Sapendo bene quanto le metafore siano per lo più oscuranti, ne useremo, tuttavia, una, meno per chiarire il concetto quanto per agganciare il senso della performance laca­niana ad un’altra forse ancora più decisiva per la psicanalisi: quella di Freud stesso. Scienza ebraica, si diceva della psicanalisi, un tempo, e ancora oggi si sussurra. Scienza ebraica sì, ma non per­ché Freud fosse ebreo. Scienza ebraica perché Freud affrontò la questione che solo l’ebraismo, tra le religioni del libro, seppe mantenere nel fuoco della sua riflessione senza ce­dere alla tenta­zione di semplificarla, come il cattolicesimo, o renderla astratta, come l’islamismo: la questione del padre. Così Lacan sarà dimostrato intuizionista meno perché ha assistito alle lezioni berlinesi di Brou­wer e più perché si è inserito in una tradizione di rifles­sione sulla funzione del sapere in atto, che ri­sale agli Stoici e attraverso Cartesio e Spinoza, conser­vando una sua singolarità che l’ha te­nuta distinta dalla riflessione ontologica ed er­meneutica, giunge alla Vienna di Wittgenstein e Freud, passando proprio per Brouwer.

È il fatto stesso di avere una posi­zione epistemica precisa (e chi lavora a contatto con il sa­pere incon­scio non può non averne una) che forza l’analista, vo­lente o no, che lo sap­pia o no, a interagire, a distanza più o meno ravvicinata, con l’intuizionismo. Nel senso che, per lo meno, lo distanzia dalla logica classica e dal suo binarismo che ospitano male consi­derazioni epistemi­che. Le quali possono facilmente debordare da un quadro di riferimento di certezze in bianco e nero, assu­mendo tutta una varietà di forme terze, che vanno dal sapere all’ignoranza attraverso tutte le combinazioni epistemiche degli operatori di certezza e dub­bio, porgendo la certezza del dubbio, il dubbio della certezza, il dubbio del dubbio, la cer­tezza della certezza nonché l’ignoranza del dubbio, il dubbio dell’ignoranza e così via.

Le forme terze, invece, si possono trattare bene in ambito logico intuizio­nista, dove l’accantonamento del principio del terzo escluso sgombra il campo da ogni ingenua, nonché contraddittoria, supposi­zione di onniscienza in chicchessia - dall’altro a Dio - il quale, per ogni enunciato, anche quello che afferma la propria falsità, saprebbe decidere se è vero o falso. Sospendendo la dicotomia vero/falso, l’intuizionismo, infatti, lascia spazio a ipotesi epistemi­che meno totalitarie e più realisti­che.

In secondo luogo, la tipica incompletezza sintattica del sistema intuizionista, secondo cui assumere la verità di una tesi non significa, come vuole la più pura intolleranza binaria, o produrre teoremi o collassare nella contraddizione, ci si presenta come condi­zione favore­vole a un’epistemologia soft del sapere inconscio. La possibilità di arricchirlo indefinitamente di nuovi assiomi (per es. come fantasmi), senza introdurvi necessariamente contraddizioni, consente di concepire modelli intuizionisti dell’inconscio come sistemi aperti di operatori epistemici (ognuno dei quali applica l’insieme delle formule ben formate in qualche tesi clas­sica non in­tuizionistav), come sistemi, cioè, che non si possono mai prendere in mano tutti in una volta e classificarli una volta per tutte in qualche volume di enciclopedia. Ma, come detto, non svilup­peremo questo punto interessante che riguarda la natura irriducibilmente impredicativa, asim­metrica e intransitiva dell’inconscio, il quale risulta perciò più simile ad una classe propria (cioè non classificabile come elemento di un’altra classe) che ad un in­sieme (che, invece, è elemento di un altro insieme), secondo la terminologia di von Neu­mann.

Sottolineiamo, invece, un dettaglio interessante per il seguito e, cioè, che la negazione, classicamente concepita come falsificazione, in quanto trasforma il vero in falso e il falso in vero, in ambito intui­zionista assume un significato particolare molto vicino a quello analitico se­condo cui il falso non è il solo modo di negare il vero. Infatti, in analisi il vero si può rinne­gare, riget­tare, rimuovere ecc.... pur rimanendo innegabilmente vero. Corrispondentemente, in analisi il sapere non si può negare anche quando lo si afferma in forma negata, cioè incon­scia, ossia come non sapere di sapere. In contesto intui­zionista negare, prima che oscilla­zione reversibile - ma di corto respiro - tra due posizioni situate allo stesso livello episte­mico, il vero e il falso, obbliga il soggetto a salire di un livello logico dove la negazione di­venta la necessità logica di negare2. In un certo senso, reintroducendo la metalogica nella lo­gica, Brouwer fissa nell’assurdità il nucleo episte­mico, o contenuto di sa­pere, della nega­zione. È ovvio che in sif­fatto approccio teorico diventa insoste­nibile la validità univer­sale del principio del terzo escluso, per es. in universi infiniti. Meno ovvio che possa chiarire la que­stione della sessuazione. In verità, l’esclusione dell’esclusione del terzo porta al risultato pa­radossale che i sessi non risultano più di due ma, semmai, poco meno, senza ridursi neces­sa­riamente ad uno, come, a partire dall’unicità del rap­presentante fallico, è portata a credere l’omosessualità, so­prattutto maschile.

Qui assume un senso possibile la nostra domanda. Come arriva, se arriva, Lacan all’intuizionismo? Non certo a partire da problemi di fonda­zione epistemologica del discorso analitico ma dalla questione più banale, ma anche più piccante e meno elu­dibile per il sog­getto, della sessuazione. I sessi non sono due, sembra dire Lacan nella confe­renza del 3 marzo 1972, nel ciclo tenuto a S. Anna, in contemporanea al seminario ...ou pire, intitolato Il sapere dello psicanalista (di cui qui commenteremo un testo pur­troppo ancora inedito), riferendosi polemi­camente all’autrice di un libro di culto, inti­tolato appunto Il se­condo sesso. Dal mo­mento in cui entra in funzione il linguaggio non c’è secondo sesso. Tanto meno terzo. Per l’essere parlante c’è solo eterosessualità, cioè la possibilità per qual­cuno (non per tutti) di amare le donne, con tutto ciò che la cosa comporta di tragico.

(Digressione – eventualmente non pubblicabile nonché intraducibile - sui rapporti tra omosessualità e regime binario. L’omosessualità, tipica­mente quella maschile, resta confi­nata ad un campo, quello dell’Uno, inteso come totalità in estensione, che per essere mi­tico non è meno intensamente col­ti­vato da tutte le ideologie normalizzanti, per affermare l’uno e negare l’Altro. Le stesse vi at­tingono i modi più effi­cienti di aliena­zione sociale dei processi produttivi, com­presi quelli generazionali, formativi ed edu­cativi, in nome dell’appartenenza del simile / esclusione del di­verso in nome di qualche, per lo più arbitrario, sistema unitario di valori. L’omosessualità, che piace e compiace al potere, fiorisce nel campo de­finito da quel binari­smo in­transigente che impone l’assioma della complementarità dei sessi (secondo il mito aristo­fanesco, insomma, secondo cui ciascuno cerca la complementarietà nell’altro di cui manca) come punto di partenza di ogni pensiero “politicamente corretto”. L’omosessualità è l’uno, l’eterosessualità, l’altro. La prima siamo noi, buoni, la seconda sono gli altri, cattivi. Seguono tutte le dicotomie che allietano la nostra convivenza civile: dentro e fuori, appartenente e non appartenente, comunitario e extracomunitario, attraverso cui l’ideale al potere si impone paranoicamente alle masse, avocando a sé tutto il buono e evacuando fuori di sé tutto il cattivo.

La tesi con cui l’analista liquida la generica omosessualità socialmente dif­fusa e favorita è che, se i sessi sono due e complementari (magari ciascuno con una pro­pria omosessua­lità!), sono uno solo, riguardante l’animale e non l’essere parlante. Il quale per la propria sessualità pretende la riapertura del discorso dell’Uno, sostenendo, specie sul ver­sante femminile, di avere diritto all’Uno, sì, ma con un supplemento (o, meglio, con un deple­mento). Il termine filo­soficamente congruo è supplemento d’anima, che può essere sotto­scritto anche da chi, come lo psicanalista, ha smesso di credere all’esistenza di Psiche. Fine della digressione).

Il passo inaugurale della logica che disarticola la negazione dalla complementazione binaria fu compiuto, nel 1925, da Sigmund Freud. In fondo, come vedremo, Lacan non fa che qual­che passo in più sulla strada aperta da Freud. Immediatamente, l’idea fu recepita meglio in am­bito extra-analitico che tra gli allievi di Freud. Johansson (1937) costruì una logica, oggi detta mini­male, dove ogni enunciazione falsa non implica nulla3iii. In particolare, la non con­traddi­zione vale solo come principio astratto che non esclude le singole contraddi­zioni lo­cali, come buono/cattivo, nero/bianco ecc. esattamente come nel vocabolario di una lingua con­vivono i termini opposti. Ma Freud inau­gurò ben più di una logica senza contraddizione, diversamente da quel che pensava Matte Blanco (1981). In Freud il falso, non meno del vero, implica la responsa­bi­lità del soggetto. Solo diversamente dal vero. Nella sua nota tesi, esposta nell’articolo su La negazione, Freud (1925, p. 193) sostiene che il significante della negazione non nega l’enunciato oggettivo ma se­gnala il passaggio sog­gettivo dell’enunciazione attraverso la barriera della rimozione. Si riallaccia così ad una tra­dizione epistemica che, dagli antecedenti Stoici, viene pienamente alla luce solo con l’etica di Spinoza. È la tradizione, squisitamente etica, che, intendendo il falso come non saputo o sa­puto in modo deficitario, fa giocare la re­sponsabilità del soggetto nei confronti del proprio sapere, estendendola addirittura alla propria igno­ranza.

Si tratta di una concezione non estranea all’intuizionismo di Brouwer, che considera il sa­pere della verità come non cancellabile (acquisito), diversamente da quello della falsità che, in quanto provvisorio, viene conside­rato cancellabile parzialmente (cioè, non definitivamente acquisito, perché il falso è solo un vero confuso e difettoso, alla Spinoza). Pertanto, il corri­spondente sistema logistico recepisce a metà il dettato classico. Trascrive la verità della ne­gazione (V?X) come falsità dell’affermazione (FX), come vuole la logica aristotelica, ma, a differenza di quella, trascrive la falsità della ne­gazione (F?X) come verità dell’affermazione (VX), a patto di cancellare tutto il sapere sull’esito di altre fal­sificazioni pos­sibili nello stesso stato (o mondo) episte­mico. Le quali allora scompaiono dall’albero deduttivo.

Con una conseguenza interessante che riguarda lo statuto della negazione che ora vale solo fino a prova contraria. La quale può venire a presentarci il conto in uno dei successivi, ma­gari l’(n+1)-esimo, stato epistemico. Solo questione di prudenza nel con­durre la di­mostra­zione? No, anche un modo per far giocare la responsabilità del soggetto nello scegliere la “giusta” ne­gazione del falso da trasformare in vero. Risultato: la dimostra­zione matematica, condotta in modo intuizionista, non è più quel procedimento meccanico di applicazione di formule ste­reotipe che conosciamo dalla scuola ma, poco o tanto, contiene sempre qual­cosa della perfor­mance, dell’atto creativo.

Lacan riprende tale tradizione epistemica, proponendo di interpretare freudianamente la funzione della ne­gazione come ciò che, nell’enunciato, va al di là dell’enunciazione. Un tratto che il modello intuizionista realizza come rimando metonimico all’enunciazione suc­cessiva o allo stato epistemico seguente. (Il sapere intuizionista non sta tutto in un mondo ma si distribuisce su più mondi). Un tratto, quello dell’eccesso (o dell’eccedenza), che la ne­gazione eredita dalla funzione fallica. La quale è di per sé eccessiva e porta sempre al di là del significato sessuale, ostacolando addirittura il rapporto stesso con la sua sfrontata ege­monia su ogni atto di significazione che viene forzata a ripetere sempre la stessa “cosa”.

Nella conferenza citata, Lacan enuncia il suo pro­gramma con buona dose di ingenuità, con­formemente alla gigione­ria del suo per­so­naggio. È chiaro che se uso una formulazione la quale ha fatto irru­zione in logica dalle matematiche (sempre benve­nuto questo plurale!), ciò non vuol dire che me ne serva esatta­mente allo stesso modo. L’ingenuità è immaginare di potersi servire dei significanti a proprio piacimento schivandone gli effetti di alienazione. Detto da chi inse­gnava la soggezione del soggetto al significante, fa per lo meno sorridere. Non ci sarà diffi­cile, appli­cando Lacan a se stesso, dimostrare che, tentando un uso improprio dei significanti matematici, con la lode­vole intenzione di porgerne la verità, non fa altro che un uso proprio degli stessi, cioè si fa propria­mente usare (come del resto ogni buon matematico).

Conclusione

Il quadrato lacaniano è ben noto. Volutamente ricalcato per metà sull’aristotelico, se ne dif­ferenzia per l’altra metà. Metà? Quale metà? In ossequio ai suoi modelli retorici che privi­le­giano il chiasmo, i quali sin dalle sue prime elucubrazioni lo portano a privilegiare teorie “contorte”, dove spadro­neggiano le doppie inversioni (si vedano, per esempio, le doppie in­versioni immaginarie e sim­boli­che nello schema L disegnato come nastro di Möbius) e le diagonalizzazioni, la metà che Lacan presceglie dal qua­drato aristo­telico è quella diagonale delle due enunciazioni, dette dalla scolastica contrad­ditto­rie: la parti­colare ne­gativa e l’universale affermativa.

Nell’illustrare le due formule Lacan mo­stra che rien­trano in quella tradizione logica di pen­siero maschile, modernamente recepita nella mo­derna teoria degli insiemi. I quali, considerati in estensione, sono sempre e solo sottoinsiemi. Infatti, un insieme è tale se qualcosa resta fuori. Non dimenti­chiamo, però, che il di­scorso non è fatto in astratto ma in rapporto ad una particolare “funzione propo­sizionale”, la funzione fallica, in­tesa meno in termini russelliani che edipici. La prima colonna della ta­bella si scrive allora così:

Particolare negativa:

?x . ??x

Universale affermativa:

?x . ?x

Tradotto in chiaro il discorso significa: tutti gli esseri parlanti (?x) sono argomenti della funzione fallica (?x), o come la pensa quel precoce intellettuale che è il bambino maschio, tutti sono do­tati di fallo: ?x.?x. La correzione apportata da Freud alla teoria sessuale infantile è che al­meno uno, nella fattispecie il padre primitivo dell’orda, non è soggetto alla funzione fallica in quanto la nega, ossia va al di là di essa. Esiste uno che dice no alla funzione fallica (?x.??x), precisa Lacan nel testo commentato. Freud dipinge miticamente il superamento della funzione fallica da parte del padre primitivo con il possesso di tutte le donne e la co­strizione dei fratelli all’omosessualità. Lo stesso discorso, svolto in termini immaginari, per esempio dal maschietto al tramonto del complesso edipico, con rassegnazione patetica re­cita: tutti sono castrati, tranne lui, il pa­dre.

A livello simbolico, avviene per la castrazione come per qualun­que sottoinsieme. Tutti i suoi elementi gli appartengono, tranne quelli che non gli appar­tengono. Il truismo am­moni­sce che pensare un insieme che contenga tutto e non lasci fuori nulla con­duce all’antinomia cantoriana dell’insieme totale. L’eccezione che sta fuori, qui il padre, nor­malizza il discorso. A volte, non del tutto a torto, si parla del mito freudiano dell’Edipo come incarna­zione della fun­zione normalizzatrice della soggettività. Qui precisiamo che si tratta della norma maschile (o re­ligiosa), quella che fonda i bastioni della civiltà e il suo disagio: tutti uguali ri­spetto ad un punto ideale che sta fuori e a cui, secondo la mitologia freudiana, tutto si sacrifica a par­tire dalla soddisfazione pulsionale, ieri al monarca, oggi alla Legge.

E l’altra metà del quadrato cosa dice di nuovo? Tutto e niente. Niente perché consiste nella duplicazione della prima. Tutto perché si tratta di una sua particolare trascrizione, non esat­ta­mente conforme all’originale. La duplicazione, se si vuole, è un chiasmo applicato a se stesso. In quanto tale rientra nelle figure retoriche amate da Lacan. Ma non è questo il punto. Il pro­blema è che Lacan, non sapremo mai perché, lascia fuori dal di­scorso sulla ses­suazione l’universale ne­gativa (??x.?x: non esiste uno che sia castrato) e la partico­lare af­fermativa (?x.?x: esi­ste almeno uno che è castrato). Fissato a una sua idea di trattare la sessuazione in termini universali, come finora il senso comune filosofico aveva tentato di porre la que­stione della morte (chi non ricorda dai banchi di scuola il sillogismo che cominciava con tutti gli uomini sono mortali?), probabilmente Lacan tratta anche la negazione come quantifi­ca­tore uni­versale. A quel punto, per uscire dal riferimento aristotelico, che non consente di trattare il caso del soggetto vuoto4 invece di completare il qua­drato di Ari­stotele, raddoppia il rettangolo “maschile” nel “femminile” (forse anche per rispettare l’“errore” freudiano di una sola li­bido, maschile). In effetti, ottiene il secondo dal primo in tre mosse: la prima è quella ti­pica­mente lacaniana del capovolgimento e le altre due, sot­toli­neia­molo, sono affatto antiintui­zioni­ste: la doppia sostituzione del per ogni con il non esiste uno che non e dell’esiste con il non per ogni non e la cancellazione della doppie negazioni così introdotte. Il risultato com­pleto si legge nella ta­bella:

?x.?? x

?x.? x

??x.??x *

?? x.?? x

?x.? x

?x.?? x

??x.???x *

??x.?x *

dove la prima colonna a sinistra rappresenta il versante maschile della sessuazione, l’ultima a destra il fem­minile e le intermedie le transizioni logiche dall’uno all’altro. Abbiamo segna­lato con asteri­sco i passaggi non intuizionisti, dipendenti dal principio del terzo escluso.

A questo punto la nostra tesi di Lacan intuizionista sembra crollata. Il passaggio dalla ses­suazione maschile a quella femminile richiede comunque l’applicazione del principio del terzo escluso. Tutto da rifare, allora? Forse no. Uno sguardo superficiale a formule, che do­vrebbero immediatamente apparire autocontraddittorie, non solo in senso verticale, come si sapeva già, ma, ora, anche orizzontale, dovrebbe far esclu­dere a chiunque riconosca in ? il simbolo bourbakista della negazione (nel senso di è falso che) che si tratti di una sud­divi­sione estensionale del campo dei parlanti. Si tratta, allora, della sud­divisione vuota? Non proprio. Intensionale, al­lora? Concediamoci un at­timo di ri­flessione prima di decidere.

Nello scritto di poco successivo, L’étourdit, Lacan (1973, p. 22) lo dice: la scrittura delle formule della sessuazione femminile (??x.??x e ??x.?x) non è usuale in matematica. Non è esatto. Nelle note e nelle osservazioni, più che nella formula­zioni dei teo­remi, il matematico si lascia volentieri andare a considerazioni sulla non esi­stenza di og­getti che non soddisfano certe proprietà o sulla non validità generale di certe as­serzioni. D’altra parte proprio Brouwer nel 1949 dimostrò un teorema sul continuo pieno, formulato in termini di non tutti: non per tutti gli x vale che, se x è diverso da 0, allora o x è maggiore di zero o x è minore di 0. È questo l’auspicato ingresso dei modi logici femminili in matematica? Bi­sogne­rebbe interrogare Sophie Germaine che corrispondeva con Gauss di teoria dei numeri (su un particolarissimo caso in cui l’equazione di Fermat non va­le) sotto lo pseu­donimo di M. Le Blanc, temendo il ridicolo inevitabilmente associato alla condizione di donna studiosa. E se fosse vero il contrario: che i modi femminili, essendo particolaristici, sono es­sen­zialmente an­timatematici? Inutile dirlo. Gli ar­gomenti controfattuali non sono il forte del mate­matico. Per­ciò stoppiamo qui il discorso.

Commentando le sue formule del “femminile”, Lacan introduce la nozione di non tutto, come ciò che va al di là del tutto, un universale più universale dell’universale, rispetto al quale nulla sta fuori (ex-siste) e che per ciò non può essere definito concettualmente come un tutto. In effetti, il non tutto è un tutto carente di perimetro e di unità estensionale. È “dato” dall’aggregazione dei suoi elementi, le unità elementari, ma esso stesso non è ridu­ci­bile ad ele­mento di altri univer­sali. Questo sarebbe l’universale che si addice all’altro sesso, definitiva­mente eterosessuale perché rimane sempre altro rispetto ad ogni possibile presa concettuale, quella della castra­zione com­presa. Affermare che non tutte le donne sono ca­strate (??x.?x), benché prese una per una non esista una che non lo sia (??x.??x), è un paradosso più appa­rente che reale. Appartiene alla serie dei paradossi dell’infinito di cui Bolzano scrisse ma non pubblicò. I logici, per esempio, sanno bene che una teoria può es­sere consistente per ogni singolo enunciato senza essere globalmente consistente. Per quanto ri­guarda la fem­mini­lità, a cui Lacan ap­plica la nozione di non tutto, tutto ciò signi­fica che la castrazione, come qualunque altra pro­prietà, per quanto potente, per quanto vada oltre le proprietà collettivizzanti, come le chiama Bourbaki (e la ca­strazione è una di queste), per quanto sia vera per ogni donna, considerata una per una, non definisce la femmi­nilità come genere, ossia come totalità dotata di unità. In quanto tale (in quanto tale non si può dire per­ché implica l’unificazione, tuttavia...), in quanto tale la femminilità risulta irriducibile a qua­lunque schema di apparte­nenza o alla con­formità a qualche ideale. Metaforicamente par­lando, la femminilità può solo conte­nere ma non es­sere contenuta. Con von Neumann di­ciamo che è una classe propria, non un insieme.

Per questa e altre meno nobili ragioni la civiltà forza volentieri la femminilità nei suoi schemi, prima­riamente, in quello materno, perché con la sua universalità selvaggia e “laica”, irriducibile a codice o a rito, non comprometta la sacralità dei suoi contenitori istituzionali i quali, come tutti sanno, sono fortemente limitati anche quando sono illuminati e liberali. In­fatti, sono insiemi, non classi proprie.

Sofocle dramma­tizzò il conflitto tra i due universali, maschile e femminile, nello scontro tra i personaggi di Creonte e Antigone. Oggi, più banalmente, il controllo della femminilità, af­finché si conformi alla norma sociale, è affidato alla psicoterapia. I risultati, per la verità, sono incerti. Tutto di­pende da come quest’ultima se la caverà con l’anoressia. (Ma l’analista fa il tifo per l’anoressia. Certe sbobbe psicoterapeutiche sono realmente vomitevoli. Rivendi­chiamo il diritto all’anoressia).

A livello logico astratto (astratto non è una parolaccia!) la contrapposizione tra le due forme di universali si riduce all’alternativa tra classi che non ap­par­tengono a classi (le classi proprie) e insiemi che appar­tengono a classi. La formalizzazione della teoria degli insiemi, dove la sud­detta distinzione viene articolata, fu proposta da von Neumann ed ela­borata da Gödel e Bernays. Dal punto di vista della sessuazione essa è senz’altro più soddisfacente delle acrobazie tentate da Lacan sul filo della ne­gazione freudiana (per quanto sorrette dall’asta di equilibrio della di­stinzione tra le due parti­celle greche di negazione: ou per la ne­gazione ogget­tiva e me per la soggettiva). Da una parte, le classi pro­prie sono il modo posi­tivo di dire il non tutto e di af­fer­mare la femminilità in quanto ha di non af­fermabile. Dall’altra, gli insiemi, molto più facili da trattare e da secoli frequentati dalla logica e dalla politica occidentali, continueranno a incar­nare il ma­schile, con la loro vocazione al tra­scen­dente (all’esterno), appena mascherata da una parvenza di democrazia all’interno. Con l’avvertenza doverosa che la contrap­posizione tra i due modi di universalizzazione non esiste perché, ove facessero coppia, allora si verificherebbe il caso di una classe propria che costi­tuirebbe l’elemento di una coppia, cioè di un insieme, il che è contrario allo spirito della sua “definizione”.

Concludiamo rapidamente.

Che rapporto si può instaurare tra le due colonne di destra e di sinistra del quadrato laca­niano, dove ogni termine rap­presenta la negazione del termine omologo che sta sulla stessa li­nea, esattamente come A e non A? Un rapporto sessuale pare escluso, essendo le due co­lonne travestimento dello stesso sesso. Nella conferenza che stiamo commentando, Lacan si avven­tura in considerazioni di lo­gica sim­bolica, forte di poche nozioni apprese studiando Frege, della cui Ideografia era affascinato. E, con il coraggio dell’ignoranza, osa affermare che tra destra e sini­stra nella tabella, come tra la de­stra e la sinistra speculari, non ci può es­sere rapporto né di congiunzione, né di disgiun­zione né di implicazione.

Dei forti invochiamo la calma. L’affermazione di Lacan è valida per congiunzione e impli­cazione. In logica classica, o meglio binaria, la congiunzione A et non A, come l’implicazione A seq non A, non sono tesi logiche. Ma la disgiunzione sì. A vel non A è una tesi classica fa­mosa, ben valida. È il noto principio del terzo escluso. Allora, cosa vuol dire La­can quando af­ferma che nel suo quadrato non vale la disgiunzione? La risposta, alla fine dell’argomen­tazione, è quasi scontata. Vuol dire che il quadrato lacaniano non è aristotelico ma al più in­tuizionista. In­fatti, solo in logiche come l’intuizionista, o più deboli, non vale in generale che A vel non A sia vero. (In effetti, il terzo escluso vale incondizionatamente solo per logiche definite su universi finiti).

Le conferme alla tesi che Lacan fosse da sempre su posizioni intuizioniste, nonostante “trasgressioni” transitorie (come quelle sopra segnalate, che non sono le sole), si possono ri­ca­vare ex post da tutto il curriculum intellettuale dell’uomo. Per quel che vale, ne citiamo una per tutte: la sua concezione tridimensionale del registro simbolico. Il quale fa giocare la “tridimensionalità” due volte.

Il registro simbolico è terzo tra i due attori del rapporto narcisistico, l’io e la sua imma­gine specu­lare. In quanto terzo, il simbolico (sup)porta la legge paterna che separa la madre dal fi­glio, la legge dai ma­schietti interpretata come legge di castrazione. Ma il registro sim­bolico è terzo anche rispetto a se stesso. Infatti, in quanto registro linguistico è formato dalla con­trap­posizione di elementi, i signifi­canti. Madre di ogni contrapposizione significante è, però, l’articolazione binaria della presenza e dell’assenza. Qui si ferma la logica classica. Qui si as­se­sta la sua ultima incarnazione, l’informatica. L’intuizionismo lacaniano fa un passo avanti. Contestualizza la pre­senza-assenza nel registro dell’appello (cfr. Lacan 1996, p. 67). L’appello in­voca il terzo che co­or­dini a sé as­senza (dell’oggetto) e presenza (del soggetto). Se non man­cherà la risposta alla chia­mata dell’Altro, l’azione del terzo si manife­sterà con un effetto “negativo” tipico: il rovesciamento dell’assenza dell’oggetto in mancanza, che pre­cede ogni perdita, e la metamorfosi della presenza del soggetto in materia evanescente, una sovver­sione che batte sul tempo ogni nichilismo. Perciò il simbolico regge le vicende pulsio­nali nelle loro varie vicissitu­dini che risuonano tanto più strane all’ascolto non analitico quanto meno bio­logicamente e quanto più linguisticamente strutturate si dimostrano.

Ma non è il caso di procedere oltre. Ci basta aver segnalato un modo per reinterpretare la laicità della pratica analitica come inclusione nella sua logica della funzione del terzo. Un modo realizzato in matematica da Brouwer e in analisi da Lacan.

1 Nome meno fondato sull’ideologia brouweriana, che concepiva la matematica come attività alingui­stica della mente intuente (cfr. Brouwer 1983, p. 30), sarebbe infinitismo. Infatti, contrariamente a Hilbert che voleva fondare l’infinito sul finito, Brouwer fon­dava il finito sull’infinito numerabile (come già Kronecker, del resto). Inoltre, Gödel (1932) aveva dimostrato che nessun sistema polivalente finito è adatto alla logica intuizionista) e Kripke (1965) ne ha esibito un mo­dello effet­tivo a più mondi tra cui vige una relazione di preordine [in effetti, un modello a più mondi non esclude il caso che i mondi siano infiniti. Il più di uno non implica l’infinito, ma neppure lo esclude; tertium datur.] Tuttavia, infinitismo sarebbe un’ingenuità. Infatti, l’infinito è l’oggetto della matematica di tutti i tempi. Implicito nella matematica eu­clidea classica, esplicito in quella non euclidea moderna (cfr. Casari 1997, p. 22).

2 Le difficoltà poste dalla negazione sono in parte trasposizioni di quelle che si incontrano nella que­stione dell’infinito (che nelle lingue europee già nel nome porta la particella della negazione).

Il pensatore a cui conviene rifarsi in questo caso è Spinoza. Nelle prime pagine della sua Etica leggiamo: Appartiene all’essenza di ciò che è assolutamente infinito tutto ciò che non implica negazione (Etica I parte, spiegazione alla definizione 6). L’infinito è ciò su cui la nega­zione non fa presa. Leggiamo ancora nello Scolio 1: Essere finito è in parte negazione ed essere infinito è as­soluta affermazione dell’esistenza di qualche natura. Non dimentichiamo che Spinoza è tra i primi mate­matici moderni a concepire l’infinito geometrico come infinito già affermato (in atto) e non solo da affer­mare (in potenza) (Lettera a Ludovico Meyer, 1663).

La lezione intuizionista giustifica la supposizione che affermare e negare non si situino allo stesso livello logico. Se affermare è affermare, negare è dimostrare che non si può affermare. La dissimmetria tra affer­mazione e negazione è data dall’intrusione nel discorso di questo oggetto unheimlich che è l’infinito.

3 Segnaliamo che un anno prima, nel 1936, nel suo famosissimo libretto L’Io e i meccanismi di difesa, Anna Freud riduce la negazione ad una difesa dal desiderio inconscio.


4 Un soggetto è vuoto quando è privo di punti interni per la topologia in cui è immerso (per esempio, la frontiera di un insieme è un insieme privo di punti interni). Seguendo Lukasiewicz oggi si chiama assioma di Aristotele (o di portata esistenziale) il principio per cui il soggetto di una proposizione categorica deve essere sempre non vuoto. Lacan supera tale principio con l’aiuto di Peirce che, nel suo On the Algebra of Logic (Peirce 1880, p. 104) estende l’applicabilità del quantificatore universale all’insieme vuoto.

Bibliografia

Brouwer, L.E.J. (1983) Lezioni sull’intuizionismo (Cambridge 1946-51), a cura di D. Van Dalen (Torino: Borin­ghieri).

Casari, E. (1997) Logica (Milano: TEA).

Fitting, M.C. (1969) Intuitionistic Logic, model theory and forcing (Amsterdam: North-Holland).

Freud, S.:

  • (1925) La Negazione, OSF, X (Torino: Boringhieri, 1978).

  • (1937) Analisi terminabile e interminabile, OSF, XI (Torino: Boringhieri, 1978).

Gödel, K.:

- (1932) Sul calcolo preposizionale intuizionista, in Wiener Akad Anzeiger, XXV, 11.

- (1958) Über eine bisher noch nicht benütze Erweiterung des finiten Standpunktes, Dialectica, vol. 12, pp. 280-87.

Johansson, I. (1937) Der Minimalkalkül, ein reduzierter intuitionistischer Formalismus, Comp. Math., 4, pp. 119-136.

Kripke S. (1965) “Semantical Analysis of intuitionistic logic” I, in Formal systems and recursive functions, pp. 92-130 (Amsterdam: North Holland).

Lacan, J.:

  • (1973) “L’Etourdit”, Scilicet 4, Seuil, Paris.

  • (1996) Le Séminaire, Livre IV. La relation d’objet (Paris: Seuil).

Matte Blanco, I. (1981) L’inconscio come insiemi infiniti - Saggio di bilogica, trad. P. Bria (Torino: Einaudi).

Peirce, C. S. (1880) On the Algebra of Logic, Coll. Papers vol. III and IV.

Sciacchitano, A. (1995) Il terzo incluso. Saggio di logica epistemica, Quaderni di Scibbolet, 1, Shakespeare and Company, Firenze.

Spector, C. (1962) Provably Recursive Functionals of Analysis, in “Proceedings of Symposia in Pure Mathematics”, vol. 5, American Mathematical Society.




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