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Sergio Benvenuto

Binswanger e la Fenomenologia



Dal primo Seminario su “Il pensiero di Ludwig Binswanger. Il Caso di Suzanne Urban” tenutosi presso la Scuola della SGAI (Società Gruppo-Analitica Italiana) di Roma, 21 ottobre 2000.

Ludwig Binswanger è il creatore della Daseinanalyse - tradotta orrendamente come antropoanalisi. Piuttosto la chiamerei analisi dell’esserci, non quindi analisi genericamente dell’uomo, anthropos. E’ vero che per Binswanger - come per Heidegger a cui egli si ispira - Dasein, esserci o essere-colà (ancora meglio: essere-il-colà), è una specificità dell’essere umano, dell’anthropos; ma non è l’essere umano tout court.
Per capire il concetto di “esserci” - e quindi l’analisi dell’esserci schizofrenico - occorre dire qualche parola sulla filosofia a cui Binswanger attinge: la fenomenologia. Difficile dire in pochi minuti l’essenziale della fenomenologia a chi, come voi, non è filosofo. Ma bisogna pur dire qualcosa di essenziale su quel che la fenomenologia essenzialmente è, altrimenti l’analisi stessa di Binswanger apparirà priva di senso, inessenziale.

L’essenziale della fenomenologia è stato detto da Edmund Husserl - creatore della fenomenologia - con la frase “andare verso le cose stesse”.
Certo, andare verso le cose non significa raggiungerle. Del resto, qualsiasi filosofia raggiunge veramente mai le cose?
In effetti, altre filosofie - molto diverse dalla fenomenologia - paiono andare verso le cose stesse. Ad esempio, certe filosofie della scienza, o il positivismo oggettivista. Ma si tratta solo di un’impressione, perché le filosofie che chiamerò qui globalmente “oggettiviste” in realtà non vanno verso le cose ma piuttosto verso il linguaggio oggettivo. Ad esempio, una filosofia oggettivista può analizzare quali sono le condizioni grazie a cui un enunciato del tipo “l’acqua bolle se riscaldata oltre i 100°” oppure “ogni bambino passa per il complesso edipico” è vero o falso, verificabile o falsificabile, significante o non-significante, ecc. In realtà si occupa dell’enunciato, delle sue condizioni di validità, non certo di acqua né di ebollizione né di bambini edipici: si occupa del come il linguaggio possa o debba parlare delle cose, non si occupa delle cose stesse. Non a caso di solito il positivismo moderno è chiamato logico o linguistico o anche analitico: non va verso le cose, ma solo verso i linguaggi che esso analizza.
La fenomenologia va verso le cose stesse proprio come ogni soggetto - secondo la fenomenologia - va verso le cose stesse, o comunque verso il mondo. La fenomenologia va prima di tutto verso l’essere che va verso le cose stesse: l’esserci (non l’essere umano, ma quel che per un fenomenologo è essenziale dell’essere umano). Sartre (lui stesso fenomenologo) disse di Husserl “ci ha liberato dalla vita interiore”. Il paradosso storico della fenomenologia - che ha esercitato un’influenza profonda in parte della psicologia e soprattutto della psichiatria - è che essa nasce su un programma radicalmente anti-psicologico: essa nega che ci si possa occupare dell’anima, della psyche, indipendentemente dal suo essere-nel-mondo, dal suo tendere alle cose e stare in mezzo alle cose stesse. (Questo progetto anti-psicologico è passato nella psicoanalisi stessa. Ad esempio, il pensiero psicoanalitico di Jacques Lacan è impensabile senza questa critica fenomenologica ad ogni tipo di psicologia.)
Certo continuiamo a darci all’introspezione, sia prima che dopo Husserl, ma la vita interiore di cui la fenomenologia ci ha liberato è una finzione filosofica: è il presupposto secondo cui la mente, lo spirito, la coscienza, o il pensiero - tutti nomi di una stessa attività - possano essere descritti o analizzati in quanto tali, avulsi dal mondo in cui mente o spirito o coscienza o pensiero sono situati. Husserl va verso le cose stesse nella misura in cui ha scoperto l’acqua calda - ma che cosa la filosofia può scoprire mai, se non l’acqua calda? - cioè che “la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa”. Quindi, il pensiero è pensiero di qualche cosa, la mente opera su qualche cosa, ecc. E il soggetto non è una monade ma sempre in situazione. Questo ci fa capire fino a che punto la fenomenologia - come disse lo stesso Husserl - è una “scienza delle ovvietà”. Questa è la sua forza e il suo limite.
Mi si dirà: io posso avere anche coscienza di una non-cosa, ad esempio di un centauro. Inoltre, posso anche riflettere sulla mia coscienza indipendentemente dalle cose di cui sono cosciente. Ma il centauro, anche se non esiste, è pur sempre qualche cosa del mio pensiero o della mia immaginazione. E se poi rifletto sulla mia coscienza, questa mia coscienza è pur sempre “qualche cosa” di cui sono cosciente. Detto in altri termini, Husserl vede la coscienza o il pensiero umani come inscindibili dalla loro intenzionalità, dal fatto cioè che possiamo essere coscienti sempre di qualcosa e sempre secondo un certo modo. La nozione di “intenzionalità” è assolutamente centrale in ogni forma di fenomenologia: essa lega inscindibilmente il soggetto pensante e agente a ciò ch’egli pensa e fa.
Si consideri questo libro che è davanti a me, qui sul tavolo. Se lo osservo come un oggetto bello, estetico, come parte del mobilio, esso si offre al mio sguardo secondo un’intenzionalità estetica. Se invece lo voglio prendere per aprirlo e citarvi una frase, e lo afferro, diventa un altro oggetto: è il libro in quanto oggetto della mia intenzionalità prensile. Ora, un atto così semplice, così quotidiano, come prendere un libro sul tavolo, può essere investito da due modi com-prensivi (da due prese, direi) radicalmente diversi. Un modo è quello della spiegazione oggettiva, un altro è quello della comprensione fenomenologica. Tutto il pensiero del Novecento - non solo filosofico, ma anche psicologico, etico, politico, estetico, ecc. - si è diviso tra questi due approcci incommensurabili.
Il primo approccio mirerà a spiegare l’atto prensile, facendo appello di solito al metodo scientifico. Esso si interesserà ai muscoli che mi permettono di stendere il braccio e di stringere poi il libro in mano, ai nervi che lo rendono possibile, al cervello che è alla fonte dell’atto, e simili. In altre parole, questo approccio mirerà a descrivere o ricostruire la macchina grazie a cui io posso mettere in opera la mia intenzione di prendere quel libro. La scienza, da Cartesio in poi, mira a descrivere il mondo come una grande e complessa macchina - non a caso abbiamo avuto una meccanica classica, oggi abbiamo una meccanica quantistica, ma sempre di meccanica si tratta. La macchina è un insieme di ingranaggi, di mediazioni direi, grazie a cui il pensiero “prendo il libro” si traduce nell’atto reale di prendere il libro. Si dirà: ma il pensiero “prendo il libro” non è prima, al di fuori, a monte della macchina prensile? Ora, la cosiddetta psicologia - nata nell’Ottocento positivista come scienza oggettiva della mente - mira a descrivere il pensiero e la mente come a sua volta una macchina (oggi gli psicologi cognitivisti offrono come modello di macchina il computer, i connessionisti offrono come modello di macchina le reti neurali). La psicologia è nata per spiegare in sostanza la mente come una specie di macchina che spieghi a sua volta la meccanica dell’agire e del comportarsi. La mente viene descritta dalla psicologia come una macchina che usa altre macchine (il corpo, il linguaggio, strumenti vari). Nella misura in cui la psicologia si vuole scientificamente esplicativa, deve pensare la mente o la coscienza come un tipo di macchina.
Questo approccio oggettivista è profondamente penetrato anche tra gli psicoanalisti, e permea il linguaggio degli psicologi in generale - mi riferisco ai laureati in psicologia, oggi riconosciutisi anche come corporazione. Anche nel Medioevo le corporazioni -barbieri, medici, speziali, tessitori, muratori, ecc. - avevano una loro “filosofia”. La filosofia della corporazione degli psicologi - della quale anch’io, peraltro, sono membro - è sostanzialmente il meccanicismo. Quante volte abbiamo sentito evocare, da laureati in psicologia o in psichiatria, “i meccanismi psicologici” che starebbero alla base di comportamenti dei loro amici o pazienti? Non si tratta solo di una metafora: la psicologia, in quanto scienza, ci porta a considerare di fatto la mente, l’anima, lo spirito, come meccanismi. Certo, non si tratta - fino ad ulteriori scoperte - di una macchina necessariamente materiale, piuttosto di una macchina fatta di idee, desideri, pensieri, volizioni, ecc., ma sempre macchina è. Ora, un vero fenomenologo non parlerà mai di “meccanismi psicologici”. Non perché escluda che esistano ma, come direbbe Husserl, ne fa epoché, li mette tra parentesi - insomma li ignora. Di fatto, il fenomenologo si rifiuta di spiegare la vita soggettiva. Chi di voi si aspetta da Binswanger delle spiegazioni della schizofrenia, per esempio, resterà presto deluso.
Se si vuole spiegare, prima o poi occorrerà ricostruire o descrivere un meccanismo. Diciamo piuttosto che un fenomenologo vuole comprendere un soggetto. Notate, dico “soggetto” e non “mente” o “anima” - in verità, Binswanger non parla tanto di soggetto quanto di Esserci. Oggi il termine preferito (inflazionato) di tutti coloro che si oppongono all’oggettivismo meccanicista è soggetto, Esserci non lo usa quasi nessuno. Che differenza c’è tra soggetto o Esserci da una parte, e mente o anima dall’altra? E’ che le seconde sono oggetto di studio esplicativo, mentre i primi non sono oggetti da spiegare ma essere-nel-mondo da comprendere.
Questa differenza tra spiegazione causale (tipica delle scienze meccanicistiche) e comprensione interpretante (a cui si dedica la fenomenologia) è capitale, e ha dominato gran parte della cultura del Novecento. In effetti, come vedremo, Binswanger si guarda bene dallo spiegare, anche in termini psicologici, la schizofrenia paranoidea della signora Suzanne Urban. La sua analisi non spiega nulla della psicosi, piuttosto la descrive. La fenomenologia non scopre né ricostruisce delle cause, si limita a descrivere dei modi di essere. Questo di solito esaspera gli psicoanalisti, i quali pensano invece di avere in mano una teoria esplicativa delle psicosi e delle nevrosi (e anche della religione, delle opere artistiche, dei gruppi sociali, del nazi-fascismo, del Grande Fratello, ecc.). Gli analisti credono di avere in mano le vere cause della schizofrenia, della paranoia, dell’isteria, degli attacchi di panico, delle depressioni, ecc.
Molti dicono agli psicoanalisti “dovete decidervi! O siete degli psicologi come gli altri, che studiano e guariscono i loro pazienti come oggetti. Oppure diventate dei fenomenologi, rinunciate a qualsiasi spiegazione, e vi limitate ad interagire con i vostri pazienti alla luce della descrizione fenomenologica”. Non approfondiremo qui questo dilemma cruciale a cui, storicamente, la psicoanalisi - sia come teoria che come pratica - è stata ed è sollecitata. Secondo me, “il bello” della psicoanalisi è stato il suo voler sfuggire a questa alternativa. Essa cioè ambisce ad essere un’attività comprensiva che si pretende anche esplicativa, una pratica interpretante che si vuole anche una teoria causale. La psicoanalisi è un centauro epistemico, vive in una no man’s land filosofica. La psicoanalisi, come un funambolo, cammina lungo una corda tesa: continuamente tende a ricadere o verso la psicologia oggettivista (e quindi a diventare una semplice branca della psichiatria o della psicologia) o verso il puro essere-con fenomenologico che si rifiuta di determinare qualsiasi causa.
Si prenda un sogno. Da una parte Freud, in un libro pubblicato un secolo fa, tende a fornire una teoria causale del sogno, a dirci quali sono le cause per cui ho sognato questo piuttosto che quello, e in generale perché sogno piuttosto che dormire senza sogni. Una teoria del sogno con i fiocchi, come ci sono oggi teorie neurologiche, o cognitiviste, o connessioniste del sogno e del sonno. Dall’altra Freud mette tra parentesi la pretesa esplicativa (perciò il suo libro si chiamò Interpretazione dei sogni e non Scienza dei sogni o Spiegazione dei sogni) e si limita ad interpretare un sogno così come interpretiamo il film che abbiamo visto il giorno prima, oppure una poesia un po’ ermetica che abbiamo letto. L’analista minaccia sempre di ridursi a psicologo clinico oppure, all’inverso, ad una variante terapistica di critico artistico-letterario. La scommessa - ardua - della psicoanalisi consiste nel supporre che sia possibile una “terza via”, non quella di Tony Blair, ma quella dell’“interpretazione esplicativa”.
Quindi, la fenomenologia comprende e non spiega. (Alcune teorie fenomenologiche hanno anche pretesa esplicativa: ma si tratta di un arrangiamento per renderla più rispettabile, di un compromesso con le esigenze esplicative della scienza.) Il fenomenologo non spiega le cose soggettive come oggetti (meccanici), ma comprende i soggetti come Esserci, cioè come esseri che sin dall’inizio sono già gettati nel mondo. Si prenda il semplicissimo atto di afferrare questo libro. Si tratta di un semplice movimento, che risulta comprensibile nella misura in cui l’ho colto come un atto appunto intenzionale: desideravo prendere quel libro, e quindi l’ho preso. Se mi avessero amputato il braccio, avrei dovuto ricorrere a macchine, come protesi, ganci, e simili: ma l’intero processo è comprensibile solo nella misura in cui è intenzionale. E come descrivere questa intenzione? Non come un fatto privato della mia mente, ma come connessa al mio vivere-in-mezzo-ai-libri. Il soggetto è descritto dalla fenomenologia non come oggetto mentale ma come essere-nel-mondo, nel suo rapporto immediato con le cose. Mentre un approccio scientifico si occupa sempre delle mediazioni (mira a ricostruire gli ingranaggi non visti da me che mi permettono di afferrare libri e/o di desiderarli), la fenomenologia parte dal fatto immediato che quando desidero, penso, amo o odio, ipso facto so che cosa desidero, penso, amo o odio. Quindi, per la fenomenologia l’inconscio esiste solo “per modo di dire”. L’inconscio, per il fenomenologo, è una complicazione della coscienza - è una coscienza che si dimentica di essere tale. L’ipotesi freudiana dell’inconscio ha avuto tanto successo perché andava nel senso della spiegazione oggettivante (almeno in apparenza): l’inconscio era un po’ la macchina, l’insieme di ingranaggi psichici, che spiegano molti nostri vissuti di cui non sappiamo darci ragione. La fenomenologia cerca di reintegrare nell’intenzionalità - quindi nella coscienza - ciò che per Freud restava inconscio, coglibile cioè solo attraverso complesse mediazioni interpretative, insomma, attraverso “macchine psichiche”. La fenomenologia chiama Erlebnis questa immediatezza dell’essere-nel-mondo di ogni soggetto.
Si traduce Erlebnis di solito come “vissuto” o “esperienza vissuta”. Questo lascia credere che si tratti di una descrizione di tipo affettivo o sentimentale: che si tratti di descrivere le mie palpitazioni o sentimenti squisitamente interiori in certe situazioni. Ma per la fenomenologia anche le emozioni più viscerali e privatissime sono un modo di essere-nel-mondo, un nostro rapporto alle cose. Come potrei in effetti descrivere il mio amore per una donna, ad esempio, se non parlando della donna che amo? Anche se questa donna, magari, ignora il mio amore e la mia stessa esistenza. Non c’è da una parte il mio amore “vissuto” e dall’altra il suo oggetto, la mia amata, eventualmente intercambiabile con altre. Un vero amore fenomenologico è un amore unico: il mio sentimento è intriso fino alle ossa, direi, del suo oggetto. Quando amo una donna, la sua unicità - e l’essere proprio lei - è parte del suo essere-oggetto-del-mio-amore. Il mio amore e l’amabilità dell’oggetto sono fenomenologicamente inscindibili - non per la psicologia scientifica, che può invece fare un discorso sulle condizioni causali dell’innamoramento, tra gli animali come tra gli esseri umani. Per la psicologia oggettiva l’amore per una donna, ad esempio, è un aggregato di oggetti: occorre che un x sia “di sesso femminile”, “bionda, o bruna, o rossa”, “bianca di pelle, o gialla, o nera”, “dolce, o volitiva, o aggressiva”, “middle class, classe operaia, aristocratica,” ecc. Un insieme di tratti oggettivi sono come le rotelline o le cinghie mentali che fanno sì che grazie ad un’impressione esterna un “animale razionale maschio” dica “la amo!” Per il meccanicismo un oggetto globale è sempre scomponibile in oggetti atomici costituitivi. Invece per la fenomenologia è comprensibile solo l’essere umano in quanto solo egli o lei è Esserci - qualcosa di non scomponibile in parti - sa cioè di essere situato nel mondo senza identificarsi completamente con la cosa situata.
Erlebnis è connesso a Leben, vita. Il riferimento alla vita è capitale in tutta la fenomenologia. Non si tratta della vita però che studia il biologo o lo psicologo, come oggetto dello sforzo esplicativo. Nei suoi laboratori il biologo non incontra mai veramente la vita: incontra solo meccanismi biologici, cellule, cromosomi, DNA, sangue e ossa, insomma frammenti materiali. Invece il mondo della vita (Lebenswelt) evocato così spesso dal fenomenologo è una vita spirituale, non ha un vero rapporto con la vita delle scienze biologiche. E’ una vita vissuta, soggettiva, che non può essere oggettivata. E’ il modo di vivere di un soggetto in mezzo alle cose - percepite, pensate, immaginate, e persino allucinate, come vedremo in Suzanne Urban. La sfida di Binswanger consiste in effetti nel descrivere l’Erlebnis psicotica per rendercela finalmente comprensibile. Egli si rifiuta di rapportarsi alla psicosi come ad un oggetto da spiegare: la descrive come una forma di soggettività che va compresa. In effetti, nota Binswanger, la spiegazione freudiana della paranoia - che egli ad un livello appunto esplicativo condivide - non ce la rende per questo più comprensibile. Quando spieghiamo ad esempio il grandioso delirio del presidente Schreber attraverso “meccanismi” (appunto!) di proiezione e rovesciamento di pulsioni omosessuali verso il dottor Flechsig - come fece Freud - la paranoia di Schreber ci appare ancora incomprensibile. La scienza non ci rende il mondo comprensibile: ci permette solo di prevedere i fenomeni date certe ipotesi di partenza. Il mondo della scienza è una macchina, che possiamo conoscere ma non capire - perché non c’è nulla da capire.
Ma che cosa può mai significare rendere comprensibile un delirio, qualcosa che - per definizione - ci risulta incomprensibile? E’ una specificità del nostro essere-nel-mondo la nostra capacità di distinguere oggetti immaginari e reali: un’intenzionalità completamente diversa presiede al mio percepire questo libro qui e al mio immaginarmelo quando non è davanti ai miei occhi. Ma appunto, lo psicotico infrange incomprensibilmente questa differenza di intenzionalità: qualcosa che per noi è immaginario viene da lui vissuto come evidenza reale, e qualcosa che per noi è reale e insignificante viene intenzionato da lui come fonte di intenzioni significanti. E’ possibile rendere comprensibile ciò che è eminentemente incomprensibile, la follia?
Negli anni 70 uno studente giapponese, non ricordo più in quale paese, uccise la sua fidanzata olandese, la fece a pezzi, conservò i pezzi in frigorifero e se li mangiò poco alla volta. Si tratta di un atto ai limiti dell’umano, mostruoso. Ma la sfida del fenomenologo consisterà nel cercare di rendere comprensibile questo atto. (Il che non vuol dire perdonabile: contrariamente a quel che si pensa, capire qualcuno non significa necessariamente perdonarlo o essere indulgente con i suoi atti.) Ma cosa vuol dire renderci comprensibile l’Erlebnis alla fonte di questo comportamento che ha ridotto un altro essere umano - in questo caso amato - a puro cibo? Di solito, quando vogliamo essere capiti, diciamo “mettiti nei miei panni” - ma è possibile mettersi nei panni di un cannibale? Ripetiamo che non si tratta, per il fenomenologo, di spiegare questo comportamento antropofagico. Che lo si spieghi attraverso delle specificità delle connessioni sinaptiche nel suo cervello, o attraverso le proiezioni introiettive nel suo rapporto precoce con il seno materno, o attraverso l’influsso della società consumistica europea su un giovane educato in Estremo Oriente, comunque di spiegazioni causali si tratta. Il fenomenologo le ignorerà.
Già diverso però se facciamo notare che qui si tratta di un caso estremo di “amore divorante”. Anche se i miei amori non fossero mai stati divoranti, capisco bene quando mi si dice “X ama Y di un amore divorante!” E’ un modo di descrivere la specificità intenzionale di questo amore: è un sentimento che non si limita a penetrare, accarezzare, accogliere, abbracciare, tutelare l’altro, ma a farlo sparire dentro di me distruggendolo appunto come altro-da-me. Qui la divorazione metaforica è divenuta letterale, così il caso del giapponese alieno ci appare finalmente come un caso-limite di una modalità di amare che ci è in fondo familiare, umanamente comprensibile e frequente. Certo, questa acquistata comprensibilità ha qualcosa di comico, dato che c’è una sproporzione tra l’orrore dell’atto e la sua “prendibilità” o “(com)prensibilità” fenomenologica. Ma il comico è liberatorio: ci rende familiare e comprensibile qualcosa che altrimenti ci avrebbe atterrito con la sua eccezionalità ed estraneità. Ora, gli schizofrenici di Binswanger sono non meno “alieni” del giapponese cannibale, ma vanno resi “comprensibili”.
Vediamo ora come la schizofrenica paranoidea Suzanne Urban viene compresa da Ludwig Binswanger, primario della clinica di Kreuzlingen in Svizzera già alla fine della Prima Guerra Mondiale.


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