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Paolo Tucci

Jacques Derrida, Elisabeth Roudinesco, quale domani ?




Il libro ha la forma di un dialogo-intervista tra Roudinesco e Derrida, un appassionato viaggio nella memoria collettiva della cultura francese. Affidiamo alle parole della Roudinesco la presentazione degli argomenti affrontati:

Abbiamo deciso di mettere a fuoco nove temi. Ognuno di essi mi sembra racchiudere almeno una delle grandi domande che attraversano il nostro tempo. Il nostro tentativo è stato quello di rispondervi attraverso una riflessione in cui coesistano, intersecandosi, diversi piani di discorso: filosofico, storico, letterario, politico, psicoanalitico.
Nel primo capitolo viene preso in analisi il problema dell’eredità intellettuale degli anni settanta, oggi tanto contestata. Nel secondo si discutono i vari usi, nella filosofia continentale come in quella analitica, della nozione di differenza--sessuale, etnica, culturale ecc. Nel terzo si affronta il processo di trasformazione cui sta andando incontro la famiglia in Occidente. Il quarto è dedicato a una riflessione sul tema della libertà umana. Il quinto si interroga sui diritti degli animali e sui doveri dell’uomo nei loro confronti. Nel sesto viene evocato lo spirito della Rivoluzione dopo la caduta del comunismo. I capitoli settimo e ottavo sono dedicati, rispettivamente, all’attualità della pena di morte e alla necessità della sua abolizione, e alle possibili forme di antisemitismo, presenti e future. Il libro si chiude con un elogio della psicoanalisi, termine di riferimento comune nello svolgersi del nostro dialogo.

Ma perché il titolo “Quale domani?”. Questa è una domanda che ricorre nei Canti del crepuscolo di Victor Hugo, il quale così prosegue: “Tutto, oggigiorno, nell’ambito delle idee come dei fatti, a livello della società come dell’individuo, è immerso in un generale crepuscolo. Ma di che natura è questo crepuscolo, e cosa vi farà seguito?”.
Come è possibile, oggi, affrontare il tema del domani? Il filosofo italiano Gianni Vattimo ne ha già parlato spesso come di un tramonto: non nel senso che a questa fase seguirà una nuova, gloriosa alba, bensì “nel senso che il corso del pensiero filosofico (...) è il lungo tramonto dell’idea di filosofia come sapere delle strutture immutabili”. Anche Derrida, come Vattimo, concepisce il compito della filosofia come un lungo congedo dal carattere metafisico della conoscenza; ma difficilmente troveremo nella lettura di questo testo un’affermazione di tale generalità; la pratica filosofica di Derrida si basa sull’idea di “decostruzione” e dunque non mira a parlare in generale ma, anche quando tratta di un singolo autore o di una specifica opera, tende, piuttosto, a scomporre il contesto nelle componenti di cui è costituito. Dice Derrida:

Ciò che mi interessa è (...) la ripartizione dei temi e delle forze operanti in questa o quell’opera identificando ciò che risulta egemone e ciò che viene, invece, marginalizzato, per non dire rinnegato.

Attraverso questa strada si raggiunge una verità di carattere performativo; il valore di questa scomposizione deriva più dalla sua congruenza, dall’efficacia delle interpretazioni che rende possibili, che non dal rigore logico argomentativo che la sostiene. Come scrisse Vattimo alcuni anni fa in una Introduzione a La scrittura e la differenza, “chi ha ascoltato Derrida in lezioni o seminari sa quanto è difficile fargli accettare qualsiasi ricostruzione del suo pensiero. Spessissimo egli si dichiara frainteso dai suoi interlocutori, e ciò specialmente quando si cerca di stabilire correlazioni delle sue tematiche con scuole, linee di pensiero, mode culturali o esigenze spirituali dell’epoca.”
La traccia per descrivere questo dialogo risiede nella figura dell’erede, proposta da Derrida ed accettata da Roudinesco. Dice Derrida:

Immaginate un uomo innamorato del passato innamorato di un passato assoluto, di un passato che non sia un presente ormai passato, ma che sia un passato, per così dire, a misura e a dismisura di una memoria senza fondo--ma un innamorato che rifiuti ogni passatismo, ogni nostalgia, ogni culto del ricordo. E’ allora una duplice ingiunzione, disagevole e contraddittoria, quella che riceve questo erede--che certo non è dunque ciò che si intende comunemente con la parola “erede”. Eppure niente mi sembrerebbe possibile, interessante e desiderabile senza questa eredità. Essa impone un duplice movimento: conservare in vita la vita, farla rivivere, renderle omaggio, e “lasciar vivere” nel senso più poetico e profondo di questa espressione che, purtroppo, è ormai divenuta uno slogan. Saper “lasciare”--e sapere cosa vuol dire “lasciare”--è una delle cose più belle, più coraggiose e più indispensabili che io conosca. Che fa tutt’uno con l’abbandono, con il dono ed il perdono. La pratica della decostruzione non è mai esente da questo--o, detto in altri termini, non è mai esente dall’amore.

E la Roudinesco risponde:

Da parte mia cercavo di essere fedele ma non dogmatica. Più tardi mi sono sentita più vicina alle sue posizioni ed ho riconosciuto che aveva ragione nello scegliere di far parlare le opere dall’interno, attraverso le loro incrinature, i loro spazi bianchi, i margini, le contraddizioni, senza renderle lettera morta un volta per tutte. Da ciò l’idea che il miglior modo per restare fedele a un’eredità ricevuta sia di esserle infedele, ovvero di non assumerla alla lettera, come una totalità assoluta, ma di cercare di coglierla in fallo, evidenziandone il tratto dogmatico.

A partire da questa figura dell’erede è possibile gettare uno sguardo sul futuro, ovvero sulla responsabilità a cui, come eredi, siamo tenuti.

(...) la nozione stessa di responsabilità--in quanto rispondere di, rispondere a e rispondere in nome di--ci viene consegnata, in tutto e per tutto, come un’eredità. Si è responsabili di fronte a ciò che viene prima di sé, ma anche nei confronti di ciò che deve ancora venire--e per ciò è davanti a sé. Due volte davanti--davanti a ciò che deve e davanti a ciò a cui deve una volta per tutte--l’erede è doppiamente in debito. Si tratta in entrambi i casi di una sorta di anacronismo: andare oltre nel nome di ciò che ci oltrepassa, e oltrepassare il nome stesso--inventare questo nome, firmare con un’altra firma, ogni volta in modo unico, irripetibile, ma nel nome di un nome ricevuto in eredità, se ciò è mai possibile

Innanzitutto ho trovato in questo testo un legame con la teoria della complessità, a cui teniamo in modo particolare noi gruppoanalisti. Entrambi gli autori si dichiarano “amici della psicoanalisi”. Derrida è stato profondamente segnato, nella sua formazione, dalla cultura psicoanalitica, e Roudinesco pratica come analista.
Elisabeth Roudinesco fu ammessa all’Ecole freudienne de Paris nel 1969, in base ad una norma, voluta da Lacan, la quale consentiva l’accesso agli “amici della psicoanalisi”, anche se non analisti. Da allora ha partecipato ai momenti più significativi della vita culturale francese fino a diventarne un esponente di rilievo. Nel 1986 viene pubblicata la sua Histoire de la psychanalyse en France che ha risonanza internazionale; nel 1993, Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un sistema di pensiero; nel 1997, il suo Dictionnaire de la psychanalyse, opera monumentale, articolata per concetti e per autori. Elisabeth Roudinesco è uno dei promotori de “Les Etats Généraux de la Psychanalyse” (www.etatsgeneraux-psychanalyse.net).
Jacques Derrida è uno dei filosofi contemporanei che maggiormente si sente in debito nei confronti della psicoanalisi. Il suo primo saggio su Freud risale al 1966 (in L’écriture et la différence) e da allora la psicoanalisi è stata materia di confronto con molti suoi amici e colleghi: Merleau-Ponty, Bataille, Ricoeur, Althusser, Deleuze, Foucault, Major. E’ sposato con la psicoanalista Marguerite Derrida, e si dichiara entusiasta di essere considerato un “amico della psicoanalisi” perché in tal modo si

esprime tutta la libertà di un’alleanza, di un impegno che fa a meno di statuti istituzionali. (...) in una parola questo dell’amicizia presuppone che la psicoanalisi rimanga un evento storico incancellabile, la sicurezza che si tratti di una buona cosa, che debba essere amata, sostenuta anche laddove--ed è il mio caso--non è mai stata praticata in modo istituzionale, né in quanto analizzato né in qualità di analista, e anche nel caso si nutrono gli interrogativi più profondi nei riguardi di buona parte dei cosiddetti fenomeni “psicoanalitici”, a livello teorico come istituzionale, giuridico, etico o politico.

Le posizioni illustrate da Derrida e Roudinesco trovano consonanze con gli interessi degli analisti. La prima consonanza è certamente nell’idea stessa di decostruzione, cioè nella convinzione--che Derrida descrive come “un assioma, la bussola di tutte le mie interpretazioni”--che ogni oggetto d’interpretazione (si tratti di teoria, di testo o di autore) è costituito da una complessità di voci, di anime diverse che è necessario decostruire, cioè che occorre “compierne una lettura separata, differenziata, e persino apparentemente contraddittoria”. Quest’idea richiama tra l’altro la nozione di “gruppalità interna” sviluppata in Italia da Diego Napolitani e, dunque, della lettura che la gruppoanalisi riserva agli stessi suoi autori, Freud compreso.
La seconda consonanza riguarda il giudizio sull’opera di Freud. Derrida dichiara che occorre stare “in guardia di fronte a tutti gli schemi metafisici all’opera nei progetti freudiani e lacaniani”. Anche lacaniani.

Preferisco, in Freud, le analisi parziali, locali, minori, i colpi di sonda più avventurosi. Queste intuizioni sono in grado di riorganizzare talora--almeno virtualmente--l’intero campo del sapere. (... )
L’amico della psicoanalisi che è in me è sospettoso non tanto nei confronti di un sapere positivo quanto del positivismo e di istanze metafisiche e metapsicologiche. Le grandi identità--Io, Es e Super-Io ecc.--ma anche le grandi 'opposizioni’ concettuali, troppo rigide e dunque precarie, che hanno fatto seguito a quelle freudiane--come i concetti di reale, immaginario e simbolico, di introiezione e incorporazione e via dicendo--mi sembra che vengano travolte--e ho cercato di dimostrarlo più volte--dell’ineluttabile necessità di una différance che ne cancella o ne disloca i confini, o li priva comunque di qualsiasi pretesa di rigore.

Elisabeth Roudinesco dissente su questo punto:

Io credo che sia invece necessario tener conto della radicale innovazione introdotta da Freud e continuare lavorare con la metapsicologia. Se si viene meno infatti a quelle che lei chiama le grandi macchine teoriche, si rischia di liquidare il principio stesso della 'sovversione’ freudiana, il suo carattere innovativo, e di ritornare invece vecchie nozioni di inconscio (...) C’è una fragilità intrinseca alla psicoanalisi che riguarda il suo stesso oggetto: l’inconscio, inteso in senso freudiano , può essere sempre evitato, confutato, giudicato 'pericoloso’ e dunque bandito dall’ambito della coscienza e della ragione. Da ciò la necessità, per conservare il carattere creativo, di fare continuamente ritorno a quell’atteggiamento originario di Freud contrario ai dogmi, dogmi che la psicoanalisi stessa risuscita nel momento in cui pretende di 'superare’ Freud, ovvero di 'seppellirlo’.

Per Derrida della metapsicologia “non se ne parla quasi più” perché “sono altre le 'finzioni teoriche’ che ormai si impongono” .
Questa critica a Freud richiederebbe altro approfondimento. Ma in Quale domani? è possibile cogliere, in maniera chiara ed accessibile, le linee essenziali ed aggiornate di un pensiero “amico” che concepisce l’amicizia, anzitutto, come confronto etico.





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