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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Area: Psico-socio-analisi

IL CORPO OLTRE I CONFINI DELLA PELLE. RELAZIONE TERAPEUTICA E PERCEZIONE DI SE' COME PARTE DI UN SOGGETTO COLLETTIVO

Ermete Ronchi, 1998

Relazione al congresso: Ai Confini del Reale, corporeità nella relazione terapeutica

In effetti l'originalità più radicale della psicoanalisi non è la teoria psicoanalitica, ma la posizione metodologica secondo la quale il compito principale delle scienze del comportamento è l'analisi della concezione che l'uomo ha di se stesso.

G. Devereux

Eppure qualcosa mi dice che non fu un caso che l'inventore delle coordinate, che sono tra gli strumenti scientifici più materialisti e raffinati, conferì anche dignità alla superstizione dualistica affermando la separazione mente materia. Le due idee sono intimamente legate. E la loro relazione la si coglie con nettezza massima quando il dualismo mente/materia viene visto come uno strumento per eliminare la metà difficile del problema dall'altra metà, più facilmente spiegabile. Una volta separati, i fenomeni mentali potranno essere ignorati. Questa sottrazione, naturalmente, lasciò alla metà che poteva essere spiegata un carattere troppo materialistico, mentre l'altra metà divenne affatto soprannaturale. Ma da entrambe le parti sono rimasti margini vivi e la scienza materialistica ha nascosto questa ferita generando il proprio insieme di superstizioni.

G. Bateson

Ogni passo separato non dà informazioni riguardo alla danza.

M. J. van Trommel

 

SOMMARIO

Quali cambiamenti di stile potrebbero essere introdotti nella pratica clinica se il termine "corpo" potesse essere inteso come un qualcosa in grado di espandersi in modo vitale oltre i confini della pelle? Qui cercherò di proporre alcune riflessioni che nascono da una ricerca di matrice psico-socio-analitica che accosta i temi dell'individualità e della gruppalità, del singolare e del plurale, in una prospettiva di tipo sistemico, psico-eco-logica.

L'idea è quella di concorrere ad aumentare la possibilità di percepire la presenza di un "corpo", non solo in senso fisico ma anche in senso psicologico ed eco-sistemico, e, quindi, di poter offrire nuovo senso alle interazioni tra individui, gruppi e istituzioni.

 

1. "Corpo come quantità e sistemi viventi

Il titolo di questo convegno "Ai confini del reale - Corporeità nella relazione terapeutica" mi ha suggerito spunti e idee per proseguire un confronto con una pluralità di punti di vista e di interlocutori. Vi propongo pertanto questo lavoro con l'intento di mantenere vivo il dibattito e per contribuire alla ricerca su un territorio di grande interesse. Il termine "corpo" infatti costituisce un punto fermo e un patrimonio di pensiero e di conoscenza comune a molte discipline. Ad esempio, "corpo" è:

  • una quantità di materia definita nello spazio, contraddistinta da proprietà particolari e avente una data forma e una data massa, come ci ricorda la fisica;
  • l'oggetto con il quale o sul quale è stato commesso un reato, ci fa presente il diritto penale;
  • una struttura algebrica in cui ogni elemento diverso dallo zero possiede un inverso moltiplicativo, suggerisce la matematica;
  • o sfondo di tutti gli eventi psichici, si può leggere nel dizionario di psicologia curato da Galimberti (1992).

Nei primi tre esempi "corpo" evoca quantità, pieno, un qualcosa di diverso dallo zero. Nell'ultimo esempio, il termine "corpo" è inteso come corpo vivo; implica la presenza di una materia, ossia di una quantità organizzata da una mente. Qui uso il termine mente nel significato Batesoniano come elemento organizzatore di un sistema.

Da questo punto di vista l'organizzazione è, di fatto, la mente del sistema. Assumendo questa prospettiva è possibile "vedere" l'organizzazione come elemento costitutivo dell'identità del sistema e quindi come l'elemento che dà unità a quel "corpo". È possibile fare riferimento a un corpo inteso come quantità materiale, ma anche a un corpo inteso come materiale organizzato da una mente.

Questa, per F. Capra (1997), è anche la definizione di "vita"; il corpo organizzato da una mente è il corpo vivo. Se si assume quest'ultimo punto di vista diventa impossibile stabilire una volta per tutte quali sono i confini del corpo e della mente. Prendendo a prestito un'espressione di W. R. Bion, tutto dipende infatti dal vertice di osservazione emotivo, prima ancora che cognitivo, che di fatto si assume.

Da queste premesse consegue anche che i termini "corpo" e "mente" rimandano strutturalmente a qualcosa di complesso, a una rete con molti nodi diversi e con diversi tipi di connessioni. Diviene quindi importante approfondire, accogliere e utilizzare anche questa dimensione che, trasversalmente, connette individuo, istituzioni e sistemi più ampi. Questi, proprio grazie a una particolare capacità di auto-organizzazione, assumono caratteristiche viventi.

 

2. L'individuo e il corpo: dove finisce il corpo del cieco?

C'è una immagine che autori portatori di un "corpo" di conoscenze molto diverse hanno evocato per comprendere meglio tutto ciò. Si tratta dell'immagine di un cieco che utilizza il suo bastone come strumento per muoversi nel mondo.

Dove finisce il corpo del cieco?

Nel momento in cui il cieco, grazie al bastone, "sente", questo strumento è di fatto diventato un prolungamento del suo corpo. Il bastone diviene il suo strumento di tatto e di conoscenza.

Vedremo poi che tutto questo dipenderà anche dalla padronanza con cui è possibile far uso dello strumento. Qui per il momento si può rilevare il fatto che gli strumenti conoscitivi che, similmente al cieco, ciascuno nel tempo si è procurato e si è costruito per esplorare il mondo, producono almeno due effetti rilevanti:

  • espandono la possibilità di conoscere un mondo presente oltre i confini della propria pelle e, contemporaneamente
  • ristrutturano il Sè e incidono implicitamente sulla percezione del proprio schema corporeo.

Trovo che l'immagine del cieco - che si attrezza per far fronte alla sua cecità - sia molto appropriata per cogliere il senso profondo del nostro essere nel mondo. Gli autori che si interessano della complessità ci ricordano infatti che l'ambito della conoscenza non riguarda soltanto ciò che sappiamo o ciò che sappiamo di non sapere; essa è anche e soprattutto ciò che non sappiamo di non sapere.

Detto in altri termini si potrebbe dire che ci sono sempre in gioco molte più variabili di quante ciascuno di noi singolarmente possa gestire; inoltre, nuova conoscenza di tipo qualitativo apre a nuovi spazi di inconoscibilità. Da cui l'importanza di poter disporre di strumenti conoscitivi che sappiano coltivare e trattare bene non solo i sentimenti di certezza e di incertezza ma anche quel sentire molto più angosciante che si incontra sulle zone di confine, in prossimità dei punti ciechi del nostro sapere.

Nell'approccio che qui propongo, proprio questi difficili sentimenti possono divenire un valore. Soprattutto per uno psicoterapeuta. Da questo punto di vista si potrebbe infatti osservare come un paziente, portatore di una domanda terapeutica, sia proprio un soggetto che si rende intimamente conto di essere entrato in un punto cieco della propria esistenza e che desidera affrontarlo, non da solo.

Il fisico N. Bohr prende a prestito questa metafora del cieco e del bastone per segnalare alcuni problemi strutturali che anche i non ciechi incontrano nell'usare un qualsiasi strumento: se infatti - osserva - il bastone è impugnato saldamente, ciò consente sì di toccare gli oggetti che ci circondano ma a condizione che le sensazioni tattili del palmo della mano sfuggano all'attenzione; solo allora l'estremità del bastone acquisterà la qualità di organo tattile. Viene così messo in evidenza come non sia possibile osservare il proprio strumento di osservazione mentre lo si sta usando.

Inoltre, se è la punta del bastone quella che consente di percepire, non è più il palmo della mano ciò che costituisce il limite della persona come unità sensibile, ma l'estremità del bastone; persona più strumento costituiscono in questo modo una nuova unità ricorsiva. È lo strumento di cui si dispone ciò che crea le premesse qualitative per poter costruire nuovo sapere.

Va notato ancora che se l'uso dello strumento non è consapevole, questo viene "incorporato" e quindi rischia di sfuggire all'attenzione di chi lo usa. Viceversa, tenendo monitorati e in apprendimento i propri strumenti conoscitivi, la corporeità può svilupparsi oltre i confini della pelle fino a poter toccare, sentire, e anche comunicare con nuovi mondi possibili.

Ne consegue ancora che la nostra stessa conoscenza costituisce di fatto una sorta di protesi che ciascuno usa più o meno consapevolmente e abilmente per aiutare se stesso nel compito non facile di entrare in relazione con gli altri e col mondo.

Dove inizia il corpo dell'individuo? Dove finisce? Da quanto detto il corpo stesso può essere considerato un punto cieco del nostro essere nel mondo.

 

3. Il corpo gruppale

Dato che esiste una "mente" gruppale, intesa come organizzazione diversa dalla somma degli individui che formano un gruppo, si può pensare anche ad un "corpo" gruppale. Una immagine che aiuta a comprendere meglio il senso di questa affermazione è quella di un formicaio o di un alveare. Dall'etologia sappiamo che tutte le formiche conoscono la struttura complessa del formicaio anche se non hanno partecipato alla costruzione di molte sue parti e non le hanno mai viste. In momenti di pericolo è come se funzionasse una mente di gruppo che connette i singoli individui come se divenissero i terminali di una unità transindividuale.

Si tratta di molto di più della somma di singole individualità. È sul livello gruppale che si genera una sorta di auto-organizzazione capace di regolare il funzionamento dell'insieme. L'aspetto "vitale" dipende dall'organizzazione nel suo insieme e quindi dalle configurazioni dinamiche che i singoli tendono ad agire.

In campo clinico queste configurazioni sono state variamente denominate dai vari filoni di ricerca sui gruppi. In quello che si ispira a W. R. Bion, ad esempio, queste configurazioni ricorrenti vengono descritte in termini di "gruppo in assunto di base di dipendenza", di "accoppiamento", di "attacco e fuga", di "gruppo di lavoro e, più recentemente, anche di "meità".

Anche nel filone di ricerca della scuola argentina di E. Pichon Rivière il gruppo è considerato come corpo unico la cui mente è l'E.C.R.O. (Esquema Comceptual de Riferimento y Operativo) e, da questo punto di vista, i singoli individui possono essere osservati come soggetti che interagiscono con le varie funzioni attive di un certo particolare ECRO gruppale, come i diversi organi di un corpo.

Gli individui, mentre esprimono la loro soggettività, lo fanno "inconsciamente" in risonanza con l'ECRO gruppale attivo in quel momento, divenendo per questa via "portavoci" di una sorta di auto-organizzazione gruppale. Anche per questo approccio, l'azione terapeutica si esplica rendendo consapevoli le persone del proprio ECRO individuale, per poterlo usare. Questo è possibile solo apprendendo ad entrare in una relazione interattiva con l'altro e con il gruppo. L'intervento terapeutico agisce quindi sul "corpo" del gruppo, sulla struttura "emergente" del problema, ossia sulla configurazione di un soggetto collettivo inteso nella sua globalità.

Apprendere a "settare" l'ascolto clinico anche sul livello del gruppo non è facile e richiede un training. Come ci ricorda J. Puget, se si assume un modello di lavoro di tipo gruppale si può ottenere l'effetto di incontrare inizialmente maggiore confusione e, quindi, di ritrovarsi in situazioni sostenute da vissuti di tipo glischrocarico.

Come vedremo meglio più avanti, questa è la caratteristica tipica di un'emozione istituzionale espressa da un soggetto collettivo in stato di crisi. È un'emozione che va ascoltata e conosciuta meglio anche nelle sue caratteristiche di "attacco al pensiero", proprio per poterla accostare progettualmente.

Per questa ragione ciò che non risulta possibile cogliere in una relazione bipersonale, che tende a mostrare di volta in volta una sola faccia del problema, può essere colto attraverso la dimensione gruppale che consente di vedere e gestire simultaneamente - quando il gruppo è "operativo" - varie dimensioni e potenzialità nascoste nello stesso problema.

Nello scritto "Dall'individuo al gruppo: cambi di paradigmi e di setting in psicoterapia duale" ho provato a mostrare come il paziente, pur in una relazione terapeutica di tipo duale, quando è in grado di riscoprire, sviluppare e valorizzare la sua gruppalità interna, ottiene benefici su più fronti, incluso quello psico-somatico (E. Ronchi, 1998b).

Riscoprire le proprie matrici gruppali e apprendere a usare anche questo particolare tipo di "lente" per tessere nuove relazioni e accostare sè, l'altro e il mondo è un'operazione interessante non solo per il singolo, ma anche per il gruppo e per l'istituzione, ossia per l'organizzazione complessiva del sistema.

 

4. Corpo al plurale come soggetto collettivo

La relazione terapeutica ha una funzione molto importante in quanto consente di accostare con occhi nuovi situazioni talmente stereotipate che risultano difficili da vedere e da riconoscere nella loro struttura emotiva e relazionale. Quando questo particolare tipo di relazione si attiva, essa consente di rivisitare una molteplicità di dimensioni del vivere quotidiano attraverso il riconoscimento e l'utilizzo di nuove gamme di sentimenti. È quindi rivalutando un particolare "sentire", dando un valore alla possibilità di provare emozioni anche sconcertanti nell'ascolto di sè mentre si è relazione con se stessi, con l'altro e con il mondo, che il corpo, o meglio il livello della corporeità, esprime tutto il suo potenziale.

Lo psicoterapeuta di matrice psicoanalitica, lavorando controtransferalmente sulle sue emozioni e usando quindi se stesso come principale strumento di conoscenza, tende a innescare relazioni trasformative. Di fatto, così facendo, si pone come "modello" implicito, come un vitale punto di riferimento, interagendo col quale il paziente può accedere alle parti più sofferenti di sè, trasformarle e persino usarle come risorsa che lo rendono unico e irripetibile nel riattivare un suo generativo stile di relazione con il mondo.

Molto quindi dipende dal modello implicito, dall'epistemologia che ispira lo psicoterapeuta nel suo fare quotidiano. Qui basta rilevare che, al variare della prospettiva, spostando il piano di osservazione dal singolo "elemento" alla "classe degli elementi" e viceversa, e ascoltandone i messaggi, i vissuti emotivi assumono nuove forme e incidono sul livello della "corporeità" (E. Ronchi, 1998a).

La somma delle partecipazioni di ogni soggetto a ognuno dei suoi gruppi di appartenenza costituisce l'identità di un soggetto ci ricorda J. Puget; questa è una definizione importante anche se poco diffusa. Anche per questa via l'identità del soggetto sembra svilupparsi ben oltre i confini della sua pelle; la questione del benessere non può pertanto essere efficacemente affrontata limitando l'attenzione al corpo, inteso in senso fisico, solo perché risulta più facilmente "visibile". In questo modo esso verrebbe privato di gran parte della sua ricchezza e complessità.

Così come non si può non comunicare, allo stesso modo non si può non interagire con contesti più ampi solo per il fatto che non li si conosce o che non si dispone di un modello/strumento di lavoro in grado di accogliere anche questo livello di complessità. Va da sè che, di fatto, possiamo analizzare l'ambiente e inter-agire con esso solo a partire dalla nostra capacità di osservazione e che possiamo fare solo osservazioni compatibili con la serie di strumenti cognitivi ed emotivi che in un certo momento ciascuno possiede. Con strumenti affettivi e cognitivi più sensibili si può cominciare a porgere ascolto anche al corpo istituzionale.

 

5. Il corpo istituzionale

Nello svolgimento della professione psicoterapeutica è possibile apprendere a variare il posizionamento dell'ascolto clinico lungo un ipotetico cursore in grado di muovere tra individuo, gruppo e istituzione (E. Ronchi, 1997b) Ne consegue che la terapia può essere organizzata non solo a partire dal punto di vista dell'individuo o del gruppo, ma anche assumendo il punto di vista di una istituzione considerata in termini di soggetto collettivo.

Uno stereotipo diffuso è quello di vedere il mal-essere in capo al singolo. Da qui il fiorire di terapie che assumono come modello implicito forte lo "star bene" di singoli individui, dando per scontato che se tanti singoli stanno individualmente bene, automaticamente quello stato di benessere si trasferirà anche nei gruppi, nelle istituzioni e nel sociale. Questa è un'ipotesi non vera. Tutto dipende infatti da cosa vuol dire "star bene" per il singolo e quanto questo star bene è in grado di interagire adeguatamente nella costruzione di una consapevolezza circa le molteplici appartenenze gruppali e istituzionali.

La ricerca psicosocioanalitica ha rilevato quanro sia frequente che il disagio dei singoli, fino a che non riesce a trovare senso, tenda ad essere negato nella sua parte che metterebbe in discussione le capacità dei soggetti e proiettato indifferentemente sui colleghi, sul capo, sugli utenti o genericamente sull'istituzione o più in là ancora, su sistemi più ampi. Il disagio viene, per questa via, allontanato da sè e depositato nei contesti, oltre i confini della pelle.

In questo modo il soggetto ne esce "sano" e tutta la "malattia" rischia di essere messa ad esempio sul conto dell'istituzione che in questo modo progressivamente diventa invivibile. Dovendo allora destinare crescenti risorse emotive a lenire un disagio, che al contrario tende a crescere, l'istituzione perde progressivamente di vista il suo compito primario, aggravando così il suo stato di crisi e alimentando un circolo vizioso che la porterà al fallimento culturale, preludio di quello economico e sociale.

Un'istituzione, in questa fase del suo processo di sviluppo, mentre da un lato è alle prese con uno stato di mal-essere crescente o addirittura cronico, avrebbe grande bisogno di un "terapeuta" in grado di porre attenzione anche ai segnali che il suo "corpo" esprime attraverso emozioni istituzionali. Perché non poter immaginare che anche un soggetto collettivo in stato di crisi possa esprimere - sia pure a modo suo - una domanda di tipo terapeutico?

In "Gruppo operativo, emozioni istituzionali e cambiamento" riferisco del caso di un intervento in ambito pubblico in cui il disagio organizzativo è stato trattato con un approccio clinico di tipo psicosocioanalitico (E. Ronchi, 1997a).

In attesa che questo tipo di domanda possa trovare maggiore attenzione e ascolto e che la possibilità di un intervento istituzionale con approccio clinico possa diffondersi, molto già si può fare, pur restando all'interno della stanza d'analisi. L'istituzione infatti fa sentire la sua voce attraverso i soggetti che interagiscono con essa per cui, quando la domanda terapeutica proveniente da un singolo soggetto esprime disagi di tipo gruppale o istituzionale, è come se anche parte del corpo istituzionale fosse presente nella stanza d'analisi.

Quando la relazione terapeutica non è in grado di "sentire" anche questo tipo di sofferenza istituzionale e di "trattarla", attraverso il paziente, con strumenti in grado di favorire apprendimenti anche sul livello dei contesti, il rischio è che, in nome del benessere del singolo, il disagio espresso dal corpo istituzionale non venga considerato di pertinenza della psicoterapia e, come già detto, negato e dislocato sul conto dell'istituzione.

Nella prospettiva di questa riflessione è come se, in un certo momento, l'istituzione avesse la fortuna di avere un suo "sensore" in "trattamento" psicoterapeutico e lo psicoterapeuta implicitamente passasse questo messaggio: sono un esperto nel trattare tutte le emozioni e i disagi che tu porti nella stanza d'analisi ma non di quelli che riguardano i contesti.

Questa difesa - si tratta di una negazione - è particolarmente insidiosa e il terapeuta, se ha "incorporato" un modello professionale che tende a vedere il mondo solo al singolare, rischia di colludere con uno stato di cose che di fatto tende sì a "guarire" il singolo, ma "ammalando" progressivamente l'istituzione. Il corpo istituzionale sarà sempre più solo e abbandonato a se stesso.

 

6. Oltre il corpo istituzionale: l'ipotesi "Gaia"

Sul fatto che l'organizzazione a vari livelli abbia un comportamento "mentale" qualcosa già si è detto. Su queste premesse, a livello più ampio, è stata formulata l'ipotesi "Gaia" di J. Lovelock: l'ipotesi è che il pianeta Terra, nella sua interezza, sia un sistema vivente, auto-organizzantesi, una specie di "grande animale". La prova scientificamente accettata di questo stato di cose che rivoluziona l'epistemologia e la ricerca si è avuta in anni recenti. Ci ricorda F. Capra, 1997:

L'audace ipotesi di Lovelock ha le sue origini negli esor-di del programma spaziale della NASA. Benché l'idea della Terra come entità viva sia molto antica e benché nel corso dei secoli fossero state formulate molte teorie speculative sul pianeta come sistema vivente, furono i voli spaziali dei primi anni sessanta a dare per la prima volta la possibilità all'uomo di osservare davvero il nostro pianeta dallo spazio e di percepirlo nella sua interezza.

Questa visione della Terra in tutto il suo splendore - un globo azzurro e bianco sospeso nelle tenebre dello spazio - commosse profondamente gli astronauti e, come molti di loro hanno dichiarato, fu un'esperienza spirituale intensa che cambiò per sempre il loro rapporto con la Terra.

Lovelock si rese conto che quest'ipotesi equivaleva a una frattura radicale con la scienza convenzionale e in effetti l'establishment scientifico reagì in modo pesante a questa nuova visione della vita, tanto che riviste come Science e Nature respinsero la pubblicazione dei suoi articoli. Gli scienziati - ricorda Capra - espressero per molti anni il loro rifiuto sostenendo che l'ipotesi non era scientifica perché era di tipo teleologico, ossia sottintendeva che i processi naturali fossero diretti da un'intenzione.

Lovelock e colleghi produssero allora un sofisticato modello matematico di simulazione al computer che dimostrava inequivocabilmente la tesi da essi sostenuta. Solo più tardi si comprese che c'è una stretta concatenazione tra le parti viventi del pianeta - piante, microrganismi, animali e uomini - e le sue parti non viventi - rocce, oceani e atmosfera e che, grazie a processi di auto-organizzazione e di retroazioni tra sistemi lontani dall'equilibrio, l'intero sistema assume caratteristiche viventi. Ricorda Lovelock:

Bisogna intendere la teoria di Gaia come un'alternativa al sapere convenzionale che considera la Terra un pianeta morto fatto di rocce, oceani e atmosfera inanimati, e semplicemente abitato dalla vita. Bisogna considerare la Terra come un vero e proprio sistema, che comprende tutta quanta la vita e tutto quanto il suo ambiente strettamente accoppiati, così da formare un'entità che si autoregola.

L. Margulis, citato anch'esso da Capra, aggiunge:

Quando gli scienziati dicono che la vita si adatta a un ambiente essenzialmente passivo, fatto di chimica, fisica e rocce, perpetuano una visione gravemente distorta del mondo. In realtà la vita realizza e forma e modifica l'ambiente a cui si adatta. Allora quell'ambiente agisce a sua volta sulla vita che sta cambiando e agendo e crescendo in esso. Ci sono dunque delle interazioni cicliche costanti.

È da notare che il team che si è formato attorno a Gaia studia da un punto di vista sistemico riunendo competenze che provengono da una pluralità di diverse discipline attorno alle quali i rispettivi esperti non erano abituati a scambiarsi informazioni. Lovelock e Margulis, conducendo in questo modo la loro ricerca, hanno quindi indirettamente vinto un'altra scommessa: quella di sfidare la "visione" convenzionale che si esprime attraverso una rigida separazione tra discipline apparentemente distanti, dimostrando che tutte possono utilmente interagire.

Ciascun punto di vista diviene consapevole di costituire un visione "locale" del problema e può apprendere a scambiarla ottenendo non una somma giustapposta di visioni locali che pretendono di spiegare il tutto ma l'esito di un lavoro gruppale di qualità nuova e vitale. Di nuovo è possibile vedere in atto il potenziale di un gruppo capace di lavoro, pur essendo alle prese con emozioni istituzionali sconcertanti.

Forse è maturo il tempo per favorire un incontro affettivo prima che cognitivo tra "corpi" teorici attualmente frammentati che non riescono a percepirsi come parte di una più ampia "corporeità" sistemica, ipotesi questa che, al momento, sembra relegata ai confini del reale.

La domanda iniziale: "cosa potrebbe concretamente accadere se il termine "corpo" potesse essere inteso come un qualcosa di vitale anche ben oltre i confini della pelle?" mi auguro possa continuare a stimolare il pensiero creativo di tutti, aprire ad una percezione di sè meno angusta e soprattutto offrire e rilanciare in chiave più ottimistica la possibilità di muovere verso nuove forme di processualità capaci di innescare un circolo virtuoso per lo sviluppo del benessere dei singoli, dei gruppi e delle istituzioni e, attraverso di esse, anche dell'intero eco-sistema.

 

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