PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> FILOSOFIA

PSYCHOMEDIA
SCIENZE E PENSIERO
Filosofia



Una lettera di Sergio Benvenuto

sul testo di Fabio Ciaramelli "Il mito del desiderio tra filosofia e psicoanalisi"



Caro Fabio Ciaramelli,

In buona parte sono d'accordo con quanto scrivi in "Il mito del desiderio", soprattutto per quanto riguarda la tua critica della metafisica classica come nostalgia di un possesso o godimento pieno della cosa. Concordo nel mettere anche Husserl e Heidegger nel fascio della metafisica speculativa ("l'illusione intuizionistica della fenomenologia husserliana"). Ma non mi soffermerò sulle cose su cui concordo, perché allora potrei solo ripetere quello che tu scrivi, peraltro in modo molto chiaro. Mi soffermerò piuttosto su ciò che tu non dici - non sono quindi critiche, perché non credo che in filosofia si tratti di dire la cosa giusta o corretta al posto della cosa erronea o scorretta. Ti dirò semplicemente quello che io avrei detto in più, o diversamente, ma non perché esso debba venire secondo me al posto di quello che tu hai detto. Le idee filosofiche non sono come le teorie scientifiche, dove si deve alla fine scegliere la più verosimile.

Tu dici: sia la metafisica speculativa (che vedi incarnata soprattutto in Platone, Hegel, Husserl e Heidegger) che il desiderio umano condividono una stessa illusione: il ritorno nostalgico ad un'immediatezza o godimento originari. Ma siamo proprio sicuri che il desiderio umano sia proprio così, o non è piuttosto l'immagine che ce ne dà la psicoanalisi? E la psicoanalisi non ci suggerisce questa immagine del desiderio proprio perché eredita a suo modo la metafisica speculativa? Accettando senza discuterla l'immagine freudiana del desiderio (o almeno alcuni aspetti rilevanti di essa, perché Freud stesso oscilla, varia), non rischiamo di proiettare (altro concetto freudiano) l'idea subdolamente metafisica della psicoanalisi sul desiderio umano stesso?
In effetti, il desiderio di cui tu parli - "desiderio inconscio" che distingui da quello conscio (distinzione su cui torneremo) - dovrebbe essere il desiderio di cui parla la psicoanalisi, non quello di cui parliamo nella nostra vita quotidiana. Ma è proprio vero che siano così distinti? Per Freud il desiderio pervade tutta la soggettività, conscia e inconscia, perché per lui desiderare è il proprio dell'essere vivente (non solo dell'uomo). Per Freud inconsce sono le rappresentazioni, gli oggetti, le fantasie, ma in fondo non il desiderio stesso, o libido come diceva lui. Potremmo dire che la libido è la sostanza dello psichismo. Basti guardarsi attorno: la nostra vita conscia non è meno libidica di quella supposta inconscia. Ormai dobbiamo sognare per sfuggire, almeno in parte, alle sollecitazioni ubique del desiderio nella nostra vita vigile.
Trovo significativo che nel tuo saggio non usi mai il termine connesso a "desiderio", vale a dire piacere (solo una volta, citando il principio di piacere di Freud). Usi invece spesso il termine godimento, ma sempre accompagnato da un aggettivo - "puro, immediato, diretto, pieno, originale" - che lo riduce appunto a mito metafisico o a mito del desiderio stesso (come se non ci fossero mai un piacere e un godimento attuali, nel senso aristotelico di "attuale"). Eppure anche per Freud il godimento originario non è un'illusione del desiderio ma qualcosa che lo costituisce: per desiderare occorre aver avuto almeno una volta l'esperienza del piacere corrispondente. Jean Renoir, prima di morire, progettava un film che non riuscì a girare: Un pesce in un acquario casalingo vive abbastanza bene; per alcuni giorni devono ripulire l'acquario e lo mettono provvisoriamente in un acquario molto più ampio. Quando il pesce ritorna nell'acquario piccolo, non ci vuole stare più... Tutto qui. Questo è il desiderio: se il pesce non avesse avuto l'esperienza (piacevole) di un acquario più grande non lo desidererebbe. Non a caso Lacan costruisce tutta la sua teoria della Chose - che purtroppo non oserà sviluppare - proprio a partire da questa esperienza di un piacere inaugurale: il primo godimento, di per sé in qualche modo irrecuperabile. Quindi i nostri desideri tendono tutti a ripetere un piacere originario, ed eventualmente a ritrovare l'oggetto che ce lo ha dato - il godimento è la causa efficiente del desiderio, non giusto il suo telos.. (Nota: Certo Freud è un pensatore molto complesso - cioè pieno di (proficue) contraddizioni - ma è pur vero che egli parte da un modello positivistico che non ha mai ufficialmente rinnegato: l'uomo come macchina desiderante (uso qui il termine di Deleuze, ma il concetto è freudiano). Siamo degli animali che, date le loro Endogene Reize provenienti dal corpo, sono forzati a desiderare - finché c'è vita c'è desiderio (e quindi sofferenza, perché per Freud la sofferenza, in particolare l'angoscia, è eccessi di desiderio). Personalmente non trovo che la de-biologizzazione del freudismo, cavallo di battaglia della psicoanalisi francese, sia stato davvero un passo in avanti).
Questo impulso a ripetere il piacere - che Freud chiamò principio di piacere, e poi in fondo pulsione di morte - probabilmente ispira le metafisiche nostalgiche di cui tu parli, oppure ispira i miti del recupero di uno stato beato: l'Eden, l'Età dell'Oro, la visione platonica delle ideai, lo stato di natura di Rousseau, il comunismo primitivo di Marx, il matriarcato di Bachofen, la socialità elementare di Lévi-Strauss, e così via. Ma perché infliggere al povero desiderio - alla tendenza quasi meccanica a ripetere un piacere - la responsabilità per queste mitologie che proiettano in un passato mitico l'esperienza alquanto banale di ritrovare la "prima volta" del piacere?
Molta psicologia del nostro secolo (psicoanalisi inclusa) è figlia di una metafisica romantica che tende a considerare ogni evento psicologicamente rilevante una ripetizione di un passato originario, una conferma di qualcosa che c'era già prima e soprattutto già dentro il soggetto. La stessa psicoanalisi indulgerà nel vedere nel desiderio adulto per una bella donna, ad esempio, la riedizione di un desiderio più fondamentale, quello per la madre; e questo desiderio per la madre come a sua volta il sottoprodotto di una perdita originaria, quella della fusione col seno materno, ecc. Ma non si tratta qui, ancora una volta, di una reinterpretazione metafisica della reale dinamica del desiderio umano?
Anche tu partecipi di questa metafisica quando scrivi "il male, ciò che mette l'io a disagio, ..., si trova al suo interno, nel fondo stesso del proprio, e tuttavia non vi accede immediatamente, ma solo in modo derivato e indiretto, rigettandolo fuori di sé". Qui tu ripeti, in modo indubbiamente raffinato, quel che ha sempre pensato la psicologia romantica: che il nostro incontro o scontro con il reale, la cosa, l'altro, l'Altro, il trauma, sono un'illusione, e che di fatto tutto ciò che globalmente chiamerei alterità lo abbiamo prodotto noi, anche se involontariamente. Alla base c'è insomma l'idea fichitiana che l'Io produce il non-Io inconsciamente.
Certamente esistono desideri nostalgici, e c'è un aspetto nostalgico in ogni desiderio (ripetere un piacere), ma è proprio vero che ogni desiderio tende a reintegrare una pienezza originaria? Possiamo cioè dire che la tendenza a ritrovare l'oggetto piacevole o l'esperienza piacevole ha quest'aura metafisica? E allora: non c'è una forte resistenza - metafisica, speculativa - delle psicologie novecentesche (ma anche di alcune teorie biologiche) a vedere l'uomo come Levinas vede Abraham, cioè come un "movimento senza ritorno"? E' interessante che la psicoanalisi si basi sul mito di Edipo - che ritorna alla madre e alla famiglia originaria - e non sulla storia di Abraham o anche di Mosé che porta via il suo popolo, anche se Freud era ebreo. In altre parole, c'è una resistenza intellettuale molto forte (che tu addebiti al desiderio umano) a concepire l'irruzione dell'evento puro, della contingenza senza origine.
Attualmente sto lavorando sulle moderne teorie biologiche, che oggi pongono alcuni problemi filosofici molto brucianti. In biologia c'è una teoria ultradarwiniana secondo la quale tutto quello che è rilevante nella vita - anche umana - è effetto dell'adattamento dell'organismo all'ambiente; tutto nel fenotipo ha senso adattativo. E poi c'è un'altra teoria che mette invece in rilievo come siano gli organismi stessi a riadattare organi e funzioni che ereditano per caso ai fini dell'adattamento (exaptation e non adaptation). Un esempio per tutti: la musica. La nostra capacità di trarre piacere dalla musica non è stata selezionata per adattarci meglio all'ambiente - difatti non si trova musica in natura (a parte il canto degli uccelli); del resto altri mammiferi sono sensibili a certa musica, e certo non per adattamento. Sono stati gli esseri umani a scoprire una capacità di piacere che l'evoluzione biologica non aveva selezionato. La scoperta che la musica ci dà piacere è insomma un puro evento che viene dall'esterno, che non ha alcuna funzione adattativa - ovvero, non ha alcuna origine biologica (pur essendo un fatto biologico). Il nostro desiderio di ascoltare musica è un desiderio connesso semplicemente alla ripetizione di un piacere per il quale il nostro organismo non era fatto né preparato. Generalizzando, possiamo dire che il desiderio umano di solito non fa altro che ripetere un piacere esperito per caso, che ci proviene dall'esterno - il piacere è simile al trauma, qualcosa di esogeno. Freud stesso parte proprio da questa idea niente affatto romantica del desiderio, come mero impulso a ripetere un piacere eventuale.
Ma poi la metafisica romantica prevale in lui, per cui tende a ridimensionare, snobbare, deridere la parte del trauma (anche piacevole) nell'esistenza umana. Proprio Castoriadis, che ti è così caro, rispose sbrigativamente (nell'articolo pubblicato sul Journal of European Psychoanalysis, n.6, 1998) alla mia evocazione delle teorie in auge oggi in America - che cioè la parte del trauma, anche sessuale, è molto più rilevante di quanto Freud non pensasse - che si trattava solo di sciocchezze ispirate dalla political correctness! Credo che in questa esclusione sprezzante della dimensione traumatica si annidi tutta una metafisica, che Castoriadis condivide perfettamente. Questa è convinta che siccome un evento è traumatico per il valore traumatico che assume per noi, allora l'evento non è importante, ma è importante solo il valore che vi diamo noi. Un evento sarebbe traumatico se conferma fantasie angosciose o attese timorose del soggetto. Come dire: se una pietra mi cade in testa, la cosa è traumatizzante solo nella misura in cui conferma la mia fantasia-angoscia di avere un cranio sfondato! Ma il traumatico - immagine patetica, plastica, della pura alterità, di ciò che irrompe come estraneo nel mio mondo - è tale proprio perché è qualcosa del tutto inatteso, nuovo, pura occorrenza non pensabile. Come, sul versante piacevole, è stata la musica per l'umanità. Un puro dono caduto dal cielo, non il ritorno dall'esterno di una memoria estroflessa da noi.
Credo che la morte sia la figura estrema di questa alterità assoluta dal soggettivo, che tu giustamente metti in rilievo. Non possiamo avere mai esperienza della morte, solo della vita; eppure siamo d'accordo che la nostra vita è pienamente umana solo se la pensiamo come mortale, cioè come destinata ad una alterità radicale. Che c'è di più altro dell'esser morti? Eppure Freud dice che nell'inconscio non c'è sapere della morte, proprio perché l'inconscio non saprebbe nulla dell'alterità. In questo modo Freud esclude che la morte davvero ci spaventi nel profondo - il che è alquanto inverosimile. Invece la nostra morte è in qualche modo la cosa-in-sé della nostra vita, ma proprio per questo essa forse plasma la nostra vita. Comunque certamente la morte non è un prodotto o un'ipostasi della vita: è quell'aldilà dell'orizzonte senza cui non ci sarebbe appunto orizzonte. Ma è qualcosa che ci viene da fuori, dal reale, non dal di dentro.
La difficoltà a pensare l'efficacia del trauma o della morte - e dell'irruzione del godimento inatteso - è solo un aspetto di una difficoltà che risale all'idealismo, e che molte fenomenologie ed ermeneutiche hanno ereditato: l'idea insomma che la cosa, l'altro, l'evento, il fatto, ecc., non si impongano al soggetto, e che invece dobbiamo pensare il soggetto come in ultima istanza artefice, produttore, legislatore, interprete sovrano della cosa, dell'altro, dell'evento, del fatto. Questa tradizione anti-realistica, che chiamo romantica, non vuol saperne di questo confronto eventuale e radicale con l'altro-da-sé. (Questo non significa che bisogna abbracciare puramente e semplicemente delle concezioni fisicaliste e oggettiviste: potremmo mostrare che anch'esse, per altri versi, finiscono con il ridurre il reale, l'altro-da-sé, con i sistemi di calcolo e previsioni soggettivi. L'oggettivismo oggi tende al pragmatismo, cioè al non-realismo.) La teoria del desiderio che ne discende porta quindi il marchio di questo presupposto che, in termini freudiani, chiamerei narcisistico: la convinzione che la cosa traumatica è in fin dei conti sempre un prodotto dell'Io desiderante. E se invece il soggetto umano, nel corso della sua storia, si trovasse confrontato di tanto in tanto con delle novità assolute, con eventi assolutamente contingenti che lo trasformano o lo spezzano? Sempre più mi convince l'idea della causa esogena delle trasformazioni storiche e soggettive.

* *

L'idea che il desiderio umano sia in parte "precipitato" dall'esterno non implica però la tesi reciproca (che tu sembri invece far tua): che il desiderio, almeno in parte, mira all'altro reale. Il punto fondamentale, problematico, irrisolto, di tutta la psicoanalisi (anche come pratica) mi pare essere questo: il desiderio ha solo oggetti oppure esso mira all'altro nel suo essere? Il desiderio investe il mondo esterno solo nella misura in cui questo si lascia modellare dai suoi oggetti immaginari, oppure è sensibile all'altro in sé e per sé? Siamo qui nel cuore del dubbio etico per eccellenza.
Tu adotti uno dei punti-chiave della psicoanalisi francese, che ci tiene a distinguere tra bisogni e desideri. Anch'io per 20 anni ho creduto nell'importanza di questa distinzione - mi sono formato in Francia - ma ora ho forti dubbi sulla sua plausibilità. Cominciò Georges Bataille, sulla scia di Hegel, ad opporre sessualità ed erotismo: la prima sarebbe una funzione animale, volta alla riproduzione, "economica", mentre il secondo sarebbe un lusso o spreco tipicamente umano. Evidentemente la distinzione tra besoin e désir riprende questa "spiritualità libertina" del dandy: da una parte la funzione di sopravvivenza e riproduzione dell'animale, dall'altra l'a-funzionale perversità dell'umano. (Ma come pensare di svolgere atti sessuali senza nemmeno uno straccio di erotismo? E lo stimolo erotico non è a sua volta biologicamente indotto dalle funzioni riproduttive che si servono appunto del Lust?) Mi chiedo ora se non sia questa una riedizione della vecchia dicotomia tra la materia e lo spirito, che è alla base della concezione dell'essere umano come animal rationale. Oggi certo l'uomo è descritto piuttosto come animal desiderans, le raisons du coeur hanno preso in parte il posto della paludata Raison, ma il fondo è lo stesso: il desiderio sarebbe la parte spirituale in noi, il bisogno la parte animale. Io cerco però di non pensare secondo questa dicotomia fondamentale di ogni spiritualismo (la cui origine è platonica e poi cristiana). Ad un'analisi più fine, la linea di demarcazione tra desiderio e bisogno risulta niente affatto netta: i nostri bisogni si prolungano e si dilatano verso ciò che chiameremmo piuttosto desideri, d'altro canto puri desideri in molti soggetti e in molte occasioni assumono la forza e l'intimazione dei bisogni. Chi come me ha studiato a fondo l'alcolismo e altri tipi di tossicodipendenza, può ben dirlo. Il piacere per alcuni è un lusso, per altri - o per ognuno oltre una certa soglia - è una necessità. Le cose che vorremmo assolutamente distinguere come desideri e bisogni spesso si scambiano i connotati fino al punto che, di fatto, non è più possibile distinguerli. Da qui il sospetto che la distinzione bisogni/desideri sia il risultato di un assunto metafisico, più che di un'analisi fenomenologica dei nostri veri impulsi. Allora mi chiedo: al monismo materialistico (che riduce l'essere umano ad animale complesso - o meglio, in epoca di cognitivismo, a computer complesso) non abbiamo altro da opporre che il vecchio dualismo cartesiano mascherato? Che cosa è, in effetti, l'opposizione dei desideri ai bisogni se non un riverbero antropologico del buon dualismo cartesiano? Il quale poi a sua volta dava una forma nuova e originale al vecchio cavallo di battaglia del cristianesimo, vale a dire alla distinzione irriducibile tra materia e anima? Perciò a molto pensiero francese (segretamente cartesiano) appare essenziale discriminare tra l'umano e l'animale, persino quando gli umani fanno all'amore o sognano (oggi sappiamo che anche gli animali sognano), spiritualizzare anche le funzioni naturali degli uomini e delle donne. Ma perché? Io non lo trovo così essenziale. Non mi sento disonorato se mi si ricorda che io, essere umano, sono anche un animale. Alla forza tecnologica delle scienze che sempre più trattano la soggettività come qualcosa di finalmente oggettivabile, abbiamo solo da opporre una versione romanticizzata della vecchia dicotomia, cioè tra bisognosità animale e desiderabilità umana? Eppure chiunque abbia esperienza profonda degli animali domestici, sa bene che, pur prive di ratio, le bestie sono capaci di squisiti gesti di desiderio (non sono certo le macchine a cui le riduceva Descartes).
Ricordo che, da studente a Parigi, partecipai ad un seminario universitario tenuto da uno psicoanalista prestigioso, Michel Granoff. Questi ad un certo punto sostenne che solo gli esseri umani si masturbano e praticano l'omosessualità - quindi, il desiderio umano ha caratteri di deriva e di in-oggettività che lo rendono qualitativamente diverso da ogni desiderio animale, anche dei primati. Egli non faceva altro che enunciare un corollario di un cliché filosofico allora in auge: per cui l'animale sarebbe il paradigma della felicità, della pulsionalità soddisfatta, della beatitudine libidica, mentre i poveri esseri umani invece hanno un desiderio strutturalmente contorto, perverso, disfunzionale, insomma "spirituale" proprio perché libertino (il Don Giovanni romantico non è l'eroe esemplare della abissale libertà umana contro l'Ordine divino-naturale?). Il guaio è che alcuni giorni prima avevo letto un libro serio di etologia animale che parlava di come la masturbazione fosse comune tra gli scimpanzé maschi e di come i capi del branco amassero spesso sodomizzare i giovani scimpanzé maschietti. Mi alzai allora per far presente la cosa. Granoff non fu molto contento.

Questa dicotomizzazione (tra bisogni e desideri) rischia in effetti di riprodursi ricorsivamente ad ogni livello della tua concettualizzazione - in una sorta di moltiplicazione epurativa, nel senso quasi politico di "epurazione", come un voler separare il cattivo dal buono, operazione iperbolica, potenzialmente interminabile. Ci tieni a distinguere a sua volta il desiderio in uno inconscio, e quindi cattivo (desiderio nostalgico che mira all'immediato e alla pienezza), e in uno conscio e quindi direi buono - "desiderio sociale", "scambio sociale originario", "desiderio dell'altro". Mi chiedo se qui tu non paghi un tributo ad una ideologia "socialista" e quindi rousseauiana che ipotizza uno stato appunto originario, naturale, buono, in cui il desiderio non sarebbe egoista e regressivo ma altruista e progressista. (Davvero c'è un desiderio berlusconiano contro uno d'alemiano?) Ma l'idea che alla base dei desideri attuali - corrotti, narcisistici, nevrotici, regressivi, metafisici - ci siano desideri originari invece buoni non è proprio un sottoprodotto tipico di quella metafisica speculativa che tu giustamente rigetti, e in modo anche brillante? Il rousseauismo al quale tu sembri indulgere è un rovesciamento naturalistico del platonismo ma, ne converrai, il rousseauismo è pur sempre platonismo secolarizzato. Io so che tu non sei un benpensante; ma allora perché indulgere in questa fede consolatoria, "buonista" si dice oggi, nel desiderio altruistico? Penso che i filosofi siano tenuti, per ragioni professionali, ad avere il cuore un po' duro, come i becchini, i macellai o i chirurghi.
Dopo quel che abbiamo visto nel XX secolo, possiamo ancora credere nella positività di fondo del "desiderio sociale"? Freud, da buon conservatore, non credeva affatto che la parte buona fosse nella vita sociale, nella Massenpsychologie come diceva lui. E difatti abbiamo visto le folle fasciste, comuniste, naziste - oggi i ripulitori etnici, i fondamentalisti che sgozzano gli altri per amore, o anche semplicemente i naziskin e gli ultrà degli stadi, tutti soggetti iper-socializzati. Le canaglie di solito sono molto sociali. Proprio Freud ci ha suggerito che lo scambio sociale può essere di fatto un prolungamento dei narcisismi, delle idealizzazioni più primitive, che l'infatuazione per i capi o per l'altro sesso è una forma di ipnosi e quasi di delirio.
Certo potrai dirmi: ma l'idea che il desiderio investa l'altro in sé non si accorda alla tua tesi che la causa del desiderio è di solito esterna? Non si accorda con la tua de-interiorizzazione del mondo psichico? Ma proprio Lacan ha detto una cosa molto importante: è che la causa del desiderio non coincide mai con il suo fine. Il desiderio cerca a suo modo di farci schivare il reale, e quindi l'altro. In effetti questo mio scetticismo su ogni invocazione di un desiderio originariamente altruistico e scambievole ovviamente non toglie che il problema di fondo resti, e che era il problema già in qualche modo posto da Kant (nella Critica del Giudizio): siamo tutti delle macchine utilitaristiche ed egoistiche - cioè, freudianamente, degli animali che tendono a massimizzare il piacere e a minimizzare il dispiacere - oppure possiamo mostrare nell'uomo una cura autentica dell'altro come altro? Segnalo che si tratta di una domanda, non di una risposta: rispondere digià che sì, che al fondo siamo tutti buoni e altruistici, che l'altro o l'Altro non si riduce alla collezione dei nostri oggetti piacevoli e desiderabili, non è intellettualmente soddisfacente. Questa apertura all'altro in sé e per sé - l'uscita quindi dall'economia dei nostri desideri e dei loro oggetti - è tutta ancora da dimostrare e da mostrare. Così come Kant si chiedeva se l'organismo o la bellezza fossero solo nostre interpretazioni soggettive - nostre imago - oppure qualcosa di realmente "esistente". Il perno di ogni discorso sull'etica e l'estetica è proprio questo: dobbiamo accontentarci del calcolo utilitaristico dei desideri, in modo da accordare al meglio i nostri egoismi? Oppure dobbiamo tener conto di un impulso trascendente nell'essere umano, che lo porta ad aver cura dell'altro non ridotto a proprio oggetto di desiderio e di piacere? Mi pare che quello che dici nel saggio tenda a dare per risolta una questione che resta invece - ahimé - più che mai aperta.

* *

Tutto il tuo discorso è attraversato da un'ambiguità - che immagino voluta - secondo cui da una parte la pienezza dell'origine va rigettata come mito, illusione, ma dall'altra in qualche modo essa va anche presupposta, perché senza il presupporla diventa impossibile pensare un'origine come al contrario separazione già da sempre avvenuta.
Tu pensi all'origine come ad un senza-fondo. Certo l'Abisso di Castoriadis è una bella immagine romantica che ci seduce - ma sai benissimo che non è una novità. Sin dall'inizio la filosofia occidentale ha pensato l'origine delle cose come Abisso - che cosa è altrimenti l'apeiron di Anassimandro? Le cosmogonie partono spesso dal Caos. Se avessi spazio, potrei mostrare che persino la fisica di Aristotele - che pare sostituire all'Abisso il Primo Motore immobile - non può farne a meno. Ma siccome in fondo tutta la tradizione filosofica ha pensato l'origine come abisso - anche, per molti versi, Platone, Husserl e Heidegger che tu indichi come quelli che occorre superare - perché allora non fare un passo più in là, e pensare che non c'è origine, nemmeno come abisso?
Sarei ancora più radicale di te: non solo, come dici tu, l'originario non è pienezza di possesso o godimento immediati, ma non si dà affatto alcun originario se non come mito filosofico di una arché della vita. Ovvero, ciò che di volta in volta consideriamo originario non è altro che una convenzione ermeneutica, una scansione arbitraria nei flussi temporali che di per sé non hanno alcuna origine assoluta. Nella nostra esistenza pratica, a seconda delle epoche storiche della persona o della civiltà, mettiamo dei paletti provvisori, e diciamo: "da qui è cominciato tutto!", ma si tratta solo di un artefatto di comodità. Come dici tu, una cosa è l'inizio - l'inizio di qualcosa si deve pur trovare - altra cosa è l'Origine. L'inizio è sempre relativo, mai assoluto. (Di solito, è l'effetto di una rottura di un ordine precedente, l'effetto di una catastrofe contingente che introduce una mutazione.) Invece prendiamo questo artefatto per qualcosa di realmente originario.
Tu dici "l'origine come tale è proprio ciò che non si potrà mai vivere in modo diretto né percepire in 'carne e ossa'" e "non v'è alcun elemento dell'esperienza costituita che possa dirsi parte integrante dell'origine come evento obiettivo": ma questa de-entificazione dell'origine (sulla scia di quell'Heidegger da cui pur prendi le distanze) conferma la pertinenza concettuale di questa origine. Per te resta essenziale mantenere l'Origine, anche se ti prodighi a rinviarla nell'abisso. Ma da dove nasce questo bisogno romantico di Origine abissale? Tutto ciò mi ricorda la teologia negativa del medioevo, quando si giunse alla conclusione che di Dio si poteva dire solo ciò che non è - e questo era il vero modo di salvare la trascendenza assoluta di Dio. Come la teologia negativa è l'acme della teologia, così mi pare che la tua "metafisica negativa" dell'Origine sia parte dell'acme della metafisica (e lo dico senza rimprovero, dato che ho grande rispetto per la metafisica).

Tu dai a questo Abisso la forma del desiderio - Eros, appetitus, conato, Wille. Quando dici "l'inquietudine del desiderio è tanto iniziale che originaria", mi pare che tu ponga il desiderio come Origine. Contro la linea Platone-Hegel-Husserl-Heidegger che vorresti spezzare, prosegui quindi una linea "romantica" oggi molto prestigiosa che pone la Wille e le sue vicissitudini all'origine: la linea Schopenhauer-Nietzsche-Freud. Ma siamo sicuri che questa seconda linea rovesci o sovverta davvero la prima? Io, nel mio piccolo, ho cercato di mostrare che persino Platone era in qualche modo già "nietzscheano" e persino "freudiano" (e che quindi, all'inverso, Nietzsche e Freud erano molto più platonici di quanto forse loro stessi non sospettassero) [in "Dialettica e seduzione nel 'Fedro' platonico", aut aut, n. 291-292, maggio-agosto 1999, pp. 73-94]: è vero che Platone - il quale ha identificato addirittura la filosofia a desiderio sessuale! - presuppone il godimento pieno delle essenze, ma allo stesso tempo moltiplica gli indizi del fatto che questa pienezza è da sempre perduta, e in qualche modo solo ricordo. Nel mio saggio sul "Fedro" do molta importanza al carattere intermittente, festivo, eccezionale, della visione delle essenze - che già in Platone resta un mito, e quindi ironico come ogni mito. Tu dici che la pienezza dell'origine è un mito filosofico, ma puoi dirlo sulla base di un'eredità platonica: per Platone questa pienezza può esser detta difatti solo nel mito... Platone non sarebbe turbato dalla tua obiezione che il possesso pieno dell'origine è un mito: è miticamente, difatti, che l'ha raccontato. Solo che per Platone è un mito indispensabile. Ma infondo è un mito indispensabile anche per te: perciò devi alla fin fine salvare questa originarietà, anche se le dai i caratteri della s-fondatezza (una filosofa femminista direbbe che è un'Origine più uterina che fallica...). Anche tu hai bisogno del mito platonico dell'origine, per attaccare una visione platonizzante dell'origine. La differenza tra Platone e te è che Platone ci racconta il mito della passeggiata ontologica per ammirare le Idee nell'Oltre-cielo, e tu ci racconti il mito dell'Abisso, che certo è un mito un po' più moderno e quindi per noi più convincente. Ma Platone ti batte quando riconosce apertamente - cosa che tu solo in parte fai - che si tratta appunto... solo di un mito.
Mi dirai: ma la storia della filosofia è la storia di piccole oscillazioni - come nelle danze balinesi. E' vero. Ma allora ti propongo ancora un'altra piccolissima oscillazione: che all'origine non c'è il desiderio, ma... l'evento. Il desiderio in fondo è desiderio che QUALCOSA ACCADA.

* *

Una nota sull'unheimlich (che ti volevo fare già a suo tempo, quando lessi il tuo saggio sul perturbante nel tuo libro, Diffrazioni. La filosofia alla prova della psicoanalisi [Guerini, 1994] con Felice Papparo e Bruno Moroncini). Anche qui rivivi la stessa oscillazione - proficuamente contraddittoria - che emerge spesso nel tuo saggio. Da una parte valorizzi, giustamente, l'unheimlich come esperienza di un'estraneità che irrompe nell'universo soggettivamente addomesticato. Dall'altra riprendi la teoria chiaramente romantica di Freud, che considera questa estraneità come apparenza, illusione: di fatto, è il ritorno di qualcosa di più che mai familiare, intimo, che shockerebbe nell'unheimlich. In questo modo, ristabilisci con la mano sinistra, via Freud, quel che cercavi di eliminare con la mano destra: l'idea che nella nostra esperienza psichica tendiamo a rivivere qualcosa di originario, e quindi di pieno (anche se si tratta di una pienezza sempre retroattiva).
A me sembra evidente che Freud in quel saggio che ti è così caro tenta di applicare alla letteratura fantastica - perché è soprattutto di questa che si occupa in quel saggio - il modulo che gli ha funzionato bene nella sua teoria delle nevrosi come ritorno del rimosso. Figlio della sua epoca, convinto sotto sotto del parallelismo tra ontogenesi e filogenesi, Freud tende ad assimilare il rimosso della soggettività al "superato" (della credenza nel sovrannaturale) nella storia della civiltà. L'epoca di Freud era spengleriana. In fondo, si tratta di un saggio sulla secolarizzazione e il disincanto in quanto processi incompleti. La letteratura fantastica - che non a caso emerge solo nel 700 illuminista - sfrutta qui quella che poi Freud chiamerà Ichspaltung, divisione dell'Io: una parte di noi è moderna, disincantata, secolarizzata, mentre un'altra parte è incantata, crede nel sovrannaturale e nella magia. Questa parte incantata, culturalmente e psichicamente arcaica, è il nostro vero Heim, la nostra appartenenza primigenia, e che diventa all'improvviso attuale, plausibile, quando per arte o per caso accadono fatti "perturbanti". Insomma, la teoria di Freud è in linea con i pregiudizi evoluzionistici della sua epoca: le culture che credono nel sovrannaturale sono l'infanzia dell'umanità! Una tesi che oggi pochi antropologi sottoscriverebbero (tutte le culture sono adulte, non esistono epoche bambine). E il nostro pensiero infantile - quello più profondo - crede nel sovrannaturale.
Ma il fatto che tu promuovi l'unheimlich addirittura a paradigma del vissuto psichico mi conferma quel che ho finora sospettato. In termini a sua volta mitici: mi pare che da una parte vivi in un mondo filosoficamente secolarizzato che non crede più nella metafisica speculativa, ma d'altra parte (come tutti noi?) in fondo credi ancora nella metafisica dell'Origine, per cui il suo insistere e riproporsi continuamente nella riflessione sul desiderio (filtrata dai paradigmi romantici della psicoanalisi) ti appare unheimlich. Freud ci ricorda che l'Unheimlichkeit è anche fonte di piacere - è piacevole leggere Hoffmann e Poe - ed è chiaro che questa Unheimlichkeit fa godere anche te. Ma forse siamo d'accordo se ammetti, con me, che questo piacere nasce non dal nostro confrontarci con la non-originarietà e contingenza del reale, ma dalla titillazione voluttuosa dei nostri pregiudizi metafisici, nei quali, malgrado tutte le nostre emancipazioni, ancora sguazziamo, e dai quali succhiamo piacere.

Questo che dico qui - sulla tua scrittura come gioco unheimlich con una metafisica che hai superato ma che resta in te viva - vale non solo per te ma per tanti decostruzionisti, a cominciare da Derrida - il cui stile di pensiero, mi pare, in parte assorbi. Anche se tu mi convinci più di Derrida. Quando in gioventù lessi i testi di Derrida che allora facevano furore, sentii un sentimento liberatorio. Ad esempio, nei suoi due bei saggi su Artaud (in L'écriture et la différence) Derrida mi sembrava mettere a nudo i presupposti metafisici e i pregiudizi vitalistici che ispiravano l'utopia teatrale di Artaud (e forse persino la sua follia). In De la grammatologie decostruiva in modo convincente la metafisica rousseauiana di fondo e la sua progenie antropologica (Lévi-Strauss). Grazie a Derrida, ero pronto a disfarmi di tutte quelle ideologie che allora, proprio in quegli anni, andavano per la maggiore. E invece, i saggi di Derrida su Artaud vennero ripresi all'epoca per costruire una specie di culto estetico-politico del Teatro della Crudeltà che in quegli anni raggiunse lo zenith. Tutti erano artaudiani e derridiani. Lo stesso Derrida diventò mentore e garante di una serie di esperienze politico-estetiche che implicavano quel rousseauismo che io credevo dovesse essere abbandonato dopo la sua analisi. Col tempo, mi resi conto che la decostruzione derridiana non era davvero radicale: era un modo di rileggere certi autori in modo da erigerli a modelli, concedendosi l'attenuante di un'ironia post-moderna. Traccia di questa operazione conservativa era proprio la teoria derridiana dell'architraccia: e cioè, all'origine non c'è qualcosa di pieno, presente, fondante, ma solo una traccia, un segno.
Ebbi la riprova di questo gioco derridiano quando anni fa, a New York, incontrai Derrida in un dibattito pubblico. Tra le varie cose, si parlava del marxismo, non ricordo attraverso quali connessioni. Allora intervenni proponendo di rigettare il marxismo usando più o meno le stesse parole di Derrida, che avevo letto alcuni giorni prima, a proposito di altri autori. Derrida reagì quasi scandalizzato: "noi [chi erano questi "noi"?] non possiamo rigettare mai Marx, che resta un riferimento originario nelle nostre riflessioni". Originario, appunto: l'importante è restare fedeli, malgrado tutto, a quello che ci hanno insegnato in gioventù.
Come dici anche tu, all'origine non c'è la cosa di cui il segno è segno, ma il segno senza cosa. Ma appunto, questo escamotage serve in fin dei conti a salvare proprio l'Origine. E' questa l'impressione che ho avuto sempre leggendo anche Heidegger: da una parte insiste sul fatto che l'Essere non è un fondamento, una roccia solida di presenza su cui far poggiare alcunché, ma questo Senza Fondo appare poi, alla fin fine, il solo fondamento possibile (se non altro del suo pensiero). E il ciclo ricomincia. In un certo senso, ogni filosofia ha cercato di superare la metafisica precedente, ma così facendo è rientrata nel circolo dell'Eterno Ritorno della metafisica. Non è possibile sfuggire a questo destino? Tu dici che non è possibile sfuggire al circolo speculativo. Forse hai ragione tu, anche se per altri versi dici che occorre superare la metafisica tradizionale, quindi, uscire da questo circolo. Il punto è che la metafisica tradizionale, a mio modo di vedere, è stata sempre in fondo entro questo circolo. Certo esso si nutre continuamente proprio del nostro distanziarci dalle filosofie precedenti, interpretate sempre come sogno metafisico di una pienezza.

Puoi sempre dirmi, "ma questa mia riaffermazione dell'originario è in fondo ironica", dato che essa è rigettata in una antecedenza che non sarà mai presentificata. Mi chiedo se, rigettando la pienezza dell'origine, non riaffermi questa origine attraverso l'ironia. Di fatto, l'ironia è l'estremo baluardo della metafisica. L'ironia, che quando è autentica è sempre auto-ironia, permette di rendere accettabile il proprio incanto metafisico camuffandolo da disincanto. Era già così con Socrate: la sua ironia non era in fin dei conti un modo per riconfermare tutte le credenze degli ateniesi, anche se ad un altro livello? E' vero però che gli ateniesi lo hanno giustiziato - presero troppo alla lettera quel "ad un altro livello". L'ironia ci riporta allora a quell'unheimliche che ti è così caro.
Certe opere fantastiche oggi non sono prive di auto-ironia - penso ad es. al film "Rosemary's Baby" di Polanski. Ora, scommetto che uno come Polanski, che scherza tanto con il sovrannaturale, sotto sotto ci crede. Hoffmann e Poe dovevano in qualche modo credere nel Diavolo - anche se non lo potevano confessare - per poter scrivere racconti così ambigui. Mi pare che il tuo pensiero, come quello di Derrida (e di altri) abbia questo carattere unheimlich proprio perché resta legato ad una metafisica dell'Origine anche se la denega (quasi una Verneinung freudiana?). Forse hai ragione tu, impossibile uscire veramente dal circolo.
Quanto a me, penso che oggi sarebbe ora di passare dall'ironia di Derrida o di Polanski al comico vero e proprio. Farsi finalmente una bella risata della metafisica speculativa, piuttosto che ricostruirla decostruendola.

Comunque, congratulazioni per il tuo lavoro. E buon lavoro

Sergio Benvenuto


PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> FILOSOFIA