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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Area: Psico-socio-analisi

GRUPPO OPERATIVO EMOZIONI ISTITUZIONALI E CAMBIAMENTO

Ermete Ronchi, 1997

Seconda parte (paragrafi da 11 a 15)

Ripubblicato da: Rivista Italiana di Gruppoanalisi, Vol. XII - N. 3/4 dic. 1997 pagg. 41-78.
Si ringrazia la Direzione della Rivista e l’Editore.

 

11. La dinamica del caso

Nel gruppo di cui ora sto parlando, a un partecipante che ancora a metà seminario attaccava continuamente il progetto e disconfermava sistematicamente anche gli interventi dei colleghi, ma stava lì, a un certo punto dissi qualcosa del genere: “Senta, la responsabilità me la assumo io. Lei ora ci saluta, torna al suo lavoro, ci pensa un po’, e decide liberamente come vuole essere: se qui con noi a lavorare sugli obiettivi che ci siamo dati o a fare altre cose che le sembreranno più importanti”.

La situazione era improvvisamente divenuta elettrica. Leggo dai miei appunti le note che avevo buttato giù quella stessa sera per me stesso: “Io sono qui, sto lavorando con chi vuol lavorare, non mi vergogno di quel che faccio, ne vado fiero. Si tratta di un lavoro che – per molti dirigenti in varie parti d’Italia nel pubblico e nel privato – è risultato di aiuto pratico, e non consento a nessuno di sabotare il mio lavoro.

Ormai queste cose lei le va ripetendo da molto tempo e abbiamo capito il suo punto di vista. C’è però anche un problema di responsabilità e di rispetto verso gli altri colleghi, oltre che verso di sé. Se c’è rispetto, ne possiamo parlare... Diversamente dobbiamo assumerci la responsabilità di dire stop a questo brutto modo di procedere”.

Si era prodotto un brusco risveglio. Grazie a questo incidente si poneva fine a un una sorta di incubo gruppale e, con tutti più “svegli”, ora era possibile vederne l’importanza e scoprire che non era il caso di buttarlo via frettolosamente, come qualcosa di brutto da nascondere, ma che si poteva trattarlo come preziosa risorsa per comprendere meglio un tratto di base della vita organizzativa e di ruolo. “Non ce l’ho con lei come persona” avevo aggiunto “così come lei continuamente ripete di non voler attaccare nessuno sul piano personale.

Mi piacerebbe essere capace di far sentire a lei, e attraverso lei a tutto il gruppo, che sta esprimendo un sintomo, che è semplicemente un leader portavoce che mette dolorosamente l’accento su un problema grave rispetto al quale lei è molto sensibile”.

L’esito fu che non solo il diretto interessato non si offese, ma cambiò registro, partecipando attivamente e con curiosità a tutto il seminario. Il gruppo conveniva sul fatto che questa sembrava una buona lettura di ciò che stava accadendo nel gruppo stesso che, in quella circostanza, si stava comportando come specchio di problemi e situazioni reali presenti nel lavoro quotidiano.

I componenti del gruppo, che prima di questo mio intervento rimproveravano il partecipante con battute, dicendo: “Tanto fai così tutte le volte, in tutte le riunioni anche sul lavoro”, non facevano che girare il coltello nella piaga e – proprio perché lo disconfermavano senza prenderlo sul serio – lo rifornivano di fatto di argomentazioni per nuovi interventi dello stesso tipo.

Ma anche altri componenti del gruppo, che mi e si mandavano reciprocamente segnali non verbali a indicare di essere stufi, che era meglio non provocarlo, far finta che non esistesse, hanno avuto l’opportunità di constatare come anche loro, sia pure da posizioni più nobili dal punto di vista emotivo, erano di fatto prigionieri di quello stesso gioco collusivo.

La cosa curiosa che constatai con piacere era che io stesso, che fino a quel momento mi ero sentito difettoso, incapace di trovare il bandolo della matassa, con la sensazione di essere fortemente in ritardo con il lavoro rispetto ad altri gruppi, stavo in parte colludendo, non riuscendo a riconoscere l’aspetto di auto-invidia che si generava in me, nel constatare che mi stavo avvicinando a una importante scoperta e che non ero così difettoso come quei segnali esterni sembravano insinuare.

Tutti – me compreso – grazie a quell’episodio, avevamo avuto buone occasioni di apprendimento. Sul presunto ritardo, accumulato nello svolgimento del programma, dovetti poi subito ricredermi. Attraversata positivamente quella situazione di impasse, non solo si riuscì a fare più velocemente tutto il lavoro previsto ma anche – a richiesta – a svolgere una parte finale di input sulla gestione di tempo e decisionalità che in altri gruppi avevo dovuto sacrificare per mancanza di tempo!

 

12. Gruppo operativo e ostacolo epistemofilico

Accennerò ora brevemente ad alcuni esiti della ricerca di E. Pichòn Rivière (1985) e del suo gruppo (Bleger, 1989) nonché delle successive elaborazioni della ricerca psicosocioanalitica italiana, per poter comprendere meglio il valore dell’incidente di cui ho raccontato, in termini di disvelamento dell’ostacolo epistemofilico (o epistemologico) sotteso.

Con ostacolo epistemofilico o epistemologico (termini usati da Pichòn Riviere come sinonimi) Pichòn Riviere intende l’ostacolo che si frappone tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza. Questo ostacolo agisce nel soggetto, sia questo individuale o gruppale, come sistema massiccio di difese che hanno le caratteristiche dell’oggetto stesso (il compito nel caso di un gruppo di lavoro) e che gli impediscono di vedere sia l’ostacolo stesso sia il compito che sta oltre l’ostacolo.

Il suo attraversamento si rende perciò necessario se si vuole davvero perseguire il compito, e tuttavia questa operazione non è affatto semplice, esige un lungo addestramento ed è simile alla capacità che si richiede per poter leggere le immagini tridimensionali in uno stereogramma (Langlands Neves, 1997).

Il partecipante che interveniva continuamente era come se si fosse bloccato con le sue osservazioni a segnalare continuamente gli aspetti fuorvianti della superficie dello stereogramma (cfr. figura 2), costringendo il gruppo a reagire, ma sempre all’interno dello stesso tipo di visione. Solo allontanando quel rumore di fondo – era questo l’implicito – la visione sarebbe finalmente risultata più chiara e ordinata. La capacità del conduttore di un gruppo operativo consiste nell’aiutare il gruppo a disvelare l’ostacolo epistemologico. Operazione, questa, molto simile al ritirare il fuoco di osservazione dalla superficie del quadro per posizionarlo in un punto nuovo, da ricercare, tra gli occhi dell’osservatore e il quadro stesso.

 

Figura 2

 

L’apparizione dell’immagine tridimensionale avviene improvvisamente ma, per chi non è addestrato, dopo non poca fatica, e ha le stesse caratteristiche dell’insight in situazione psicoterapeutica. Come già detto, l’ostacolo epistemologico o epistemofilico ha le stesse caratteristiche del compito. Nel caso qui considerato, gli aspetti di responsabilità nella gestione del proprio ruolo dovevano fare i conti con il tema della mancanza (ad esempio di tempo) e della decisionalità in situazione complessa, oltre che dell’assunzione del rischio connesso a ogni decisione.

Di fatto quel tipo di intervento ricorrente non consentiva né al partecipante né agli altri di entrare nel merito dei contenuti proposti, divorando continuamente – come Crono – ogni pensiero germinativo. Inoltre sabotava la capacità decisionale e la possibilità di assumersi fino in fondo i rischi connessi alla con-divisione di una più ampia responsabilità nel gestire il ruolo; nel nostro caso un ruolo di apprendimento, in collaborazione con altri ruoli analoghi.

Va notato ancora che apparentemente il problema sembrava riguardare un singolo partecipante, per cui sembravano giustificate le battute dei colleghi intese a isolarlo. Invocando un intervento “chirurgico” si chiedeva di tagliar via la causa del disagio o di metterla sotto anestesia. Ma nell’approccio qui proposto questa soluzione mostra il carattere falsamente risolutivo del problema; anzi spero di aver potuto mostrare come, ricorrendo a questo tipo di pseudo soluzione, il gruppo (e qui il conduttore inesperto potrebbe colludere) si appiattisca sulla superficie perdendo la possibilità di cogliere la terza dimensione, quella che dà senso all’immagine nascosta (due canguri che saltano). Colui che esprime per così lungo tempo e con tenacia un certo tipo di disagio può essere infatti considerato un sintomo, il portavoce di un problema gruppale.

Come, se si ha la febbre, non si pensa di adottare come soluzione l’eliminazione del termometro ma si cerca, aiutati dal termometro, di comprendere meglio le ragioni che determinano quella febbre, allo stesso modo è possibile procedere in situazione di gruppo operativo. In questo approccio gli incidenti possono divenire di grande utilità pratica.

Nel momento in cui si attraversa l’ostacolo epistemologico, trovato il nuovo focus di osservazione, si è superata la fase del pre-compito e il “compito” appare chiaro come l’immagine tridimensionale che a quel punto è ben visibile e sulla quale è possibile far convergere le capacità del gruppo, che diviene un moltiplicatore di effetti sinergici.

Anche la ricerca psicosocioanalitica italiana sui gruppi operativi ci mostra che nel gruppo e in ogni partecipante risuona un aspetto parziale e diverso dell’oggetto da conoscere e dell’ansia che questo processo di conoscenza implica. Ecco perché il gruppo di lavoro orientato al compito consente una conoscenza molto più complessa dell’oggetto e una maggiore tollerabilità dell’ansia che esso provoca; se il gruppo ne diviene consapevole, l’ansia che quel particolare oggetto provoca può essere allora distribuita, con un diverso grado di con-divisione e quindi di solidarietà, su più soggetti.

È in questa configurazione che il gruppo diviene gruppo operativo, cioè in grado di fare cose che al singolo sarebbero impossibili.

 

13. Il passaggio dal pre-compito al compito

Ogni gruppo, con intensità diverse, aveva la sua faticosa situazione di iniziale disagio da attraversare. Quella fatica dimostrava che vale la pena di non negare i problemi emergenti e che dedicare un po’ di tempo ai segnali emergenti nell’hic et nunc paga sempre.

“Ah, meno male, forse queste cose sono solo davvero l’esito di un brutto sogno.”, sembrava che ci si potesse dire, “Ora si è più svegli, l’oggetto può essere visto con occhi nuovi; qualcosa d’altro, di diverso, forse si può fare. I vincoli imposti al mio ruolo e alla mia organizzazione non sono solo quelli che pensavo prima; ce ne sono anche altri più strutturali, che pescano nella terza dimensione, anche se, per conoscerli meglio, occorre concedersi il lusso di accogliere – se necessario – anche l’incubo.

Ora si possono accostare persone, situazioni, compiti, progetti, cogliendo nuove dimensioni, quindi in modo più realistico, senza che questo processo susciti troppi fantasmi”. Il gruppo – questo era l’apprendimento – presenta sempre problemi di avvio, ma offre anche possibilità di conoscenza che al singolo sono assolutamente precluse.

E questa delicata fase, nella quale apparentemente sembrava che il tempo venisse buttato via, che ancora non si fosse potuto affrontare di petto il compito del seminario, richiedeva un tempo adeguato, variabile da gruppo a gruppo, per essere attraversata. Era però una fase assolutamente necessaria per poter andare seriamente oltre la fase del pre-compito.

Dopo averla attraversata a livello individuale e gruppale si può affrontare la fatica del compito; e solo più tardi si potrà cominciare a pensare realisticamente in termini di progetto. Mancando la possibilità di lavorare adeguatamente su questa fase, ogni progetto diviene velleitario, ancorato a premesse distorte, che assumono come dato di realtà la superficie bizzarra dello stereogramma. Nel nostro caso il compito, non facile date le premesse, era: “Lavorare su ruolo e organizzazione per saper rispondere delle proprie responsabilità e per fare bene la propria parte (assumendo consapevolezza che questo tipo di gioco è, necessariamente, plurale)”.

A quel punto l’obiettivo poteva essere meglio compreso, condiviso nella sua importanza strategica, più facilmente interiorizzato come cosa non ostile, ma professionalmente interessante. Ora era più agevole comprendere che, se i dati di disagio diffuso emersi dalla ricerca erano attendibili, era impossibile non riscontrarli, a volte in maniera acuta, anche nel gruppo d’aula, nella nostra micro-organizzazione. Ma questi piccoli apprendimenti non ci obbligavano più ad affrontare i problemi partendo da premesse perdenti.

 

14. Per me, cosa significa lavorare? Psicosocioanalisi del ruolo

A valle di alcuni input su alcuni elementi di base dell’organizzazione intesa come sistema vivente, gli interventi erano ora qualitativamente molto diversi da quelli precedenti. Attraverso la metafora dell’iceberg era poi possibile “vedere” l’organizzazione in modo più realistico e più dinamico.

C’era un sostanziale generale consenso su questo modo di rappresentare quelli che qualcuno chiamerà “i veri problemi del lavorare qui”, (cfr. figura 3). Era un po’ come scoprire l’uovo di Colombo; eran cose alla portata di tutti, che tutti avevano sotto gli occhi da tempo e che per qualche strana ragione – non tanto strana in verità se si accoglie la metafora del brutto incantesimo – non riuscivano a diventare patrimonio collettivo. La curiosità andava crescendo, le molte situazioni critiche ora potevano essere lette con una chiave di lettura più sofisticata e condivisa.

 

Figura 3

Si poteva così spostare l’attenzione dal contesto ai singoli attori che, interpretando differenti parti, davano senso al tutto. Ciascuno poteva iniziare a parlare anche del proprio lavoro, concretamente. La domanda che nasceva spontanea e che proponevo al gruppo come mini-ricerca d’aula diventava: a questo punto, per me, cosa vuol dire lavorare? Quando ci si può interrogare in modo non banale su alcune ovvietà, le sorprese non mancano.

Dopo qualche momento di silenzio e di stupore, dalla sollecitazione a confrontarsi su questa questione non teorica, ma molto pratica, emergevano le risposte più diverse: da “obbedire a un capo anche se non capisce niente” ad “avere un po’ di denaro – poco – per mantenere sé” o “la famiglia”, a “passare un sacco di tempo seduto a una scrivania a far cose che nessuno vede” o “sopportare pazientemente anche gli utenti maleducati” o “resistere ancora qualche mese in attesa della pensione”, o “perché mi piace quel che sto facendo” o “cercare di fare bene il mio lavoro”, con tutti che dicevano: “Anch’io lo faccio bene, cosa vuol dire?” e così via.

Le argomentazioni erano molto varie e si scopriva come fosse difficile lavorare insieme su obiettivi comuni a partire da spinte interne diverse e spesso addirittura contrapposte. Che cosa poteva produrre convergenza nel rispetto, anzi nella valorizzazione delle singole differenze? Visto che non emergevano basi comuni condivisibili, suggerivo di provare ad ascoltare ciò che altri, studiosi, colleghi e ricercatori, avevano scoperto attorno a quella domanda così semplice e così intrigante.

Posto che lavorare implicava gestire responsabilmente un ruolo, e che questo era condiviso, si trattava di definire il concetto di ruolo. Qui lo proponevo secondo l’approccio psicosocioanalitico in base al quale gestire un ruolo, qualunque esso sia, significa esercitare una propria sfera di autonomia o discrezionalità all’interno di “vincoli” esterni, organizzativi.

Questo modo pratico di definire in maniera semplice il ruolo, e quindi di trovare una base comune capace di mettere in comunicazione tutti i ruoli presenti nel gruppo e nell’organizzazione più ampia, trovava ancora una volta il consenso di tutti. Ora tutti avevano qualcosa da condividere con gli altri anche se impegnati in ambiti del tutto diversi. Il concetto, che prendeva spunto dalla socioanalisi di E. Jaques (1978), veniva rappresentato in lavagna con la figura 4:

 

Figura 4

Posto che nessun ruolo, e tantomemo nessun ruolo direttivo, può avere discrezionalità di ruolo zero e avere invece solo vincoli, si trattava ora di entrare nel merito delle singole situazioni operative ed esaminare quali erano gli ingredienti strutturali del ruolo di ciascuno. Anche perché associati alla struttura del ruolo c’erano problemi di gestione molto pratici. Gli esempi della figura 5 mostrano due situazioni estreme:

 

Figura 5

Non è la stessa cosa gestire un ruolo caratterizzato dall’una o dall’altra struttura. Ne consegue: conosco abbastanza bene i miei vincoli di ruolo per poter realisticamente capire qual è la mia effettiva discrezionalità di ruolo? Quali vincoli sono davvero tali? E se ho una discrezionalità bassa o penso di non averne affatto, che ci faccio in un ruolo direttivo? E se è troppo alta? Ce la faccio a reggere tutta quella responsabilità, a prendere decisioni di così vasta portata?

Di cosa si ha bisogno per riuscirvi bene, con intelligenza? Che problemi insorgono nella gestione quotidiana di un ruolo, fatto in quel certo modo, a prescindere ancora, per il momento, dalle caratteristiche della persona che lo deve interpretare? Posto che riuscire a “fotografare” la struttura di un certo ruolo ci può aiutare a capire se tende a essere tendenzialmente di tipo A o di tipo B, che tipo di problemi pratici si tenderà a incontrare nelle diverse situazioni?

 

15. I due volti del compito primario

Con questi e altri nuovi strumenti che si rendevano utilizzabili man mano che il lavoro proseguiva, si poteva realisticamente passare al check-up del proprio ruolo con l’aiuto di una esercitazione preparata ad hoc da G. Mazzoleni e da me, dal titolo “Funzionalità e disagi nelle componenti di ruolo”, che si articolava in tre parti.

Una prima parte rilevava i dichiarati del ruolo, il compito primario, le aree di responsabilità e chiedeva poi a ciascun partecipante di ridistribuire le aree di responsabilità tra quelle più discrezionali e quelle più prescrittive, cercando poi di rilevare quale quota del tempo globale di lavoro veniva assorbita dalle due aree.

Nella seconda e terza parte si scandagliava ancora più a fondo la struttura del ruolo cercando di capire quali erano le attività più funzionali e quelle più disfunzionali rispetto al compito primario, nonché le aree di responsabilità in cui prevale il disagio rispetto a quelle in cui prevale la soddisfazione. L’esercitazione si concludeva nella terza parte, con l’invito a concentrarsi sull’esercizio della discrezionalità per capire se fosse più fonte di disagio o di soddisfazione.

Come si vede, si trattava di un’esercitazione molto impegnativa, impossibile da effettuare se non ci fossero stati una adeguata motivazione e un gruppo capace di effettivo lavoro. Chi ha avuto la fortuna di fare questo esercizio, che ha preso buona parte del tempo, sa la fatica e il lavoro che ha richiesto e le possibilità di scoperta che ha offerto.

Qui non è possibile riproporre tutta la ricchezza dei dati emersi. Desidero solo ricordare una scoperta interessante che ha accomunato nella sorpresa quasi tutti i partecipanti. La domanda era stata così formulata: “Provi a sintetizzare qual è l’attività fondamentale che dà senso al suo ruolo: il ‘compito primario’, quell’attività cioè che, se venisse meno, renderebbe il suo ruolo inutile o completamente diverso”.

Nelle risposte scritte i partecipanti sembravano dividersi in due componenti: quelli che mettevano l’accento sul contenuto specialistico del loro lavoro, senza riuscire a vederne gli aspetti trasversali manageriali, o di rapporto con gli utenti, e quelli che viceversa sottolineavano gli aspetti trasversali del loro lavoro, senza rilevarne lo specifico. Ad esempio ricorrevano risposte del tipo: “Interpretare le richieste (rivolte al mio servizio) da parte dei cittadini; trasformare le richieste in un intervento; fare in modo che quell’intervento si concretizzi”. Oppure: “Erogazione di servizi all’utenza”.

Una formulazione questa, centrata essenzialmente sul metodo, che poteva andare bene per molti dei presenti. Oppure, all’estremo opposto, semplici dichiarati più centrati sul contenuto specialistico del lavoro, del tipo: “Liquidazione delle competenze ai professionisti esterni”, oppure: “Attività di programmazione e analisi di procedure”.

Molti non rilevavano, dandolo per ovvio, il contesto, il senso per l’organizzazione di ciò che era l’oggetto essenziale del proprio lavoro. Anzi, era curioso vedere che quando commentavo con alcuni partecipanti: “Sì, va bene, il suo lavoro consiste nel fare riunioni, nell’ascoltare i collaboratori e gli utenti, ma per fare cosa?”, molto spesso gli interessati cadevano dalle nuvole e apparivano sorpresi, senza parole per comunicare ciò che di fatto conoscevano non bene, ma benissimo.

Lì soccorreva il gruppo che invece – ugualmente sorpreso che il singolo non riuscisse a vedere le cose ovvie – esprimeva molto bene ciò che il singolo non riusciva a cogliere con la stessa chiarezza. Il gruppo diceva ad esempio: “Tu lavori all’edilizia e il senso del tuo lavoro è che, in ultima analisi, la città diventi il più vivibile possibile dal punto di vista abitativo; per questo fai riunioni con i collaboratori, con gli amministratori, con gli utenti e così via”. “Certo, ovviamente”, era il commento. “Lo sapevo, ma perché poco fa non mi è venuto di dire anche questo?”

Di nuovo l’uovo di Colombo che getta improvvisamente luce su una cosa che si sa, ma che è implicita. Grazie al gruppo, si andava scoprendo che il rendere più esplicito il senso autentico, profondo del proprio lavoro aiutava a comprendere molte più cose e, nell’esempio, a dare diverso senso alle stesse riunioni, ad affrontare con più tolleranza certi aspetti e con maggiore tenuta certi altri, a variare certe conseguenti priorità. Il problema spesso poteva essere inquadrato, incorniciato in modo diverso, offrendo nuove prospettive.

Così facendo, si scopriva anche che il gruppo, quando funziona, è una potenza. Molte informazioni che al singolo erano invisibili, erano invece disponibili in tempo reale grazie al gruppo, solo che si apprendesse a favorire il crearsi di un clima di lavoro sufficientemente buono.

Così dopo un lavoro di messa a punto del compito primario, i dichiarati si facevano più precisi. Ne riporto alcuni che gentilmente qualche partecipante ha consentito a darmi in copia. Il lavoro di check-up sul ruolo era infatti personale e riservato; nel momento del contratto d’aula a tutti i partecipanti era stata richiesta riservatezza sui contenuti specifici che sarebbero emersi, in quanto il nostro obiettivo sarebbe stato un obiettivo di apprendimento.

    Il mio compito primario è quello di coordinare diverse persone con compiti precisi e ben definiti al fine di realizzare, mantenere e progettare il verde cittadino in ogni sua situazione. Collaboro anche con altri servizi a mantenere in efficienza tutti gli immobili comunali, quali strade, scuole, impianti sportivi ecc., direttamente con personale dipendente dall’Amministrazione Comunale, da me diretto. Se questo non venisse fatto, sia il verde che gli immobili di proprietà comunale non potrebbero essere utilizzati dalla comunità in modo adeguato e funzionale.

    Il mio compito primario è garantire alla cittadinanza l’erogazione di un servizio pubblico essenziale, connesso a esigenze di polizia mortuaria, di valore del culto e di pietà per i defunti. Più in particolare si tratta di organizzare le risorse umane, di reperire e gestire i mezzi materiali necessari per l’effettuazione del trasporto delle salme e dei funerali sul territorio comunale, nonché della sepoltura delle salme nei cimiteri cittadini.

    Il mio compito primario consiste nel tradurre in prassi amministrativa ciò che viene dettato nei testi legislativi e applicarlo producendo concretamente atti, documenti, risposte a quesiti che servono a risolvere problemi pratici dei contribuenti. Interpreto regole per consentire al cittadino di poter pagare in modo chiaro, semplice e trasparente, anche se non vuole, tributi che deve conferire al Comune e per consentire all’Ufficio Tributi di riscuotere le entrate che competono, soprattutto laddove esistano dubbi e incertezze. Metaforicamente dovrei rappresentare per la città uno scivolo per rendere più agevole e semplice il superamento di una barriera architettonica, costituita dal pagamento dei tributi, a fronte di un servizio o di un generico concorso alle spese da parte dei cittadini. L’obiettivo è rendere fluido il rapporto contribuente-Comune-servizi e far sentire il contribuente parte attiva della spesa pubblica.

    Il mio compito primario è recepire e comprendere problemi e aspetti tecnici in materia di edilizia privata e urbanistica, quando le pratiche necessitino di valutazioni o di soluzioni giuridiche o amministrative, facendo così da supporto ad altri uffici del mio stesso settore. Lo scopo comune è quello di risolvere, nell’interesse dell’Amministrazione, ogni pratica e ogni problema connesso al rispetto delle norme giuridiche e amministrative, senza però pregiudicare o ignorare le esigenze più dichiaratamente tecniche.

    Il mio compito primario è facilitare la fruizione da parte degli utenti del materiale musicale cartaceo (partiture, spartiti) presente nella biblioteca specializzata [...] mediante un’attività di consulenza e di coordinamento delle operazioni legate all’acquisizione, alla catalogazione e alla generale valorizzazione del materiale medesimo.

    Il mio compito primario è, in collaborazione con la psicologa, realizzare i dettati dell’art. 1 e 5 della legge 184/83. In particolare: promuovere e selezionare le famiglie interessate all’affido familiare; organizzare campagne di sensibilizzazione e informazione sul territorio per diffondere la cultura dell’affido; lavorare in équipe con colleghe per la gestione dell’affido nella sua durata, con interventi di verifica e autocontrollo in relazione ai vari attori coinvolti (famiglia di origine, nuova famiglia, minore).

Terza e ultima parte
(paragrafi da 16 a 20)


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