PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> FILOSOFIA

PSYCHOMEDIA
SCIENZE E PENSIERO
Filosofia



Si è per esser-ci
Riflessioni epistemologiche sul soggetto collettivo, con particolare riguardo all'opera di E. Morin

di Diego Napolitani



Riassunto

Con l'espressione "si è" l'A. intende il modo impersonale, collettivo, di porsi del soggetto, il modo che può essere definito nei termini di una prevalenza dell'idem nella complessità del sé individuale: "si è" in quanto parte di una storia altrui, in quanto soggetto ad una trama transpersonale e transgenerazionale. L'"esserci" è il momento emergente della disposizione autopoietica che sottrae l'uomo (sempre parzialmente e transitoriamente) dalla sua condizione di soggetto-a (e quindi di soggetto strutturalmente collettivo) per acquisire la posizione di progetto: questa posizione qualifica l'attualità singolare dell'individuo non solo nel senso del suo qui ed ora ma anche nel senso del suo possibile attuare trasformazioni del proprio rapporto col mondo. Nel presente lavoro l'A. si sofferma in particolare sui modi e sul senso di questa transizione, confrontandosi con il paradigma della complessità eco-sistemica, con particolare riferimento all'opera di E. Morin.



"Io mi accingo a scrivere un lavoro". Un osservatore che ritenesse questo mio comportamento rilevante, racconterebbe: "Diego si accinge a scrivere un lavoro". L'"Io" del primo enunciato, è lo stesso, ipse, "Diego", del secondo enunciato. Essi occupano la medesima posizione grammaticale in entrambe le proposizioni, la posizione di "soggetto" di un'azione, pur se la prima inerisce ad un atto riflessivo ("Io mi"), mentre la seconda inerisce ad un atto transitivo per cui "qualcuno" osserva, deduce, definisce il comportamento di "qualcun altro" che gli fa dire che "Diego si accinge a scrivere un lavoro". Questo "qualcuno", autore del secondo enunciato, resta implicito in esso, si nasconde pur manifestandosi attraverso il suo dire. Mentre l'"Io mi" sembra indicare un unico soggetto che si esaurisce nell'atto cognitivo rivolto a se stesso, il "Diego si accinge..." implica una duplicità di soggetti, nella quale il narrante rende il narrato oggetto della sua osservazione, deduzione, definizione. Il narrato diventa così un soggetto di secondo livello, soggetto di una proposizione secondaria, del tutto condizionato dall'atto narrativo del soggetto di primo livello. Se questo non fosse lì ad osservare, a computare l'osservato dalla sua propria prospettiva e secondo le sue personali risorse (memorie, affetti, immaginazione, cultura, abitudini) e quindi a narrare l'esito della complessa ibridazione tra quel che i suoi sensi gli trasmettono e il suo più intimo dispositivo interpretante, "Diego" semplicemente non comparirebbe nel suo discorso. "Diego" -in quanto totalmente dipendente nel suo esserci all'interno del discorso dell'Altro in virtù del dispositivo computante di questi- è soggetto-a tale dispositivo, è propriamente assoggettato, ad-sub-jectus, rispetto alla capacità-volontà di qualcuno che ne parli. Questo "soggetto" esiste dunque in virtù di un'autonoma scelta dell'Altro, esso è esposto ad una radicale etero-nomia perché possa entrare nel mondo, farne parte, ed assumere quindi eventualmente questo mondo, di cui fa originariamente parte, come parte propria.
Ma Diego può restare momentaneamente o relativamente indifferente all'eventualità che qualcuno lo renda "soggetto" di una propria narrazione: egli si è già reso soggetto autonomo del suo fare e del suo dirne, in virtù della sua proprietà riflessiva, e di cui egli può raccontare in prima (e apparentemente unica) persona. Anche se il Me è in qualche modo l'esito di un'oggettivazione narrativa dell'Io ("Io dico" = proposizione primaria, che "Io intendo scrivere" = proposizione secondaria), questo Me viene riassorbito sul piano dell'esperienza vissuta con l'Io che lo pronuncia, e questo riassorbimento è sintatticamente indicato dalla ri-flessione del Me sull'Io, per cui i due termini si identificano reciprocamente nella stessità dell'ipse. Ciò comporta una conclusione ontologica sull'autonoma dignità del "soggetto" risultante dalla perfetta sovrapponibilità di un percorso logico e di un'esperienza vissuta, per cui con il termine "soggetto" indichiamo simultaneamente l'autore di un atto volitivo e l'autore della narrazione interpretante del medesimo atto. Ogni soggetto sembra essere quindi assolutamente individuale, quale che sia il livello di organizzazione biologica in cui descrittivamente lo collochiamo: soggetto-individuo è sia la singola cellula, sia l'organismo multicellulare, sia l'essere umano in quanto essere comunicante, comunitario, societario. Mentre che il computo (1) subumano è cognizione istantanea e continua del mondo molecolare o cellulare di cui l'individuo è costituito e delle parti di ambiente esterno con cui stabilisce accoppiamenti di avvicinamento, di allontanamento, di nutrimento o di riproduzione, il soggetto-individuo umano include nel suo proprio computo anche il se stesso computante, anche il suo dispositivo ri-flessivo che produce un oggetto-Sé con cui si identifica.
Così stando le cose, avrebbe piena ed indiscussa legittimazione il ridurre ad un'unica bio-logia i processi cognitivi, computativi, organizzazionali, decisionali di ogni essere vivente (Bateson, Maturana, Varela, Morin, Manghi, Ceruti, Bocchi e tanti altri), essendo questa una eco-bio-logia fondata su un principio di causalità circolare tra individuo e ambiente a partire dal modello cibernetico (senza esaurirsi in esso). In tale eco-bio-logia Morin, distingue un triplice ordine organizzazionale: individui del primo tipo sono gli unicellulari, del secondo tipo i multi-cellulari, del terzo tipo gli individui multi- e trans-individuali o sociali (le società umane).
A fondamento unificante di questa tripartizione, e a monte della qualità riflessiva della cognizione umana, Morin (1980) pone la distinzione del Sé dal non-Sé, partendo dai processi immunologici (2) . Egli dice:

"l'elucidazione dei processi immunologici ha fatto emergere un'idea fino a quel momento sconosciuta in biologia: l'idea di Sé. Il Sé che scaturisce dall'opposizione immunologica al non-Sé (Grabar, 1947) costituisce un'autoaffermazione di identità individuale, ad un tempo molecolare e globale, dell'organismo." (p. 69-70)

E più avanti:

"La distinzione Sé/non-Sé si opera a livello dell'organismo in modo sorprendente. Non si tratta di una conoscenza che emana dal cervello dell'animale, bensì di una conoscenza globale dell'organismo, conoscenza che sarebbe il risultato delle interazioni tra le cellule con compiti immunologici e l'insieme dell'organismo. Vaz e Varela scrivono (1978, Self and non-sense, An Organism-centerd Approach to Immunology, "Medical Hypothesis", 4, pp. 231-67): "Il sistema immunologico può essere visto come una rete di interazioni cellulari che ad ogni istante determina la sua stessa identità". Essa determina, nel medesimo movimento, anche l'identità del Sé, cioè di tutto l'essere in quanto individuo. (...) "Se l'organismo non conosce se stesso, come può individuare la presenza di qualcosa di estraneo?" Vaz e Varela definiscono la discriminazione immunologica come conoscenza di Sé e non riconoscimento del resto. (...) L'atto cognitivo unico di discriminazione Sé/non-Sé produce due conoscenze di ordine diverso: da una parte il Sé si auto-riconosce, si auto-conferma come unità e con ciò si auto-afferma, dall'altra il non-Sé è conosciuto, non "in sé" ma "negativamente", come intruso." (pp. 70-71)

Si potrebbe applicare la medesima distinzione tra una conoscenza che si riferisce ad un Sé ed una conoscenza che si riferisce ad una presenza opaca del proprio ambiente (interno) quando ci trasferiamo nell'ambito cognitivo umano: qui la conoscenza di Sé, la conoscenza riflessiva, si imbatte incessantemente con tracce di "intrusi" (le immagini identificatorie) che, quando non siano sufficientemente assimilate al Sé, tanto da essere fondazioni della propria cultura (vedi nota 2), sono oscuramente avvertite come parti-non-Sé, che da un lato sanciscono intimamente la propria continuità con l'Altro, la propria identità trans-individuale, e dall'altro minacciano e coerciscono la auto-affermatività del Sé.
Tornando nell'ambito di una biologia generale, e non specificamente umana, è del tutto condivisibile la rappresentazione per la quale l'individuo non sa di sapere di Sé fino al momento in cui, per successive mutazioni genetiche e complessificazioni, non riesce a distinguere (riflessivamente) il suo Io-soggetto dal suo Io-desoggettivato, dal suo Io-oggetto, dal suo Self. Si comprende quindi che, in questa prospettiva, il concetto di auto-poiesi consiste sostanzialmente nelle elaborazioni strategiche, per ciò variabili e vastamente impredittibili, che il computo individuale produce a partire dalle sue informazioni genetiche. Ciò induce Morin a elaborare il prefisso "auto-" (da auto-organizzazione, auto-poiesi, auto-nomia e simili) nei seguenti termini:

"Ma il pensiero biologico non riesce a concepire il senso del prefisso auto. E finché non si arriverà a concepire cosa voglia dire auto, l'autonomia del vivente rimarrà condannata a fluttuare nel vuoto come un fantasma oppure a lasciarsi dissolvere dalle determinazioni eteronome.
(...) Dobbiamo quindi innanzitutto trasformare questo prefisso in nozione: l'autos. Una volta fatto questo, l'autos diviene la parola sfinge che ci pone il grande enigma della vita.
La nozione di autos deve risvegliare e rigenerare il prefisso auto, restituendogli i due sensi vitalmente inseparabili che gli appartengono, quello diretto, "il medesimo" (idem), e quello riflesso, "se stesso" (ipse); l'identico (idem) che definisce una specie, e l'identità (ipse) che definisce un individuo." (p. 16)

Con il macroconcetto di autos Morin costruisce il concetto di unidualità del soggetto-individuo, che è inseparabilmente genos e phainon:

"Sul versante genos possiamo riconoscere il generico, il genetico, il generatore, il rigeneratore. Sul versante phainon possiamo riconoscere l'esistenza hic et nunc di un'individualità singola inserita in un ambiente." (p. 22)

Ma con questa esplicazione l'autos perde il carattere di "parola sfinge che ci pone il grande enigma della vita" proprio perché assume una qualità definitoria, la "nozione" di un legame tra due entità, genos e phainon, sufficientemente definite. Ho personalmente sempre cercato di mantenere, di sostenere l'autos, sin dall'epoca delle mie prime costruzioni (Napolitani D., 1984), (epoca in cui non mi risultava ancora che altri si fossero puntualmente occupati di questi termini) in una sua specifica dimensione di enigmaticità, argomentando sulla sua non riducibilità a categorie pertinenti ad un computo razionale. L'auto-organizzazione, l'auto-poiesi umana, pur partecipando dei processi informazionali specie-specificamente costanti e dei computi strategici ego-eco-centrici sostanzialmente comuni a tutti gli organismi viventi, presenta caratteristiche che la differenziano strutturalmente da quella dei viventi subumani. E non differenze per quantità di organi computatori, o per una maggiore complessità interattiva tra loro stessi e tra il loro insieme e l'ambiente esterno, ma differenze connesse alla caratteristica di incompiutezza embrionica dell'individuo umano, cui lo stesso Morin fa riferimento citando tangenzialmente Bolk, senza però soffermarsi sulle enormi implicazioni epistemologiche che la condizione neotenica ed embrionica specificamente umana dovrebbe suggerire.
L'incompiutezza non consiste in un difetto, in una mancanza del DNA umano a confronto con quello di altre specie, ma in una sua diversa organizzazione tale da contenere informazioni circa una pre-disposizione a saturare la sua incompiuta Umwelt (corrispondenza insatura tra memorie comportamentali genetiche e corrispettivi ambienti naturali) attraverso un incessante processo di produzione/trasformazione dell'ambiente (esterno/interno)via simbolizzazioni. E' a questa pre-disposizione genetica che io conferisco il termine di autos, che resta quindi un ente enigmatico perché si riferisce non ad un disegno programmatico perfetto, per quanto plasmabile in rapporto alle circostanze ambientali (il phainon), ma a un dispositivo capace di produrre disegni programmatici, che, per differenziarli da quelli geneticamente "perfetti", possiamo convenire di denotare "progetti". I progetti, in questo senso ristretto, si annunciano nella particolare sintassi "irrazionale" del pensiero onirico, inteso non solo come quel pensiero che si esprime per lo più iconicamente nei sogni, ma come quell'approccio cognitivo ed emozionale che ha la qualità tendenziale di destrutturare/ristrutturare il mondo creando insiemi di connessioni, tessuti connettivi che ad un impatto iniziale possono apparire del tutto enigmatici ("l'autos è la parola sfinge che ci pone il grande enigma della vita"). Questi progetti che si autogenerano, pur utilizzando tutto il materiale che la storia individuale offre loro (i "residui diurni"), sfidano la stabilità naturale del mondo e delle sue consolidate rappresentazioni e, se non mettono in tilt il dispositivo computante dell'individuo che li "patisce", si offrono alla sua lettura interpretativa capace di trasformarli in disegni ideativi, comportamentali, esistenziali. Questa pre-disposizione progettuale autopoietica diventa soltanto allora disposizione attuale (emozionalmente cognitiva), nel momento del doppio impatto dell'individuo con il mondo interno e con il mondo esterno, senza che gli esiti di tale impatto possano essere consequenzialmente prevedibili né razionalmente misurabili. Tutte le relazioni umane possono essere facilitanti o inibenti la trasformazione di predisposizioni progettuali in nuove disposizioni esistenziali, ma anche le relazioni specificamente orientate a facilitare tale trasformazione, quali quelle di marca psicoanalitica, non hanno alcun margine di prevedibilità e nessuna misura capace di distinguere nel processo trasformativo cause da effetti.
Credo che sia del tutto superfluo sottolineare il fatto che l'autos, in quanto pre-disposizione geneticamente presente nella sua potenzialità, riguarda strutturalmente l'ambiente al quale, pur se in modo indeterminato, fa riferimento. Il che significa che non potrebbe esserci un autos al di fuori o a prescindere dall'ambiente nel quale prende corpo sotto forma di una disposizione emotivo-cognitiva. Il che equivale a dire che l'ambiente sarebbe un puro nulla per quell'uomo che fosse impossibilitato ad un certo momento della sua crescita (come forse la clinica ci suggerisce in determinati casi: l'autismo?) a sviluppare la sua predisposizione in dispositivi emotivi, cognitivi e quindi infine comportamentali ed esistenziali.
L'atto produttivo/trasformativo in cui originariamente si realizza l'autenticità umana consiste nel processo di ambientalizzazione (Napolitani D., 1991, 1994) cioè di internalizzazione selettiva e in qualche modo gerarchizzata dell'ambiente in cui nasce, che va distinta da processi più elementari e quasi automatici (e non autentici) quali sono i processi mimetici e di imprinting. Col termine ambientalizzazione intendo quel processo per cui l'ambiente esterno si trasforma in ambiente interno attraverso un'auto-organizzazione dell'impatto tra componenti geno-fenotipiche dell'individuo e componenti ambientali, impatto preorganizzato sintatticamente dalle specifiche strutture comunicazionali, relazionali, sociali che formano il mondo nel quale l'individuo umano accede alla vita. Questo precocissimo e indefinitamente aperto processo auto-ri-organizzativo costruisce il Sé individuale: secondo una indifferenziata ed unica bio-logia animale, come ho ricordato prima citando Morin, i processi immunologici indicano una separazione cognitiva perfetta tra il Sé e il non-Sé, ma a livello umano sembra impossibile concepire che l'individuo abbia una compiuta (per quanto non riflessiva) cognizione di sé che non sia, già forse in età prenatale, cognizione di un inscindibile insieme "Sé/non-Sé". Il non-Sé non è per l'uomo il termine oppositivo rispetto ad una sua ipotetica cognizione del Sé geneticamente satura, non è quindi la presenza "intrusiva" che minaccia la propria unicità individuale, la propria ipseità. ma essa è una componente essenziale per la fondazione della sua ipseità.
Il concepimento sessuato di un nuovo individuo si produce per un'auto-organizzazione della cellula uovo del tutto complementare all'auto-organizzazione dello spermatozoo: non si può parlare di un individuo figlio fintanto che non si sia compiuta la perfetta integrazione tra il dispositivo auto-organizzatore di una cellula con l'analogo dispositivo dell'altra cellula. L'individuo umano sembra necessitare di un doppio processo concepitivo: il primo è quello pertinente ad una biologia generale della riproduzione sessuata, il secondo è quello pertinente ad una biologia specificamente ed irriducibilmente umana. Questa seconda biologia vede trasformato l'ego-eco-centrismo adattativo delle organizzazioni viventi non-umane in un mente-centrismo produttivo/trasformativo proprio dell'uomo. Ma la "mente", che coincide a livello umano al Sé individuale, è già il prodotto di una "copulazione" tra l'auto-organizzazione del figlio dell'uomo con le auto-organizzazioni degli individui che lo hanno generato, ma, a differenza della copulazione genetica cellulare, questa copulazione di secondo tipo presenta tre caratteristiche fondamentali:
1) essa non si esaurisce in un unico atto, ma è un processo indefinitamente aperto;
2) la non saturazione delle identità dei genitori produce un individuo a sua volta non saturo, cioè predisposto ad atti produttivi/trasformativi;
3) il figlio esercita sugli stessi genitori, che rimangono individui pur dopo la copulazione, a differenza di ciò che avviene nella copulazione cellulare (3), sue autonome disposizioni produttive/trasformative, tali da modificare il Sé dei genitori. Il che significa che il figlio diventa "ambiente" per quello stesso "ambiente" che lo ha generato.
Il carattere fondativo del concepimento del Sé umano come concepimento di secondo grado, rende indistinguibile una ipotetica identità individuale del figlio, in quanto prodotto di una copulazione cellulare, dalla sua identità in quanto esito in continuo divenire di un processo produttivo/trasformativo di natura ricorsiva tra figlio e genitori, del loro reciproco concepirsi trasformativamente. La genesi del Sé umano non si esaurisce nell'ibridazione dei patrimoni genetici dei due genitori, ma implica, nel suo essere processo aperto, l'appropriazione, l'incorporazione, l'assimilazione delle auto-organizzazioni dei genitori a loro volta trasformate dal figlio da loro stesse prodotto. Il figlio non è quindi solo il depositario delle memorie genetiche dei genitori, né la sua mente dispone soltanto della memoria in quanto rievocazione di immagini pertinenti ad un passato, ma il figlio dell'uomo è simultaneamente e inscindibilmente memoria filo-genetica e memoria onto-genetica. Dice Morin:

"L'ontogenesi di un essere policellulare costituisce una sorta di rimemorazione della storia del philum a partire dallo stato cellulare. (...) E' come se il processo ancora estremamente oscuro dell'ontogenesi comportasse una dimensione rimemorativa che, come ogni rimemorazione, comporta cedimenti, errori, scorciatoie, abbreviazioni. (...) Ma si tratta di una rimemorazione completamente diversa dalle nostre rimemorazioni cerebrali, che sono delle rappresentazioni cerebrali. Le rimemorazioni genetiche non sono delle immagini ma delle azioni pratiche, che si effettuano ad immagine di azioni passate. Così la "rimemorazione" ontogenesica produce non l'irreale immagine-ricordo di un passato morto ma un essere vivente reale in cui questo passato risuscita." (p. 27)

Ciò che io definisco "memoria ontogenetica" non ha niente a che fare con le "rimemorazioni cerebrali" di cui parla Morin per cui viene prodotta una "irreale immagine-ricordo di un passato morto", né è la stessa cosa della memoria di un philum inscritta nel DNA (la memoria filogenetica), ma è una memoria sui generis del mondo comunicazionale in cui si è nati che entra a far parte costitutiva "dell'essere vivente reale in cui questo passato risuscita". Quindi anche questa rimemorazione, a parità di quella filo-genetica, non è fatta di immagini ma di "azioni pratiche che si effettuano ad immagine di azioni passate", cioè delle interazioni individuo <--> ambiente sin dal suo stato embrionale.
Se l'autos esaurisse una volta per tutte la sua organizzazione del rapporto tra il suo essere individuale e il suo ambiente attraverso un iniziale processo a termine di ambientalizzazione, l'individuo resterebbe il medesimo (l'idem), il costantemente identico all'intreccio tra memorie filo- e onto-genetiche sviluppatosi fino al termine di tale processo. Il se stesso (l'ipse) consisterebbe allora soltanto nel continuo adattamento strategico alle circostanze ambientali esterne che l'autos opererebbe sull'idem. Ma a differenza delle rimemorazioni filogenetiche, quelle ontogenetiche si accrescono indefinitamente pur mantenendo quelle più primitive un carattere di fissità, di stabilità, ed una funzione informazionale su tutti i successivi processi auto-ri-organizzatori. Ogni esperienza vissuta è tale in quanto l'evento viene inserito in un processo auto-poietico (l'autoriorganizzazione) da cui l'idem resta coinvolto e quindi, per estensione variabile, modificato. Gli eventi non sono solo accadimenti che emergono dalla opacità dell'ambiente esterno, ma sono anche quelli che emergono dall'opacità dell'ambiente interno. Direi di più: gli accadimenti esterni diventano eventi solo nella misura in cui toccano/sono toccati dall'ambiente interno. Questa eventualizzazione del mondo è di esclusiva pertinenza umana, è il modo nel quale si manifesta l'autos inscindibilmente connesso alla sua memoria ontogenetica, quindi storicamente, culturalmente segnato. L'idem è dunque la materia mediante la quale l'autos produce l'evento (la trasformazione di un "fatto" in "evento" è manifestazione della predisposizione progettuale, dell'autos) e trasforma l'ambiente, sia quello esterno che quello interno, il suo proprio idem.
Questo percorso è stato da me annunciato all'inizio nei termini "Io mi accingo a scrivere un lavoro" che ho confrontato con l'enunciato di un ipotetico osservatore "Diego si accinge ...". In quella premessa ho parlato di un "soggetto" riflessivo riguardo al primo enunciato, e di un "soggetto" (ad-sub-jectus), totalmente dipendente dalla autonoma capacità di eventualizzazione di un altro soggetto, nel secondo enunciato. Possiamo ora rivedere quella premessa alla luce delle argomentazioni fin qui svolte. Se restiamo a livello dei meccanismi computativi, possiamo mantenere la distinzione tra i due enunciati nei termini di una computazione che include il se stesso computante nel primo caso, e di una computazione che si rivolge ad un alter nei modi dell'interpretazione. Il "soggetto" sia dell'uno che dell'altro enunciato è fenomenicamente un individuo, e questa apparenza potrebbe farci concludere che il soggetto sia sempre e comunque "individuale". Ma se consideriamo il se stesso individuale come il phainon di una complessità ontologica, di una unidualità idem << autos in cui l'idem è memoria vivente dell'insieme delle relazioni storicamente accadute, per quanto incessantemente ri-organizzate dall'autos, dobbiamo concludere che il soggetto umano, fenomenicamente individuale, non può non essere che ontologicamente collettivo.
Il "collettivo" non va inteso come una pluralità di soggetti interattivi: si avrebbe qui semplicemente una visione fisicalista come avviene nella scomposizione del soggetto multicellulare in tanti soggetti cellulari, e della scomposizione di questi in tanti soggetti molecolari, e poi atomici e poi sub-atomici. La memoria ontogenetica di cui è fondamentalmente costituito l'idem, e tutte le successive esperienze di "formazione" della propria identità, non riguarda soggetti-a-se-stanti, ma relazioni comunicazionali, cioè intenzionamenti, aspettative, principi spazio-temporali, gerarchie sintattiche e sociali, accoglimenti/rifiuti che connettono tra loro i componenti dell'insieme ambientale. Questi elementi connettivi presentano le seguenti caratteristiche:
1) a differenza di quelli fisico-chimici o quelli trasmessi col DNA, questi elementi hanno una costanza e una coerenza molto relativi poiché sono espressione di una corrispondenza insatura tra genos e oikos dalla quale si sviluppa quella predisposizione alla produzione/trasformazione di mondo che è estremamente variabile, precaria, squilibrata e squilibrante;
2) la qualità instabile, precaria, transitoria di questi elementi connettivi viene per lo più occultata dall'uomo, che necessita di utilizzarli come orientatori certi della propria esistenza (nel difetto delle certezze filogeneticamente trasmesse). Questa necessità si esprime attraverso il concepimento dell'Assoluto, dell'Universale e di tutte le categorie ad esso correlate, e attraverso la simultanea dimenticanza che tali concetti sono stati una volta concepiti dall'uomo stesso. Questo concepire l'Assoluto e simultaneamente dimenticarne la natura concepitiva per attribuirgli il significato di una cosa-in-sé, di una datità oggettiva in cui dover credere e a cui dover ubbidire è una contraddizione radicale che informa la più intima compagine culturale dell'uomo. Quando egli diventa genitore, assumerà per sé, in rapporto al figlio, i medesimi caratteri di Ordine Assoluto dimenticando quanto sia il figlio stesso a co-concepirlo, inizialmente, con tali caratteristiche. I successivi processi di ri-concepimento da parte del figlio dei propri genitori, con la conseguente relativizzazione della loro assolutezza, espone il figlio dell'uomo a confrontarsi per tutta la vita con questa contraddizione radicale, che si manifesta come oscillazione tormentosa tra bisogno di certezze e necessità di destabilizzarle in nome della propria predisposizione ri-concepitiva.
3) di queste strutture connettive fa dunque parte integrante il bambino in quanto figlio che retroagisce con la sua originalità autopoietica sul tessuto comunicazionale in cui è immerso; ciò implica che nel processo di ambientalizzazione egli non "apprende" un Ordine precostituito a se stante, ma un Ordine disordinato/riordinato dalle sue stesse disposizioni autopoietiche.
Già nel rapporto neonatale con la madre, il bambino è immerso in un mondo polifonico e policentrico, perché tale è già il mondo individuale della madre; nella mia esemplificazione iniziale dicevo che il "Diego" nominato, osservato, descritto, interpretato da un narratore è assolutamente assoggettato a questo nel senso di una sua assoluta dipendenza dalla volontà/capacità del narratore di farlo "vivere" nella sua propria storia. A differenza del "Diego" adulto capace di esser-ci, per lo meno epidsodicamente, in modo relativamente indipendente dalle storie altrui in cui viene eventualmente e attualmente incluso, il neonato è sulla via di una ambientalizzazione primaria, di una fondazione auto-organizzativa del Sé, per cui egli non è in grado di esser-ci con sufficiente stabilità autoriflessiva, e tende quindi a rappresentarsi per lo più come quel "si è" definito dalla nominazione interpretante dell'altro-da-sé. Ma questo atto è l'esito incerto, variabile, per lo più contraddittorio della molteplicità di contenuti affettivi, cognitivi, comunicazionali, societari di cui la madre in primis è portatrice nella struttura policentrica del suo idem. Quindi prima di qualsiasi socializzazione secondaria, il figlio dell'uomo è già inscritto in una struttura societaria cui far fronte auto-organizzativamente attraverso l'ambientalizzazione. In questo senso si può dire che ciascun individuo è prima di tutto personaggio di uno scenario complesso in cui la madre lo inserisce, ed è quindi portatore e narratore, in un modo relativamente autonomo, di una storia altrui. Con la sua crescente capacità computativa/espressiva egli continuerà quindi a narrare indefinitamente la storia nel quale l'altro lo ha incluso -e che egli quindi include in sé, variamente trasformandola- come se fosse la propria storia. Rimando a tal proposito al caso paradigmatico di Narciso (Napolitani D., 1994) che non ha potuto reggere alla distinzione tra la propria storia e quella della madre nel momento critico della dissoluzione della propria immagine rispetto alla materia altra costituita dall'acqua dello stagno.
Da quanto detto si può arguire che quel soggetto-individuo di terzo tipo che Morin indica nella struttura societaria non è il prodotto di un'interazione tra soggetti-individui di secondo tipo (i multicellulari umani), a parità delle società di api, termiti o formiche. La società umana è la produzione sempre incompiuta, mai perfetta, operata da quegli specialissimi organismi insaturi per quel che riguarda il patrimonio programmatico di natura genetica ma ipersaturi di presenze altrui e di predisposizioni progettuali a fondamento della propria identità. La società umana è prodotta da soggetti collettivi che non possono non narrare la storia dei propri generatori, per quanto possano destrutturarla e ristrutturarla autopoieticamente, per cui la stessa società ha nel suo fondamento la storia di società antecedenti da cui è gemmata, che è il racconto delle origini sotto forma di miti, di ideologie, di visioni pre-giudiziali -non-giudiziose- del mondo. Anche la società come un insieme "individuale" ha una sua propria autopoiesi trasformativa, ha cioè un potere autoriorganizzazionale che parte dalla destrutturazione-ristrutturazione dei suoi paradigmi mitologici. Non credo che sia possibile qui distinguere percorsi biunivoci tra individuo umano e individuo sociale, data la stretta e imprescindibile ricorsività tra questi due soggetti collettivi. Morin dice a tal proposito:

"Ogni individuo sociale [che è sempre quindi un soggetto collettivo] racchiude nel cuore del suo ego-auto-centrismo la presenza immanente dell'essere societario [ciò a cui io mi riferisco nei termini dell'ambientalizzazione che rende propria la storia altrui di cui si è originariamente solo parte]. Un "per-sé" societario si costituisce e ri-costituisce incessantemente a partire dal "per noi" dei congeneri e la società si afferma come "essere-per-sé" nelle sue azioni e reazioni." (p. 159)

Possiamo infine concludere dispiegando l'accartocciamento semantico dell'enunciato che fa da titolo al presente lavoro: "Si è per esser-ci". Questo enunciato ha un implicito valore teleologico proposto dal finalismo del "per", valore che forse non può non tradire una sua deriva ideologica, un suo mito di emancipazione e di riscatto. Il passaggio dal "si è" all'"esser-ci" può significare: il punto di partenza è un essere impersonale, quell'essere che resta coinvolto dal "si" della chiacchiera (Heidegger, 1927), dalle parole vociate, insinuanti ed imperiose -"sussurri e grida"-, .che trafiggono il suo più intimo silenzio germinativo, quello dal quale potrebbero germogliare progetti. Il "si è" individuale appartiene all'"esser-si" del mondo ed il "si è" mondano si insinua e si stabilizza nella compagine stessa dell'individuo che finisce col contenere ciò da cui è originariamente contenuto. Come avviene per il bambino che si raccoglie nella storia di lui, a partire dal "suo" nome, che altri gli narrano. A partire da questa irresponsabilità, che sarebbe forse meglio indicare come non-auto-interrogabilità del "si", emerge in modo progressivamente articolato, e quindi distinguibile, la necessità predisposizionale dell'autos a produrre/trasformare il mondo esterno/interno che si riassume nel "si". Ogni momento in cui, dal soggetto "si", promana un'emergenza cognitiva di qualità simbolica -la predisposizione progettuale-, il "si" si scompagina (sempre in modo relativo e parziale). Questo scompaginamento -letteralmente un rimescolare le pagine della memoria agita, della chiacchiera, della storia chiusa in una sua ritornante circolarità- è vissuto come un perturbamento emotivo a cui "si" può non reggere o a cui "si" può reggere. Nel primo caso le "buone ragioni" dell'idem prevalgono sulla spinta espressiva dell'autos, sotto forma della sua predisposizione progettuale, e questa viene ri-gettata nell'opacità da cui è emersa. Nel secondo caso la predisposizione viene pro-gettata come attualità simbolica, gettata davanti allo sguardo computante interpretante dell'individuo-in-comunicazione col mondo, aprendosi qui la possibilità di una concreta disposizione emozionalmente vissuta a nuove forme di conoscenza, e quindi di rifondazione della realtà. In questa disposizione emozionalmente vissuta, in questa sortita autentica dall'inautentico recinto del "si", si apre la condizione singolare, del tutto eventuale, dell'"esser-ci" nella sua duplice accezione dell'essere "qui ed ora" e dell'essere "l'uno all'altro" nelle rispettive e reciproche emergenze dai "si". L'"esserci" non esclude da sé il fondamento collettivo che comunque e sempre lo qualifica nella sua identità (il suo idem), ma è nello stesso tempo un suo auto-trascendimento, il suo sollevarsi-da-sé, come l'atto folle, irrazionale e vero, del Barone di Münchausen, che si solleva tirandosi per il codino (S. Manghi, 1990)
Voglio concludere riportando un mio sogno fatto solo alcuni giorni fa, e l'interpretazione che ne ho dato, come esemplificazione in vivo delle argomentazioni fin qui presentate sull'emergenza dell'esserci nella sua singolarità autoaffermativa rispetto alla complessa intersecazione delle storie, che avendomi generato sono ancora lì, in me e per me, come una terra di conquista già mille volte esplorata ma sempre ancora aperta ad una mia inesauribile necessità di riconquista. Devo premettere che questo sogno nasce in un momento in cui sono prevalentemente preso da due occupazioni: la stesura di questo mio lavoro e l'intensa esperienza analitica con una paziente, di cui accenno soltanto il fatto che il suo faticoso e drammatico processo di emancipazione dalle sue storie "chiuse" ha più e più volte creato in me profonde risonanze emotive e paralleli riattraversamenti delle mie matrici. Dunque, mi trovavo a Positano, paese nel quale con la mia famiglia ero sfollato durante il periodo dei più devastanti bombardamenti di Napoli, nel 1943. Nel sogno affermavo con particolare enfasi che "Positano è il più bel paese del mondo", riferendomi in cuor mio al fatto che quello è stato il luogo nel quale ho sperimentato con la massima intensità la vicenda del mio "passaggio" adolescenziale. Mi trovo improvvisamente accanto mia madre e le comunico, senza neanche guardarla, di aver sempre avuto una repulsione nei suoi confronti "perché sei e sei sempre stata per il 75% dentro la fossa e solo per il 25% fuori". Avverto la crudezza delle mie parole, e pur indicando con la parola "fossa" una tomba, questa non evocava in me altra immagine se non una squadrata fossa nella terra nuda senza alcun riferimento a qualcosa di cimiteriale o comunque di monumentale. Solo dopo aver detto queste parole, mi volgo a guardare mia madre, e la vedo in tutta la sua figura giovanile, con il volto serio e molto attento, incorniciato dai suoi lunghi capelli neri. A questo punto la "repulsione" dichiarata un attimo prima si converte in un sentimento di profonda dolcezza, che solo al risveglio mi viene di riconoscere come il sentimento per una bambina mai nata completamente: una bambina trattenuta "per il 75%" in quella fredda fossa che istantaneamente collego al freddo ventre di mia nonna. Il sogno continua con una sequela di immagini relative ad un mio essere con altri colleghi alle prese con una scrivania ingombra di carte, di libri e di computer, tutti insieme sollecitati da un'urgenza a portare a termine un qualche lavoro di tipo editoriale.
Tutto il sogno mi si presenta come espressione di quella "predisposizione progettuale", quell'atto iniziale di autoriorganizzazione della mia identità storica (in una sua determinata prospezione). Il sogno si presenta come un tessuto connettivo grandemente suggestivo dalla cui trama però non si distingue, a prima vista, alcun disegno organicamente compiuto. Da questo sogno vengo colpito ed ho la fortuna (?) di non rigettarlo nell'oscurità delle sue scaturigini. Allora posso farne qualcosa. L'attualità nella quale il sogno mi compare è prevalentemente caratterizzata dal mio impegno a trattare il passaggio dal "si è" all'"esserci", intimamente correlato al mio impegno analitico con la mia paziente. In tale contesto, strettamente relazionale, e densamente problematico, mi è dato di sentire la "parola sfinge", che si presenta iconicamente nella narrazione onirica. Positano, il luogo del passaggio, si anima della presenza di mia madre e della mia necessità a distinguermene, nei termini emozionali della repulsione: lei corposamente mi rappresenta il "si è" in quanto prevalentemente infossata nel freddo ventre di sua madre; io, figlio di una madre non compiutamente nata, rischio di ridurmi ad una sua appendice, di appartenere a lei come lei appartiene alle sue matrici: attraverso di lei io mi rappresento la possibilità di chiudermi con lei nella fossa che la rinserra. Forse il mio stesso sentimento di "repulsione" altro non è che un vincolo, per quanto negativo, che mi trattiene nello spessore delle mie/sue matrici. Ma nell'atto di pronunciare queste terribili parole, succede che io la guardo, la distinguo e me ne distinguo, e la vedo nella sua interezza come se il mio guardarla l'avesse sottratta al suo destino di non-nata: l'immagine di lei, mortalmente catturata dal suo "si", era in-nata in me, e il mio sguardo, nel renderla libera dalla sua cattura, la fa ri-nascere in me, in un atto di conoscenza che ha la dolcezza amorosa di un riconcepimento. Allora soltanto il soggetto collettivo, che qui si limita solo a tre generazioni ma che è strutturato dall'indefinibile insieme di relazioni di cui i tre personaggi sono solo i vertici paradigmatici, dà luogo ad un mio "esserci" di fronte all'"esserci" attento ed intero di una giovane donna. Questa trasformazione dispone il mio "esserci" al suo concreto progettarsi nel "farsi" del mio lavoro, che dal sogno trapassa nella mia viva attualità sia come momento interlocutorio nello spazio conoscitivo con la mia paziente, sia come fraseggio conclusivo di questo mio impegno "editoriale".


BIBLIOGRAFIA

Heidegger M, (1927) Essere e tempo, ed. Longanesi, 1976
Manghi S., (1990) Il gatto con le ali, ed. Feltrinelli.
Morin E., (1984) Scienza con coscienza, ed. Franco Angeli
Morin E., (1987) La vita della vita, ed Feltrinelli
Morin E., (1989) La conoscenza della conoscenza, ed. Feltrinelli
Napolitani, D. (1981)Struttura gruppale della psicoanalisi e analisi del gruppo. in LE FRONTIERE DELLA PSICOANALISI, a c. di C. Ravasini, ed. F. Angeli, 1981, pp.89-136
Napolitani D., (1984), L'"autòs" dell'autenticità e l'"idem" dell'identità nella loro coniugazione simbolopoietica, relazione presentata a Torino, nel corso del 3o Seminario del "GRISU" il 20/2/1984
Napolitani D., (1984) Al di là dell'individuo , Ruolo Terapeutico, 1984, 36, pp.20-26
Napolitani D. (1986) Crisi del paradigma fisiologico in psicoanalisi. Complessità identificatorie e gruppalità interne, Rivista Italiana di Psicoanalisi, 1986, 32, 3, pp.429-437
Napolitani D., (1991) Mente e Universi relazionali, Riv. It. Gruppoan., 1991, VI, 1-2, pp. 15-47 e in "PENSARE L'APPRENDERE", a c. di N. Benedetto, UPSEL Editore, 1994, pp. 54-78
Napolitani D., (1994) Diversità, tolleranze e trasformazioni gruppali. Storie chiuse e storie aperte: il prodigio dell'albero-foresta, Riv. It. Gruppoan., 1994, IX, Nuova serie no 11


NOTE

(1) "La minima azione, reazione, interazione, retroazione del minimo essere vivente esige e implica una computazione. L'essere vivente computa in permanenza, e la computazione, in questo senso, è l'essere stesso.. Ricordo che per me il termine "computazione" non si riduce al semplice calcolo ma va inteso in riferimento al suo senso originale, quello di "con-putare", dove "putare" significa tra l'altro esaminare, stimare, valutare, supporre e "con" significa insieme, che lega o confronta ciò che è separato, che separa o distingue ciò che è legato." (Morin, 1980, p.73)

(2) Mi sembra interessante ricordare qui che nelle mie iniziali elaborazioni sui processi di identificazione, in quanto fondamento della cultura, della sua trasmissibilità e della sua possibilità di venire successivamente auto-riorganizzata, ho messo a confronto questi processi (in quanto assimilazione dell'altro a sé) con il rigetto che i processi immunologici producono nei confronti di sostanze tissutali eteronome. Dicevo che "ciò che in biologia produce malattia, in psicologia produce cultura". (Napolitani D., 1981, 1984,1986)

(3) Nella copulazione cellulare lo spermatozoo perde la sua identità individuale (muore) nel momento in cui il suo patrimonio cromosomico si unisce a quello dell'uovo per formare una nuova struttura cromosomica. La cellula uovo, depositaria di questa nuova struttura, ed in funzione di questa, subisce per scissioni e moltiplicazioni successive, una trasformazione che la fa scomparire come individuo unicellulare per diventare individuo multicellulare. Si può perciò dire che l'embrione è un'organizzazione che prende il posto delle cellule che lo hanno generato (quelle cellule non esistono più in alcun luogo), mentre il figlio è quella medesima organizzazione che nasce e cresce in relazione con i portatori delle cellule sessuali.


PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> FILOSOFIA