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Il mito del desiderio
tra filosofia e psicoanalisi

di Fabio Ciaramelli



A partire dalle pagine conclusive del Liside platonico (221d-222d), il discorso speculativo della filosofia determina il desiderio umano come ricerca di ciò che manca al desiderante perché gli è stato sottratto o portato via, ed è perciò compreso come causa o fondamento [aitia] dell'attrazione verso l'oggetto un tempo posseduto, poi accidentalmente perduto, ma in prospettiva promesso al ritrovamento della nostalgia. Di conseguenza, la tensione affettiva [philia] verso ciò che desideriamo appare determinata da una preliminare dimestichezza con esso, cioè esattamente dal fatto che qualcosa ci era appartenuto prima che ci venisse a mancare. Alla stregua d'un bisogno, il desiderio risulterebbe provvisto d'un suo complemento naturale, il solo in grado di soddisfarlo in maniera automatica e compiuta. Platone per definirlo usa il termine greco oikeion (221 e): ciò che è familiare, ciò che appartiene alla casa. Quel che è desiderato sarebbe ciò che, in quanto tale, corrisponde al desiderante perché a lui confacente e adeguato. Ha ragione Octavio Paz: in fin dei conti, per Platone, il desiderio "non è propriamente una relazione: è un'avventura solitaria" (1). E tuttavia il suo radicamento nell'immediatezza del proprio è problematico. Nel Simposio (205e) si possono leggere queste parole pronunciate da Diotima: "Non ciò che gli appartiene, credo, ognuno ama, a meno che uno non definisca il bene come ciò che gli è proprio [oikeion] e gli appartiene [eautou] e il male come ciò che è estraneo [allotrion]".
Non emerge già qui il sospetto che quanto appartiene a ciascuno non sia in se stesso desiderabile e appagante, ma che lo diventi solo dopo esser stato reso adeguato e conveniente? Le cose stanno proprio così, altrimenti non sarebbe necessario identificare preliminarmente il bene a ciò che è proprio e il male a ciò che è estraneo. Il nesso tra il desiderio e l'intimità accogliente del proprio o del familiare non è originario. Il che rende insostenibile il presupposto d'una semplicità armonica dell'origine, e invita a domandarsi se la provenienza del desiderio dall'unità originaria non sia esclusivamente un effetto retrospettivo e una proiezione dell'intento più profondo ma più illusorio e più irrealizzabile del desiderio stesso: il diniego del rimando e delle mediazioni, il ritorno alla presunta pienezza immediata e beatificante dell'origine.
In realtà, gli spasmi del desiderio non s'acquietano al pensiero dell'intangibilità della meta futura e restano allergici alla disincantata saggezza dell'ammonizione di Montale:

Felicità raggiunta, si cammina
per te su fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama (2).

Viceversa il desiderio si compiace di vedere nel traguardo della felicità un ritorno alla pienezza dell'origine da cui presume di provenire. Ma proprio in questa pretesa di procedere dall'immediatezza d'uno stadio anteriore in cui il pungolo dell'estraneo non era ancora presente e operante, fa capolino il mito stesso del desiderio, consistente nel reificare e oggettivare il passato senza tempo dell'origine, e nel declinare in termini regressivi e nostalgici la ricerca del proprio appagamento. Ciò comporta un disconoscimento della natura necessariamente indiretta del movimento stesso del desiderare, la cui presunta scaturigine da uno stadio primordiale caratterizzato dall'appagamento immediato, cioè dal possesso pieno del proprio, induce il desiderio stesso a ricercare il suo soddisfacimento in un'assimilazione immediata e diretta, vale a dire intuitiva, d'un oggetto che gli sia connaturato.
Tenere il desiderio ben distinto dalla nostalgia dell'origine significa allora resistere all'auspicio profondo del desiderio che mira alla propria abolizione vivendosi come aspirazione a un bene un tempo immediatamente goduto, poi perduto, ed ora promesso a un recuperato possesso. All'estraneità dell'origine segue la nostalgia. In tal modo, il desiderio sconfessa il carattere originario dell'esperienza vissuta e soggiace al mito d'una sua provenienza da uno stadio precedente, caratterizzato da un possesso pieno e assolutamente appagante, la cui mancanza sarebbe solo accidentale e provvisoria. Ne consegue che il traguardo del desiderio, sul presupposto d'un suo preliminare appagamento immediato, non sarebbe altro che il ritorno all'origine. Infatti il godimento pieno del proprio si presume già posseduto in una fase anteriore d'immediatezza e di pienezza, estranea alle inquietudini e alle tensioni dell'esperienza vissuta, posta fin dall'inizio sotto il segno della mancanza. In tal modo, il desiderio finisce per viversi come effetto della perdita d'una beatitudine primordiale, la sola che gli possa risultare pienamente adeguata. Il che suppone o implica che il destino del desiderio sia già segnato dalla necessità di riconquistare il suo primitivo complemento naturale. Preceduto da un possesso pieno e originale, il desiderio non tenderebbe che alla reintegrazione della pienezza perduta. Il suo percorso sarebbe già predeterminato dalla coincidenza tra principio e fine: ma è proprio questa coincidenza che costituisce l'oggetto e la posta in gioco del desiderio. "In my beginning is my end" con quel che segue: "In my end is my beginning" (3). L'opera di Eliot è, come dice Octavio Paz, ricerca "della dimora ancestrale" (4) attraverso la poesia. Quest'ultima è nella sua essenza "fame di realtà", desiderio in azione, che - attraverso la mediazione dell'immagine - non si limita a rivelare ma provoca l'identità degli irriducibili (5): nel nostro caso, l'intersezione immaginaria di punto d'arrivo e punto di partenza.
Ecco che l'ansia e gli affanni del desiderio concretamente vissuto e dei suoi sempre aleatori rimandi si trasformano in un definito intervallo temporale, delimitato da un "prima" e un "dopo" nei quali la mediazione del desiderio era e sarà sostituita da un contatto diretto e frontale con ciò che può pienamente appagarlo. Il senso o l'orientamento profondo del vissuto umano appaiono allora il recupero d'una condizione nella quale non vi sia più nulla da desiderare, nella quale, cioè, l'oggetto connaturato e proprio al desiderio sia stato finalmente ritrovato e conquistato.
La nostalgia regressiva dell'origine è ciò che accomuna la pretesa speculativa del sapere filosofico al desiderio inconscio. In termini freudiani, vi è uno stadio originale di quiete, una situazione di appagamento e d'immediato equilibrio naturale che costituisce non solo l'origine ma al tempo stesso l'obiettivo agognato dal desiderio come movimento psichico mirante al ripristino d'un soddisfacimento primitivo (6). Ecco precisarsi all'orizzonte del desiderio l'immagine originaria e paradigmatica d'un possesso pieno e immediato di quella pienezza beatificante la cui malaugurata perdita è poi diventata il pungolo e il rovello della vita psichica. E tuttavia, dal momento che l'esperienza effettivamente vissuta è solo quella dell'aspirazione e della ricerca, l'immediatezza di quel possesso pieno non può che costituirne una fantasia compensativa, elaborata retrospettivamente dal desiderio inconscio. In altri termini, dal momento che l'immediatezza di un'origine assolutamente appagante è per definizione estranea all'attualità del vissuto umano, non si può non riconoscere nella sua raffigurazione e formulazione un effetto differito del desiderio. Lungi dall'essere un che di immediatamente dato al vissuto d'una percezione attuale, l'immagine del possesso pieno del proprio è un prodotto del desiderio, che sogna il godimento pieno d'una felicità paradisiaca, preliminare all'insorgenza della mancanza e alla correlativa necessità della ricerca sempre aleatoria e precaria del proprio soddisfacimento.
Nel saggio sulla negazione, riferendosi allo stadio originario della vita psichica caratterizzata dal dominio assoluto del principio di piacere, nel quale dunque l'assenza del principio di realtà implica l'esclusione d'una qualunque forma di esteriorità riguardo all'io originario, Freud sostiene che quest'ultimo vuole "introiettare in sé tutto il bene e rigettare da sé tutto il male. Per l'Io ciò che è male, ciò che è estraneo all'Io, ciò che si trova al di fuori, sono in un primo tempo identici" (7) . Dal momento che questa fase originaria della vita psichica, secondo lo stesso modello freudiano, è caratterizzata dall'appagamento immediato ma allucinatorio del desiderio, tanto che la sola esistenza della rappresentazione [Vorstellung] era garanzia della realtà del rappresentato, occorre domandarsi dove la psiche abbia potuto trovare quel male che poi tende a rigettare fuori di sé. Quale estraneità può mai infastidire il proprio e il familiare in questa fase originaria e primordiale in cui ignorano ed escludono ogni esteriorità? Come può l'odio esser stato "più antico dell'amore", se "l'odio scaturisce dal ripudio che l'Io narcisitico oppone al mondo esterno" (8), mentre in questa fase una realtà esterna non s'è ancora costituita per l'Io?
Come già suggeriva il passo del Simposio citato in apertura, l'origine del proprio, l'appartenenza o la familiarità dell'oikeiotes, non è caratterizzata dall'unitaria semplicità d'un possesso appagante e tranquillizante, ma è già portatrice d'uno sdoppiamento, d'una tensione irrisolta, d'una non coincidenza. L'ansiosa inquietudine del desiderio non sopraggiunge alla semplicità appagata d'una pienezza originaria, ma la attraversa e ne costituisce la complicazione primordiale.
All'origine, nel seno stesso del proprio, prima che una realtà esterna si costituisca, la psiche già patisce l'angoscia: angoscia originaria che - come Freud finirà col sostenere in Inibizione, sintomo e angoscia (1925) - "non procede dalla rimozione ma la provoca" (9). Prima della rimozione, prima della costituzione d'una realtà esterna, la psiche s'angoscia di se stessa. Di quest'angoscia, la fonte ultima è dunque l'inospitalità dell'origine, la sua non immediatezza, il suo sdoppiamento. L'appropriazione del proprio, l'attaccamento naturale dell'io a sé, non è che la posta in gioco d'un processo caratterizzato dall'espulsione dall'origine, dalla percezione della sua inabitabilità, dalla necessità della sua rimozione. Il male, ciò che mette l'io a disagio e ciò che l'io sarà spinto a rigettare fuori di sé fino a considerarlo esterno a sé, prima che emerga la rimozione come difesa dall'angoscia originaria, si trova al suo interno, nel fondo stesso del proprio, e tuttavia l'io non vi accede immediatamente, ma solo in modo derivato e indiretto, rigettandolo fuori di sé: trasformando l'estraneo, l'estraneità del proprio, nell'esterno, nell'esteriorità del fuori.
E' questa insostenibilità dell'origine che il discorso speculativo della filosofia s'adopera a disconoscere e denegare, cedendo al fantasma del desiderio, e riproponendosi d'attingere l'unità perduta attraverso la ricerca speculativa dell'originario. Quest'ultima mira a esplicitare, delucidare e in definitiva oltrepassare l'obliquità delle implicazioni e dei rimandi che sempre già strutturano e complicano l'esperienza vissuta, la cui impalcatura categoriale si ridurrebbe a una necessaria ma derivata costruzione di significati che al tempo stesso traducono e tradiscono la loro provenienza dall'origine. Attraverso la ricerca dell'originario la filosofia speculativa tende a considerare provvisorie e inessenziali le tappe intermedie del proprio itinerario, la cui curvatura retrospettiva è mossa dalla pretesa di abolire lo scarto tra il passato dileguato dell'origine e il presente dell'esperienza vissuta, fino a poter pienamente riattingere la presunta coincidenza tra l'originario e l'immediato. Sennonché, anche quando l'originario si configura trascendentalmente come ciò di cui il pensiero stesso è l'origine attiva, lo statuto ontologico dell'origine - il suo passato senza tempo - resta nondimeno caratterizzato da un'intrinseca inaccessibilità immediata, da una vera e propria estraneità, cioè dal suo sottrarsi all'insostenibile pretesa della teoresi che si propone di afferrarne intuitivamente l'auto-donazione o auto-esibizione diretta. Ne consegue che un sapere puro dell'originario è in realtà il mito stesso della ricerca filosofica, la cui tensione propriamente speculativa ambisce a un appagamento immediato, reso possibile esclusivamente dall'afferramento definitivo e compiuto della cosa stessa, "come luce che all'improvviso (exaiphnes) s'accende da una scintilla di fuoco, per nutrirsi poi di se stessa" (10).
C'è una convergenza singolare tra la più profonda aspirazione della vita psichica e la più diffusa pretesa della filosofia speculativa: entrambe interpretano il desiderio come tensione all'assoluta immediatezza - e all'appagamento beatificante - d'un'origine perduta. Entrambe hanno la tendenza ad addomesticare le asprezze e l'inospitalità dell'originario, la sua inabitabilità, la necessità di separarsene. Entrambe idealizzano la nostalgia della patria perduta. È proprio questo presupposto d'un appagamento preliminare e assoluto che si ritrova alla base della nostalgia delle origini, fonte nascosta della hybris ontologico-speculativa, ma al tempo stesso struttura portante della vita psichica originaria.
Il presupposto implicito ma logicamente inevitabile del mito del desiderio è l'accessibilità immediata dell'origine, la sua autodonazione pura, che in quanto tale dovrebbe costituire l'oggetto privilegiato dell'intuizione speculativa. Tutto ciò implica come suo corollario il postulato della semplicità unitaria dell'originario, della sua immediatezza, considerata come caratteristica reale ma perduta del tempo mitico delle origini, e posta come traguardo finale verso cui tende il desiderio.
Sennonché l'inquietudine e l'affanno dell'esperienza trovano solo immaginaria quiete nel paradigma d'una preliminare pienezza compiuta, d'un'originaria presenza disponibile e totalmente soddisfacente. In realtà, sullo schermo dell'origine, il desiderio proietta e vede già realizzata la sua aspirazione a un appagamento immediato e totale: appagamento che viene a configurarsi come la percezione pienamente e attualmente vissuta d'un soddisfacimento di sé preliminare a qualunque mancanza - più antico d'ogni desiderio. Orbene, giacché il desiderio costituisce l'orizzonte iniziale del vissuto, e dunque il punto di partenza della vita psichica, bisogna riconoscere che qui è in gioco la fantasia d'un'origine che preceda l'inizio. Se infatti l'inizio è caratterizzato dalle mediazioni e dai rimandi del desiderio, l'originario prima dell'iniziale è viceversa immaginato e vagheggiato come l'immediatezza d'una presenza piena e assolutamente appagante. E tuttavia nell'ordine dell'esperienza vissuta l'affanno del desiderio non conosce nessuna fase d'immediata pienezza da cui deriverebbe. Contrariamente alla fantasia d'onnipotenza della psiche che si costruisce una genealogia immaginaria, depurata da ogni smentita della sua pretesa all'appagamento immediato, l'inquietudine del desiderio è tanto iniziale che originaria. Il che significa che prima della "condanna a desiderare" non c'è stata alcuna fase caratterizzata da un soddisfacimento immediato che si tratterebbe di ripristinare.
Del tutto singolare, tuttavia, è l'originarietà del desiderio, in quanto l'ambito del desiderio è intrinsecamente derivato, indiretto o trasversale, benché non sia preceduto da alcun regime originario d'appropriazione diretta. Il suo inesausto tendere a ciò che si può solo desiderare perché per definizione sfugge alla presa e al possesso, non è successivo a nessuna fusione primitiva. La tensione del desiderio è quindi coeva alla vita psichica: lo scarto tra il desiderio e il desiderato non è né accidentale né provvisorio, ma attiene alla strutturale impossibilità d'avere accesso immediato e diretto a ciò che è e resta altro dal desiderio. C'è desiderio solo laddove non è possibile un rapporto d'assimilazione nella forma della conoscenza, del possesso, del consumo - cioè della dissoluzione dell'altro o del superamento della sua estraneità.
Prima della differenza testimoniata dal desiderio non c'era alcuna unità originaria. Il dato ultimo dell'esperienza vissuta è dunque esattamente la mediazione del desiderio, la sua inquieta tensione verso l'altro. L'insorgenza del desiderio è perciò paradossalmente, al tempo stesso, originaria, perché non preceduta da alcun soddisfacimento primitivo, e derivata o indiretta, perché inevitabilmente rinvia al desiderabile che provoca e fa emergere il desiderio. Senza l'inaccessibilità immediata dell'origine non vi sarebbe (insorgenza del) desiderio. Ma questo è precisamente ciò che l'aspirazione più profonda del desiderio umano non riesce a tollerare, perché l'accessibilità solo trasversale e simbolica resa possibile dal desiderio è sempre parziale e provvisoria, ed è per definizione aliena da ogni appagamento immediato e compiuto.
Ciò che sembra logicamente incompatibile, ciò che al tempo stesso è in contrasto con l'aspirazione psichica all'autosufficienza, è invece la struttura ultima del desiderio, originario proprio in quanto indiretto e derivato, cioè incapace d'autogenerarsi. Ciò che lo suscita gli resta irriducibile: l'estraneità del desiderabile non si lascia assorbire nel desiderio, e ne costituisce l'intrinseco limite. Ma è proprio questa inaccessibilità, senza di cui s'estinguerebbe, che il desiderio tende attivamente a negare e sopprimere, con ciò avvitandosi su di sé, orientandosi verso una realizzazione compiuta che lo renderebbe, come desiderio, superfluo e inutile. V'è dunque, nel cuore stesso del desiderio, una sua subdola e tenace tendenza che lo sdoppia e lo mette contro se stesso, inducendolo a non voler più desiderare, a non aver più nulla da desiderare, a esaurirsi in una fusione immediata col dato in cui si consumerebbe il vagheggiato ritorno all'origine. Secondo un'indicazione di Piera Aulagnier, è questo il senso ultimo della pulsione di morte, che tende a ristabilire l'originaria quiete dell'inorganico cercando "d'annientare ogni ragione di ricerca e d'attesa grazie al ritorno a un silenzio primario, a un prima del desiderio in cui s'ignorava d'essere "condannati a desiderare"... Questa tendenza regressiva verso un impossibile prima è ciò che chiamiamo Thanatos" (11).
È proprio questa aspirazione all'appagamento immediato che, al tempo stesso, costituisce il fondo oscuro del desiderio e la sua zavorra. Infatti, la tendenza spontanea del desiderio ricusa e disconosce la struttura indiretta e derivata che in modo essenziale e insuperabile appartiene alla vitalità stessa dell'esperienza umana. Ecco perché quella struttura viene avvertita come la degradazione d'una fase originaria, che precederebbe tutto quanto effettivamente si dà al vissuto attuale, per definizione estraneo all'immediatezza d'un rapporto diretto alla "cosa stessa". Lo stesso ordine della deviazione, del rimando, del differimento, invece di costituire il dato ultimo dell'esperienza umana, appare illusoriamente derivato da un'immediatezza preliminare, direttamente vissuta nel tempo mitico delle origini. Ed è la promessa immaginaria d'un ritorno all'origine che dà al desiderio un orientamento regressivo e nostalgico. In tal modo, il desiderio inconscio, in ciò solidale con le pretese del pensiero speculativo, si commisura a un paradigma ontologico di stabilità e di immobilità autosufficiente, che non a caso si rivela del tutto inadeguato "a una vita, a un divenire, capaci di rinnovamento, di Desiderio, di società" (12).
Il diniego della propria originarietà da parte del desiderio implica il rifiuto d'un regime di rimandi e mediazioni che nell'ordine dell'esperienza vissuta non è preceduto da nessuna possibilità d'una percezione frontale dell'origine. È il vagheggiamento d'una tale immediatezza previa e assoluta, è la fantasia d'una simile pienezza originale caratterizzata da un autoriferimento diretto e autosufficiente, in cui il desiderio si compiace d'individuare la propria sorgente, pur negandone e occultandone precisamente il carattere fantasmatico, derivato, costruito e quindi spacciandola per il vissuto originale d'una pienezza perduta, di un'immediatezza onniavvolgente. Il desiderio presume così di provenire da un'origine che lo precede, e nella quale la tensione stessa del desiderio era preliminarmente riassorbita, giacché non v'era nulla da desiderare, ma tutto era immediatamente dato e goduto. Stadio di tranquillo e appagante possesso del proprio, nella cui immediatezza non s'insinuava il pungolo di nessuna estraneità. Ottimismo d'un'origine immediata e accogliente, che costituisce al tempo stesso la condizione da cui il desiderio presume di provenire e la meta ch'esso si prefigge di raggiungere. Il ripristino del soddisfacimento perduto costituisce allora la promessa che lo ripagherebbe e lo ripagherà del suo struggimento. In questo senso, arché e telos finiscono per coincidere.
La necessità ermeneutica del passaggio dialettico attraverso le tappe provvisorie d'infinite mediazioni preparatorie, va tenuta perciò ben distinta dal tacito, ma in questo contesto inevitabile, presupposto speculativo dell'intrinseca semplicità dell'origine, cioè della sua trasparenza pura, della sua disponibilità al colpo d'occhio speculativo che, prescindendo ormai da ogni intermediario, possa cogliere la presunta immediatezza originaria del darsi della "cosa stessa". Precisamente perché quest'ultima non è esperibile inizialmente, ma dev'esser conquistata in forza del laborioso svincolarsi dagli sviamenti dell'esperienza costituita, l'attraversamento delle mediazioni è inevitabile. Ma lo statuto indiretto del sapere categoriale quotidiano resta solo derivato e provvisorio, e in ogni caso si rivela inadeguato alla postulata semplicità dell'origine, alla sua intimità immediata che precede le stesse mediazioni dell'apparire. L'immediatezza dell'origine verrà allora intesa come assolutamente svincolata da ogni articolazione o complicazione - il che permetterà di considerarla suscettibile di mostrarsi o esibirsi nell'exaiphnes d'un attingimento speculativo, istantaneo e diretto, e dunque intuitivo. Infatti solo la semplicità immediata dell'intuizione è adeguata e conforme alla ritrosia che in questa prospettiva deve caratterizzare l'intimità dell'origine. Certo di quest'ultima, in virtù del suo ritrarsi nell'inapparente, non vi saranno vissuto o sapere immediati, se per immediatezza s'intende il coinvolgimento iniziale dell'esperienza nelle implicazioni oblique delle apparenze categoriali: ma invece solo dell'origine è necessario presupporre un'esperienza inaugurale e conclusiva davvero immediata, se per immediato s'intende il puro darsi in originale o in persona, in maniera diretta e non contaminata da rimandi spuri, della semplicità inapparente del senso. In questo secondo senso consiste l'accezione speculativa dell'immediato.
L'amalgama dell'originario e dell'immediato, il loro inscindibile legame occultato dai rimandi che strutturano l'esperienza derivata e costituita del nostro essere-al-mondo, è di natura ontologico-speculativa. L'unico modo per accedervi consiste nel ritrovare l'immediatezza dell'origine sempre già occultata e nascosta sotto la spessa coltre delle mediazioni e dei rimandi che fin dall'inizio strutturano l'apparire. Proprio perché l'immediato dell'origine all'inizio non si dà, dev'essere ricercato e indagato come ciò che le mediazioni iniziali nascondono ma presuppongono.
E' questo presupposto dell'accessibilità immediata o diretta dell'originario che dà alla pretesa speculativa della ricerca dell'origine il suo andamento propriamente nostalgico. L'itinerario dominante della filosofia acquisisce così la circolarità di un'odissea: ciò che lo mette in moto è la tensione al riattingimento della perduta immediatezza o intimità dell'origine, che in tanto ne costituisce la posta in gioco e il telos, in quanto la coscienza filosofica presume di provenire da una patria accogliente e appagante, da cui è stata bensì dolorosamente estromessa per poter arricchire il proprio bagaglio di esperienze e conoscenze, ma a cui è destinata a tornare. Come l'anima platonica, essa tende a ritrovare il luogo - il "lassù [ekeise]" - da cui proviene, quell'altrove che tuttavia, come scrive Jankélévitch, un tempo era stato quaggiù (13).
Horkheimer e Adorno hanno individuato in questa strategia di rassicurazione la costituzione stessa della coscienza filosofica, di cui l'Odissea omerica narra la preistoria. Ma la soggettività dell'eroe che mira a tornare in patria si costituisce proprio sottraendosi al mondo mitico. Sennonché il concetto di patria al quale egli si richiama nel suo far getto di sé per ritrovarsi, è irriducibile al mito del ritorno all'origine, poiché la stabilità e l'appagamento della patria da lui ricercati, non sono un dato originario e poi perduto, sì invece una posta in gioco e una conquista. Memori del frammento di Novalis, citato com'è noto da Heidegger all'inizio delle lezioni del 1929/30 (Die Grundbegriffe der Philosophie) -, secondo il quale ogni "filosofia è nostalgia [Heimweh], impulso d'essere dappertutto a casa propria", Horkheimer e Adorno osservano che una simile definizione della filosofia "è giusta solo se questa nostalgia non si esaurisce nel fantasma di qualcosa di antichissimo e di perduto, ma mostra la patria, la natura stessa, come ciò che prima è stato estorto al mito. Patria è l'avvenuto scampo [Heimat is das Entronnensein]" (14).
Analogamente, l'opposizione levinasiana tra il mito greco dell'eroe che parte per tornare a casa e il "movimento senza ritorno" di Abramo che abbandona la sua terra d'origine per dirigersi verso un paese da cui non procede ma che desidera (15), invita implicitamente a pensare la donazione solo indiretta dell'origine, la sua originaria estraneità inospitale, e di converso il carattere mitologico del suo asservimento a ogni illusione di purezza e immediatezza. Il trauma dell'origine è la dolorosa necessità di sfuggire alla cattura del desiderio nella dimensione fantasmatica dell'imprigionamento a una datità immediata. Solo soggiacendo al mito speculativo che fornisce al desiderio l'illusione di derivare da uno stadio anteriore caratterizzato dal possesso originario del suo oggetto complementare, la coscienza filosofica può presumere di trascendere il mondo derivato delle apparenze, in vista del riattingimento della pienezza perduta dell'origine, della sua autodonazione diretta. Sennonché, per dirla ancora con Levinas, questo movimento di trascendenza è solo un movimento "presunto", poiché in realtà "si riduce a un ritorno a partire da un esilio immaginario" (16). L'esilio nel mondo delle apparenze è qui ben detto immaginario, poiché invero il mondo delle apparenze nel quale noi tutti ci troviamo non è stato preceduto da alcun soggiorno in una mitica "patria vera" (17): è piuttosto "l'avvenuto scampo" dalla mitologia del "prima" del desiderio che costituisce la realtà della patria, cioè del mondo delle apparenze irriducibilmente oblique, e sempre eventualmente ingannevoli, nel quale il desiderio non potrà mai appagarsi di nessun oggetto automaticamente fornito del potere di restituirgli l'immaginaria presenza d'una pienezza perduta, ma dovrà incessantemente percorre la deriva obbligata della socializzazione. La riduzione del desiderio alla figura paralizzante d'una nostalgia regressiva finisce col disconoscere la concretezza del desiderio umano come desiderio sociale la cui fonte non è l'accessibilità immediata dell'origine - illusoria e solo fantasticata -, ma la pluralità umana, lo scambio sociale originale, inteso non già "come un effetto della società" ma come "la società stessa in atto" (18). Bisogna perciò distinguere il desiderio sociale, il desiderio dell'altro, dal desiderio inconscio, centrato sulla chiusura del proprio, e sul suo (presunto) soddisfacimento originario.
La differenza tra le due dimensioni è data dal fatto che il desiderio inconscio è caratterizzato dal godimento immediato del suo oggetto, e quindi dalla totale assenza dello scarto temporale tra il desiderio e il suo soddisfacimento, mentre il desiderio dell'altro ha una struttura inevitabilmente trasversale, indiretta od obliqua. Il punto decisivo è che il desiderio inconscio non ha autentica alterità, confinato com'è all'interno della vita psichica originaria. Una volta ammessa l'istituzione indispensabile di quella che Freud chiama "prova di realtà", tutta la complessa attività soggettiva messa in moto dal desiderio in vista del raggiungimento d'un che di esterno alla psiche, "non rappresenta", dice ancora, assai efficacemente, Freud, "che una via indiretta, resa necessaria dall'esperienza, per giungere all'appagamento di desiderio" (19)
Al contrario, la pretesa originaria del desiderio inconscio, per il quale non esiste alcun "dato di realtà [Realitätszeichen]", implica l'accessibilità immediata del proprio oggetto, attraverso cui la psiche si compiace e s'illude di riattingere un soddisfacimento immediato di sé e del proprio desiderio, che peraltro presume d'esser stato il soddisfacimento originale, l'unico pienamente adeguato. Il desiderio inconscio - e con esso la hybris ontologico-metafisica della filosofia speculativa che ne trae alimento - presuppone che prima dell'istituzione d'una prova di realtà resa necessaria dall'esperienza, prima dunque dell'insorgenza della "via indiretta" dell'appagamento di desiderio e della complessità inevitabile della struttura di rimando che gli è connessa, abbia avuto luogo, nella forma d'una realizzazione compiuta originaria e preliminare, quel che invece di fatto costituisce soltanto - e non può che limitarsi a costituire - la mèta dell'itinerario del desiderio. Del quale perciò può ben dirsi che mira a ritornare all'Itaca da cui presume illusoriamente d'esser partito.
Ecco il mito del desiderio inconscio, che si ripercuote e s'amplifica nell'eros speculativo della filosofia. Ma - come ci ricorda Levinas - il desiderio autentico non aspira al ritorno proprio perché, lungi dal tendere a ciò da cui procede, s'orienta verso l'estraneità dell'altro - vale a dire verso quanto eccede la sua origine all'interno stesso del soggetto. Ne consegue che l'origine donde il desiderio proviene non dev'esser pensata come una pienezza o una presenza perdute ma pur sempre promesse alla ricerca, sì invece come un'assenza o una "pura mancanza": non già una mancanza di questo o quell'oggetto, ma una mancanza in cui, paradossalmente "la perdita precede quanto è perduto. Questo significa che, se vi è desiderio [...], ciò non deriva della perdita d'una qualche origine, ma proprio dal fatto che la perdita è essa stessa l'origine" (20). All'origine non v'è dunque la pienezza d'un possesso o d'una proprietà costitutivi del proprio, la cui degradazione o il cui impoverimento susciterebbe il desiderio regressivo - il bisogno - d'un recupero o d'un ripristino. L'originario si configura perciò come radicale non immediatezza, cioè come esplosione verso un'alterità estranea al proprio, ma fin dall'inizio, in virtù della sua stessa assenza, implicata nel proprio.
Il desiderio umano è questa tensione perpetua, che resta irriducibile all'automatismo dei bisogni. Esso è sempre indiretto e sempre già culturalmente codificato. Proprio l'assenza d'un codice genetico che permetta ai bisogni naturali di trasformarsi in desideri sociali, allontana l'essere umano dall'immediatezza del dato e l'inserisce nel mondo dei simboli e delle creazioni culturali. L'uomo, l'animale non ancora determinato, das noch nicht festgestellte Tier di Nietzsche, deve creare se stesso come essere culturale. E lo fa attraverso il desiderio distinto dal bisogno.
L'origine del desiderio non è dunque la patria accogliente e perduta, ma la necessità "d'eludere l'immediatezza mortale del dato" (21). In questo senso, come scrive icasticamente Castoriadis, "l'umanità emerge dal Caos, dall'Abisso, dal Senza-Fondo" (22). Per l'umanità, a dire il vero, il caos e l'abisso non sono unicamente ciò da cui essa emerge, ma ciò che ontologicamente sempre essenzialmente l'accompagna, persistendo, al fondo della psiche e alla base della società, come fattori d'instabilità e di permanente autoalterazione.
Solo in questo scarto tra sé e sé, in questa inaccessibilità immediata dell'origine, può insinuarsi il desiderio, senza di cui l'autocreazione dell'essere culturale non sarebbe possibile. Essa implica la necessità di partire da sé per alterarsi e trasformarsi, cioè per porsi come origine di sé : e tuttavia il "sé" da cui si tratta di partire, non è ancora costituito, proprio perché è l'esito del movimento in cui la creazione, originandosi, viene a sé senza partire da nessun luogo.
La metamorfosi del desiderio è una creazione radicale senza però essere assoluta - senza esser dunque né illimitata né immediata o istantanea, senza inglobare la totalità nella presunta trasparenza dell'originario, e senza peraltro potersi riassumere o riassorbire nell'evento semplice e puntuale d'un darsi immediato dell'essere allo sguardo panoramico della teoria. Il carattere poietico e non teoretico dell'essere è originario, ma l'originario non è l'oggetto possibile d'alcuna visione istantanea e diretta. Non esiste intuizione dell'origine, poiché l'auto-originarsi dell'essere non si coglie come tale se non post festum. L'abisso attraversa l'essente, ne è costantemente all'origine, ma si tratta d'una origine da cui non ci s'avvede d'esser preceduti e di provenire se non per essersene separati. "Prima" della separazione, non esiste vissuto immediato dell'originario; "dopo" la separazione, un vissuto diretto dell'originario è intrinsecamente impossibile (questa è stata, da ultimo, l'illusione intuizionistica della fenomenologia husserliana). Ciò che è originario, a ben vedere, è dunque precisamente la separazione dall'origine, la cui "perdita" o "mancanza" è, essa sì, propriamente originaria, giacché ne precede il mai avvenuto e mai goduto possesso, oggetto esclusivamente di vagheggiamenti mitici. L'abisso originario donde procede la metamorfosi del desiderio e che persiste in essa è quindi accessibile solo entro e attraverso la separazione o lo scarto, il che rende preliminarmente illusoria qualunque fantasia di fusione primordiale.
Il mito - come scrive Pietro Barcellona in un saggio di prossima pubblicazione (Excursus sulla "modernità". Aporie e prospettive, cap. V) - è un tentativo di razionalizzare l'angoscia della separazione dall'origine attraverso il racconto che l'addomestica. C'è dunque un rapporto tragico con la potenza delle origini, e il mito rappresenta il controllo della perdita di potenza susseguente alla possibilità stessa dell'autonomia. In altri termini, l'origine è sempre e soltanto l'orizzonte avvolgente ma sfuggente d'una pienezza pienamente realizzata, compiuta e determinata: l'immagine d'un ordine totale. Senza la sua frattura non vi sarebbero vita, separazione, desiderio. Ma questa frattura, questa perdita d'una presunta e solo vagheggiata immediatezza originaria è ciò che il mito si propone di ricostruire e riparare.
Il mito del desiderio è dunque questa reintegrazione dell'origine, possibile però solo retrospettivamente come vagheggiamento di ciò che non fu mai vissuto nella pienezza d'un presente attuale e immediato. La struttura stessa dell'origine, infatti, esclude la sua autodonazione diretta e immediata. L'origine è tale solo a case fatte, après coup, nachträglich. Proprio in quanto separazione dall'origine, l'evento dell'essere - genesi ontologica - è etimologicamente Ursprung, balzo primordiale, movimento letteralmente primesautier, in virtù del quale nulla può mai dirsi puramente, viversi immediatamente o darsi a vedere direttamente come origine, giacché l'origine è sempre un originar-si, un far-si essere come origine, il manifestarsi ed effettuarsi nello sdoppiamento di sé.
Lungi dall'essere, nella sua intrinseca struttura ontologica, immediata e semplice, l'origine è paradossalmente già in se stessa derivata e obliqua. L'originario non è mai stato e non sarà mai - è strutturalmente escluso che sia - in se stesso immediato. L'intrinseca semplicità dell'origine, le sue presunte istantaneità e trasparenza, condizioni di possibilità della sua autodonazione diretta, sono in realtà il mito speculativo del discorso filosofico, attraverso il quale viene data garanzia ontologica all'auspicio più profondo, all'intento più radicale, al desiderio più irrealizzabile della psiche: l'accessibilità immediata al senso, il che oscuramente fa corpo col diniego della mortalità e col rifiuto della caducità (nel senso freudiano della Vergänglichkeit) che minaccia l'onnipotenza dei desideri.
Ciò che è originario, in quanto tale, si sottrae a un afferramento istantaneo, puro e diretto, e si mostra perciò di per se stesso inaccessibile "in persona", inafferrabile in carne e ossa, irrappresentabile: sempre già passato o perduto. E' solo a posteriori, a partire dai suoi effetti, che può aversi accesso all'origine, la quale perciò, in quanto tale, in se stessa, cioè nella sua stessa struttura ontologica, non sfugge alla complicazione della circolarità. Il presente d'un atto di coscienza vissuto immediatamente in prima persona non è l'originario, e di converso l'origine non è mai stata presente. Quel che può dirsi presente fin dall'origine, è solo ciò che, a partire da quanto di quella origine è conseguenza e filiazione storica, ce ne apparirà après coup costitutivo. La semplicità immediata della coincidenza ultima dell'origine è precisamente quel che tenta d'attingere la dialettica speculativa, che deve rimuovere e negare l'articolazione interna dell'originario, l'insormontabile scarto di origine e principio che gli è immanente.
Lo schema secondo cui l'obiettivo del desiderio individuale e collettivo sarebbe il recupero nostalgico della pienezza delle origini, è proprio lo schema sotteso al progetto d'un accesso speculativo all'essere e al vero nella tradizione dominante della metafisica occidentale. Questo schema risponde alle esigenze più radicali e profonde del desiderio umano, sulla cui base la hybris ontologica appare come il modo privilegiato di dare appagamento teorico alla nostalgia delle origini perdute. Da Platone fino a Husserl e Heidegger la vis speculativa non fa che alimentarsene. A mio avviso, può essere utile considerare che gli elementi salienti di questa tradizione - che ovviamente non vi si riduce in alcun modo - consistano nel postulare la semplicità dell'origine, originariamente rimessa al possesso d'un godimento diretto, e perciò stesso sottratta nella sua inattingibile intimità all'ordine derivato e secondo della sua perdita o del suo occultamento al di sotto delle apparenze fenomeniche. Il che al tempo stesso comporta uno sdoppiamento del senso stesso dell'immediato: prima dell'"immediatezza" iniziale del campo d'apparenze fenomeniche nel quale siamo da sempre inseriti o imprigionati - che si tratti dell'ambito della conoscenza sensibile in Platone, dell'atteggiamento naturale da sottoporre a riduzione in Husserl o della medietà quotidiana in Heidegger, senza ovviamente trascurare l'in sé del sapere apparente che costituisce in Hegel l'inizio non mediato del cammino dello spirito - e dal quale ci si deve allontanare per attingerne il significato autentico, vi sarebbe l'immediatezza autentica o propriamente detta: l'immediatezza dell'originario, caratterizzata dall'autodonazione dell'origine, dalla sua trasparenza diretta. In altri termini, nella tradizione speculativa, nell'accezione che tale tradizione dà a queste nozioni, l'iniziale non è ancora (e, dall'altro punto di vista, non è più) l'originario (23). Questo livello in cui l'origine si dà a vedere così com'è in se stessa a partir da se stessa, senza dover ricorrere alle mediazioni inevitabilmente oblique e perciò derivate delle apparenze fenomeniche, costituisce, in virtù della propria immediatezza semplice, il correlato d'un afferramento puro e totalmente appagante, in grado di coincidere senza residui con l'assimilazione del suo oggetto. La struttura d'un tale rapporto immediato e diretto all'origine, così come quel rapporto ha luogo nel passato mitico dal quale presume di scaturire il presente derivato dell'esilio nel mondo delle apparenze, è una struttura intuitiva. Ed è ancora la visione immediata, cioè l'intuizione - il godimento diretto e puro dell'originario -, a cosituire il telos dell'atteggiamento speculativo, precisamente nella misura in cui si presume che ne sia stata l'arche. Il circolo del vero in Hegel ha per questo motivo all'inizio la propria fine come suo scopo. L'inizio - l'inserimento iniziale nell'ordine delle apparenze - presuppone che prima della tragica separazione dall'origine, cioè prima della perdita della (presunta) immediatezza e della (agognata) semplicità originaria, prima dunque dell'insorgenza della complessità inevitabile della struttura del rimando, abbia avuto luogo, in quanto realizzazione originaria e preliminare, quel che ormai si pone soltanto come mèta dell'itinerario del desiderio. Il quale perciò mira a ritornare all'Itaca da cui presume illusoriamente d'esser partito.
Ecco il mito del desiderio umano, che si ripercuote e s'amplifica nell'eros speculativo della filosofia. Mito incessantemente alimentato dall'addomesticamento della separazione originaria, dalla pretesa d'un'assoluta immediatezza. Mito che a sua volta sorregge il desiderio ogni qualvolta quest'ultimo mira illusoriamente al ripristino d'un soddisfacimento immediato di sé, che peraltro presume d'esser stato il soddisfacimento originale, l'unico pienamente adeguato. Il che di conseguenza presuppone come scontata l'accessibilità immediata dell'origine, vale a dire il radicarsi del desiderio in una fase mitica e irrappresentabile, nella quale, a rigore, il desiderio era impossibile in quanto superfluo e inutile. In quella fase, infatti, l'oggetto preso di mira dal desiderio non doveva esser ricercato e poi più o meno faticosamente raggiunto, essendo in effetti immediatamente già posseduto. Con ciò evitando al desiderio stesso quella che ne costituisce la frustrazione massima e più destabilizzante: il sempre possibile rifiutarsi o venir meno o scomparire dell'oggetto dell'investimento psichico. Con ciò anche sopprimendo in anticipo la fastidiosa necessità del lavoro del lutto, cioè l'esperienza stessa della mancanza e della caducità, prefigurazioni della mortalità che la psiche più d'ogni cosa inconsciamente aborre e disconosce. E tuttavia, è proprio questo accanito diniego della mortalità - questo rifiuto dell'impossibilità d'un appagamento immediato e assolutamente garantito del desiderio - a costituire il pungolo più inquietante della pulsione di morte, il primato di Thanatos nel cuore stesso di Eros, l'asservimento del desiderio al carattere regressivo e mortifero della nostalgia dell'origine. Ora, se il desiderio prende di mira la persistenza o il ripristino d'un irrealizzabile godimento immediato e originale del suo proprio oggetto, ritenuto reale nel tempo dileguato delle origini, sembra evidente che, sul presupposto dell'accessibilità immediata dell'originario, la successiva alternanza tra exitus e reditus dia al percorso del desiderio e delle sue trasformazioni mitiche, religiose e razionali un andamento circolare.
E tuttavia, a ben vedere, nel circolo speculativo in cui la nostalgia delle origini, fonte nascosta d'ogni hybris ontologica, si compiace di riconoscersi e appagarsi, ciò che dà l'abbrivio e sorregge l'anelito è proprio la pretesa di sfuggire al circolo: di potervi sfuggire al termine del percorso, allorché gli sconfinamenti, i rimandi reciproci, le inevitabili riprese, insomma le mediazioni necessarie a ogni progresso della ricerca, saranno divenuti superflui. Ma il termine del percorso è ciò che è - accesso finalmente diretto e immediato, visione intuitiva o godimento pieno della "cosa stessa" - solo nella misura in cui la sua origine era già stata posseduta nell'intimità di un'autentica autodonazione diretta. Quindi, tanto all'origine che al termine del percorso nostalgico del desiderio speculativo, il circolo s'interrompe, la sua complessità s'arresta e trionfa la semplicità: la puntualità e l'istantaneità, l'intemporalità - l'assoluta immediatezza d'una coincidenza senza residui, vergine d'ogni scarto e d'ogni differenza, tra ciò che viene colto e ciò che si dà.
Come potrebbe prodursi una simile fusione assoluta se non attribuendo illusoriamente all'originario una presenza pura, immediata e in definitiva intemporale? Una tale fusione, nella sua presunta semplicità o intimità originaria, fondamento della sua immediata o diretta accessibilità finale, si sottrae intrinsecamente - e sovranamente - alla circolarità trasversale e obliqua del mondo comune e del campo d'apparenze nel quale noi tutti siamo quotidianamente immersi. La vis speculativa della tradizione metafisica non è che una figura della nostalgia delle origini, alimentata dall'irrealizzabile desiderio di ritornare alla presunta puntualità immediata dell'originario. Nel circolo speculativo, in virtù dell'intimità di un'origine nascosta alle apparenze - e miticamente sottratta alla deriva temporale -, l'originario e l'immediato si sovrappongono, e l'origine sfugge ontologicamente al circolo, l'interrompe sovranamente a priori, vi si sottrae in anticipo, con ciò stesso fondando la possibilità di concepire l'esito del movimento speculativo come un ritorno all'immediatezza semplice d'un originario in se stesso esterno al carattere derivato e indiretto del circolo.
Nulla di tutto ciò ha senso se s'esclude formalmente che il desiderio possa avere un'origine puntuale, relegata fuori del tempo o in un istante che ne sarebbe la sorgente. Non è qui in gioco alcun accesso immediato a una qualche origine lontana, non solo perché un tale ritorno immediato all'origine sarebbe impossibile e perché noi uomini non ne avremmo i mezzi, ma perché una tale origine o un tale inizio (di cui sogna il nostro desiderio e, al suo seguito, la filosofia speculativa) semplicemente non esiste.
L'inizio o l'origine non sono tali se non a cose fatte. Questo significa che non v'è accesso immediato - o neutrale o sprovvisto di presupposti - all'origine, giacché l'origine come tale è proprio ciò che non si potrà mai vivere in modo diretto né percepire "in carne e ossa": l'origine, l'afferriamo soltanto attraverso le sue filiazioni. Questo perché essa non fu mai vissuta in originale o in persona. In se stessa l'origine non ha senso alcuno e può acquisire solo quello che le sarà conferito a cose fatte, allorché verrà valorizzata questa o quella direzione, questo o quell'orientamento d'uno sviluppo d'eventi che ne risultano derivati. E così facendo, solo posteriormente le si attribuisce uno statuto d'anteriorità che l'origine in se stessa non poteva avere: come sarebbe potuta risultare "anteriore" a ciò che ancora non c'era? Ecco la "posteriorità dell'anteriore" di cui parla Levinas: l'origine, per definizione, è "anteriore posteriormente", inestricabilmente intrecciata al desiderio che l'intenziona, e che tendendo verso di essa, presume e vagheggia di procederne.
Non v'è dunque alcun elemento dell'esperienza costituita che possa dirsi parte integrante dell'origine come evento obiettivo: giacché l'origine non è una componente effettivamente e pienamente realizzata d'un fatto ora dileguato ma un tempo presente, che fu quindi vissuto e intenzionato da una o più coscienze allora attuali. Sarebbe illusorio e derisorio - mitico - avanzar la pretesa di poter ricostruire il flusso di Erlebnisse di questa presunta Coscienza originale. Infatti, l'origine stessa si sdoppia: non vi è in essa coincidenza immediata tra il suo evento inaccessibile e il principio che ne comanda il senso, e questo principio non è oggetto di un'intuizione ritenuta capace di riempire o adempiere (erfüllen) l'intenzione speculativa, ma costituisce la posta in gioco d'un atteggiamento concreto, individuale e collettivo: una creazione umana, dunque, che non procede dal nulla assoluto (il quale d'altronde non esiste), ma dall'abisso dell'essere che l'umano porta in sé e che ne costituisce l'inaccessibile origine.
Quest'origine è autenticamente perturbante, unheimlich, uncanny: contemporaneamente familiare e intima, ma anche spaesante e angosciante, proprio nell'accezione psicoanalitica dell'irriducibile polisemia del termine tedesco, la cui specificità in Freud (24) consiste nell'alludere a una dimensione dell'angoscia che non proviene dall'esterno ma dall'interno, dal fondo di noi stessi. Nel perturbante come nell'angoscia - a differenza della paura, dello spavento o magari del terrore - ciò che ci minaccia resta indeterminato: ma nel caso del perturbante questa indeterminatezza, questa impossibilità di reificare e dominare una fonte ben definita del vissuto soggettivo, s'accompagna con la sua "localizzazione" all'interno stesso della vita psichica propria. Quel che perturba e spaesa non è nient'altro che l'improvviso riaffiorare dell'intimità del proprio, che si presenta all'improvviso come "estraneo", cioè come inaccessibile immediatamente.(25)
Il rifiuto della necessaria metamorfosi del desiderio è una delle forme che assume il diniego accanito dell'inaccessibilità immediata dell'originario, giacché quest'ultima minaccia e delegittima qualunque rassicurazione o convalida del nostro desiderio d'immortalità, d'accesso immediato e trasparente al disvelamento definitivo dell'essere e del vero. In questa difficoltà, si mostra la resistenza del desiderio ultimo della psiche, irrealizzabile e indistruttibile auspicio di centralità e onnipotenza. Nel suo accanito diniego della mortalità, che fa corpo col disperato tentativo di sopprimere il lutto e quindi di sottrarsi all'inevitabile circolarità e caducità d'ogni processo creativo, si rivela la dimensione autenticamente perturbante dell'originario, la persistenza del suo narcisismo mortifero e paralizzante, l'alienazione del suo asservimento a Thanatos. Come in Kant non può dirsi propriamente sublime nessun oggetto naturale, così in Freud ciò che è propriamente perturbante non è questo o quel sentimento vissuto ma l'origine stessa della vita psichica, la sua originaria inabitabilità. Ciò che è al tempo stesso familiare e spaesante è la pretesa inaudita del desiderio all'appagamento immediato e assoluto di sé.
Questa dimensione abissale è l'inaccessibilità immediata dell'origine - la sua inabitabilità - cui siamo condannati a dare senso proprio perché l'originario è in se medesimo sprovvisto di senso. Appunto perché in tale inaccessibilità è coinvolta l'estraneità stessa del proprio, il carattere perturbante o inospitale dell'origine ci si mostra come il presupposto del movimento indiretto, obliquo e circolare che caratterizza tanto il desiderio quanto la creazione del senso. L'abisso donde procede l'umanità è ciò stesso che, nella sua inaccessibilità diretta, ontologicamente sempre l'accompagna. L'esser condannati al senso, di cui si leggeva nella Prefazione alla Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, si trasforma così nell'esser condannati a desiderare. In effetti, il senso - inattingibile in maniera immediata e intuitiva - si situa esclusivamente all'orizzonte del movimento indiretto e inesauribile della psiche desiderante, attraverso il quale soltanto può venire soddisfatta la richiesta dell'essere stesso che, scriveva l'ultimo Merleau-Ponty, "esige da noi creazione affinché se ne abbia esperienza"(26). L'unica risposta non illusoria del desiderio umano all'abisso insensato dell'origine è, dunque, la creazione immaginaria del senso, nella cui insormontabile "caducità" consiste la non ultima ragione della sua bellezza e del suo incommensurabile valore.

(1) Octavio Paz, La duplice fiamma. Amore ed erotismo, trad. Mariapia Lamberti, Garzanti, Milano 1994, p. 39.
(2) Eugenio Montale, Ossi di seppia.
(3) Thomas S. Eliot, East Coker (primo e ultimo verso)
(4) Octavio Paz, L'arco e la lira, a cura di Ernesto franco, Il Melangolo, Genova 1991, p. 84.
(5) Ivi, p. 70.
(6) Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni (1899), in Opere di Sigmund Freud (= OSF), a cura di C. Musatti, Torino, Boringhieri 1966 sgg., vol. III, pp. 515-516; Gesammelte Werke, Bd. II-III, pp. 571-2; Stand Edition, vol. V, pp. 566-567.
(7) Idem, "La negazione" (1925), OSF, X, p. 199 (GW, XIV, p. 13; SE, XIX, p. 237).
(8) "Pulsioni e loro destini" (1915), OSF, VIII, p. 34; GW, X, p. 232; SE, XIV, p. 140.
(9) OSF, X, p. 259; GW, XIV, p. 139; SE, XX, p. 110
(10) Platone, VII Lettera 441 d.
(11) Piera Aulagnier, La violence de l'interprétation, Paris, Puf 1975, p. 65.
(12) Emmanuel Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l'extériorité, Nijhoff, La Haye 1961, p. 193 (Totality and Infinity, trans. A.Lingis, Duquesne University Press, Pittsburgh 1969, p. 218).
(13) Cf. Wladimir Jankélévitch, L'irréversible et la nostalgie, Flammarion, Paris 1974, p. 282.
(14) Max Horkheimer - Theodor W.Adorno, Dialettica dell'illumismo, trad. L. Vinci, Torino, Einaudi 1974, p. 87 (corsivo aggiunto); ediz. originale Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, Amsterdam, Querido Verlag 1947, p. 97
(15) Emmanuel Levinas, La traccia dell'altro, a cura di F.Ciaramelli, Pironti, Napoli 1979, p. 27 e p. 30; ediz. origin. E.Levinas, En découvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967, p. 188 e p.191 (saggio intitolato "La trace de l'autre).
(16) Cf. E.Levinas, Totalité et Infini, p. 252.
(17) Cf. Dora Markus nelle Occasioni di Montale.

(18) Merleau-Ponty, Signes, Paris, Gallimard 1960, p. 146.
(19) Sigmund Freud, L'interpretazione dei sogni (1899), OSF, III, p. 517 (corsivo nell'originale); GW, II/III p. 572; SE, V, p.567
(20) Bernard Baas, Le désir pur. Parcours philosophiques dans les parages de J. Lacan, Peeters, Leuven 1992, pp. 52-53. E' proprio al paradosso di questa perdita anteriore a quanto è perduto che allude Levinas quando parla di "anacronismo", come ho cercato di mostrare in un testo intitolato appunto L'anacronismo, apparso come Postilla a Emmanuel Levinas - Adriaan Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di F.Ciaramelli (Saggi dell'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Guerini, Milano 1989, pp. 155-179.
(21) Roberto Escobar, Metamorfosi della paura, Il Mulino, Bologna 1997, p.86.
(22) Cornelius Castoriadis, L'enigma del soggetto. L'immaginario e le istituzioni, trad. ital. di R.Currado, a cura e con Postfazione di F.Ciaramelli, Dedalo, Bari 1998, p. 9 (corsivo aggiunto); ediz. originale Idem, Domaines de l'homme. Les carrefours du Labyrinthe II, Paris, Seuil 1986, p.364; trad inglese in Idem, Wordl in Fragments: Writings on Politics, Society, Psychoabalysis and the Imagination, ed. and trans. David A. Curtis, Stanford, CA: Stanford 1997 (inizio del saggio intitolato "Institution of Society and Religion"). In generale su Castoriadis rinvio ai miei seguenti scritti, tutti tradotti da D.A.Curtis: "The Self-presupposition of the Origin. Homage to Cornelius Castoriadis", Thesis Eleven (Sage Publications), n. 49, May 1997; "Castoriadis", in Compenion to Continental Philosophy, eds. S.Critchley and W.R.Schroeder, Blackwell Oxford 1998, e "Human Creation and the Paradoz of the Originary", Free Associations (Process Press)1999, vol. 7 part 3 (No 43).
(23) Come cerco d'argomentare, a partire dalla critica dell'ontologia diretta nell'ultimo Merleau-Ponty, in "L'originaire et l'immédiat. Remarques sur Heidegger et le dernier Merleau-Ponty", Revue philosophique de Louvain, maggio 1998. .
(24) Cfr. "La nostalgia dell'origine e l'eccesso del desiderio. Lo Unheimliche e l'angoscia in Freud e Heidegger", in Fabio Ciaramelli, Bruno Moroncini, Felice Ciro Papparo, Diffrazioni. La filosofia alla prova della psicoanalisi, Milano 1994, pp. 15-75.
(25) Questa nozione al tempo stesso fenomenologica e psicoanalitica dell'estraneità del proprio è al centro del lavoro di Bernhard Waldenfels, di cui mi limito a ricordare i testi raccolti in Topographie des Fremden. Studien zur Phänomenologie des Fremden I, Frankfurt a.M. 1997, che discuto in uno studio critico intitolato "L'inquiétante étrangeté de l'origine", Revue philosophique de Louvain agosto1998.
(26) Maurice Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible, a cura di C.Lefort, Gallimar, Paris 1964, p. 251.[PC1] ??


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