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PSYCHOMEDIA
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Etnopsicologia e
Psichiatria Transculturale



Dal walk - about alla fuga patologica

di Nicola Lalli



La storia della psichiatria e le osservazioni compiute nell'ambito dell'antropologia culturale dimostrano chiaramente che il "disagio psichico" da sempre può esprimersi con modalità diverse nel tempo e nello spazio, costituendo ciò che Hacking definisce "malattia mentale transitoria". Con questa denominazione l'autore connota quei disturbi psicopatologici che compaiono in un dato momento e in un dato luogo, per poi scomparire.
Tra questi, l'autore cita: l'affaticamento cronico, la personalità multipla, la sindrome premestruale, l'anoressia, le fughe dissociative, il disturbo di iperattività e di attenzione del bambino. E da filosofo (logico) si domanda se è corretto porsi l'interrogativo circa "realtà" o meno di queste sindromi.
La differenza tra realtà e verità, soprattutto in campo psicopatologico, è complessa e rimando per ulteriori approfondimenti al capitolo VIII (paragrafi-2-3-4) del mio Manuale di Psichiatria e Psicoterapia. In questo contesto mi soffermerò solamente su una riflessione. Se queste entità non sono "reali", proprio per la loro tendenza a scomparire, e quindi non sono entità nosograficamente "naturali", potremmo ipotizzare che si tratti di costruzioni sociali. Ma l'autore giustamente rifiuta quest'ipotesi, che farebbe connotare tali disturbi come "puri artifizi".
Ovviamente non bisogna confondere questo problema, riguardante la natura e l'entità (realtà) del disturbo, con il fatto che, una volta che la sindrome sia stata definita e accettata dal mondo scientifico, accada il singolare fenomeno che di colpo molti clinici siano portati a diagnosticarla, creando così un effetto "valanga". Fenomeno che nulla a che fare con la reale entità della sindrome, ma che può essere letto in termini di psicologia sociale o sociologia della conoscenza; esso potrebbe, infatti, essere ascritto al ben noto fenomeno della "dissonanza cognitiva".
Tuttavia, trattandosi di disturbi diagnosticati da psichiatri e psicologi, ci si attenderebbe una minore incidenza di fattori emotivi e quindi la presenza di una maggiore razionalità e obiettività. Ma dall'analisi dei fatti questa non sembra affatto essere la regola.
Senza entrare in una polemica complessa, vorrei invece sviluppare una tematica che mi sembra molto più attinente al nostro contesto: in che modo i fattori culturali e sociali possono generare o semplicemente dare forma a manifestazioni psicopatologiche? Ma soprattutto quale ruolo hanno e che interdipendenza esiste tra cultura e manifestazioni psicopatologiche? E' un ruolo puramente patoplastico, oppure le strutture culturali e sociali non si limitano a plasmare, ma determinano le sindromi psicopatologiche?
E' evidente, a questo punto, che è necessario introdurre il problema della conoscenza in generale e della classificazione dei disturbi psicopatologici, quindi di come sia fondamentale la funzione dell'osservatore e degli strumenti che questi adotta.
Se proviamo a scorrere la "bibbia" dello psichiatra - cioè il DSM IV - potremmo aggiungere, a quelli elencati da Hacking, una lunga lista di disturbi che mal nasconde l'impotenza conoscitiva, dietro un'apparente onnipotenza tassonomica da entomologi. Situazione non nuova nella psichiatria, e che ci richiama alla mente quanto accadde, all'inizio del secolo, nei confronti delle fobie: improvvisamente ci fu un pullulare di sintomi sempre più strani e diversi, ai quali venivano dati nomi altrettanto strani e diversi. Divenne ben presto un esercizio perverso, ove il saccheggio di radici della lingua greca fece sì che molti autori si ritenessero scopritori di nuove entità patologiche. Stanley Hall ne numerò ben 132, tanto che S: Freud giustamente ed ironicamente commentò "[É] sembrerebbe l'enumerazione delle dieci piaghe di Egitto, se non fosse che il loro numero è di gran lunga superiore". Se invece riduciamo le fobie esclusivamente a tre categorie - la claustrofobia, l'agorafobia e le fobie relative al proprio corpo - riusciamo senz'altro ad avere un idea più completa di questa sintomatologia. Questa suddivisione, infatti, non solo evidenzia il conflitto di base della fobia (la lotta tra il bisogno di una soffocante dipendenza e il desiderio di una impossibile autonomia), ma ci indica anche che il fallimento del meccanismo classico di difesa (l'evitamento), non attuabile nelle fobie relative al proprio corpo, è segno di una maggiore gravità di queste manifestazioni, che tendono spesso a scivolare verso l'ipocondria o l'ossessione.
"Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem". Questa celebre frase di Guglielmo D'Occam mi sembra ancora attuale, e potrebbe essere un'utile indicazione per la ricerca in psicopatologia, in quanto sottolinea la necessità di ricercare le basi strutturali e dinamiche del disturbo psichico, anziché frantumarlo, dando rilievo a modesti e insignificanti segni comportamentali, fino a rendere irriconoscibile la natura e la dinamica del disturbo stesso. Ma ciò implica che si disponga di una teoria solida e verificabile dello sviluppo psichico, che sia in grado di comprendere e spiegare sia la sanità mentale che la psicopatologia.
Detto questo, credo che la mia proposizione iniziale abbia bisogno di una chiarificazione e di un approfondimento. La chiarificazione riguarda la dizione "disagio psichico": per disagio psichico intendo quel campo molto ampio che sul piano nosografico si estende dalle reazioni alle psiconevrosi, mentre sul piano psicodinamico è ascrivibile ad una situazione di conflitto. Quindi escludo dalla dizione "disagio psichico" tutte quelle manifestazioni molto più gravi che nosograficamente vanno dalla psicosi maniaco - depressiva alle schizofrenie, e che sul piano psicodinamico sono ascrivibili non a un conflitto, ma a un difetto strutturale del carattere.
Questa differenza è evidente non solo sulla base di considerazioni psicodinamiche e di osservazioni cliniche, ma anche per il fatto che i disturbi gravi mostrano variazioni molto scarse, se non addirittura insignificanti, nel tempo e nello spazio. Spesso tale circostanza è stata spiegata banalmente con il fatto che queste patologie, proprio per la loro universalità, sarebbero di natura biologica, mentre è molto più ovvio che il motivo è ben diverso: le cause di questi gravi disturbi, infatti, sono dovute a situazioni ambientali sfavorevoli che agiscono in fasi molto precoci dello sviluppo, quando i processi evolutivi sono meno differenziati e quindi più universali.
Comunque sia, il rapporto tra cultura e psicopatologia rimane un problema aperto, tale da spingerci a un approfondimento di tipo analitico, anziché tentare generiche quanto infruttuose sintesi. Lavoro di analisi vuol dire approfondire problematiche ben precise e delineate, cercando di fornirne la spiegazione più plausibile ed esauriente.
In questo senso, a partire dalla lettura di un recente libro di Hacking - "Mad travelers: reflections on the reality of transient mental illness" (molto più carico di significati della semplicistica traduzione italiana "I viaggiatori folli") - mi sembra utile fare alcune considerazioni e trarre alcune conclusioni.
La domanda che si pone Hacking, che tra l'altro è autore di un libro sulla Personalità Multipla ("La riscoperta dell'anima"), è estremamente interessante: " [É] La Personalità Multipla, adesso detta dissociazione, è un'entità psichiatrica ed un disturbo vero e proprio, oppure si tratta di una soluzione di comodo per esprime un disagio effettivo e profondo, coltivata dagli specialisti e dai media, ma totalmente privo di valore medico?".
Per dare una risposta a questa domanda, l'autore ci ripropone un fenomeno di estremo interesse: la nascita di una nuova sindrome psichiatrica, la fuga isterica, alla fine dell'Ottocento.
Nel 1887 Philipp Tissié, psichiatra a Bordeaux, pubblica la sua tesi di laurea, intitolata "Les aliénés voyageurs", ove descrive minuziosamente il caso di Albert Dadas.
Questo paziente, dall'età di circa venti anni, abbandona senza alcun motivo (almeno evidente) il posto di lavoro e la famiglia e fugge via. Viaggia per tutta l'Europa e, dopo qualche settimana o mese, viene fermato dalla polizia. Il soggetto non ha documenti di riconoscimento, nulla ricorda del motivo del suo viaggio e di cosa abbia fatto in questo periodo. Viene rispedito in Francia e poi ricoverato in ospedale psichiatrico, dove Tissié lo conosce, lo studia e cerca di ricostruirne la storia attraverso l'ipnosi. In stato di ipnosi, infatti, il paziente spesso ricorda anche in maniera molto precisa quanto è avvenuto durante la fuga. Ma dopo un po' di tempo il paziente, dimesso dall'ospedale, si rimette in viaggio. E il copione rimane pressoché immutato per molti anni.
Dopo questa accurata descrizione, in Francia cominciano immediatamente a pullulare casi clinici analoghi. Tutti sono d'accordo sulla "realtà" di questa patologia, mentre il disaccordo è solo sull'eziologia: isteria o epilessia? Il grande clinico Charcot, che oltre a essere dotato di grande intuito clinico è anche dotato di un notevole spirito pratico, propone una diagnosi differenziale ex-adiuvantibus: se il paziente migliora con il bromuro di potassio è epilettico; se con l'ipnosi (o se è comunque ipnotizzabile) è isterico.
La sindrome si estende rapidamente in Francia, viene esportata in Germania e in Italia, vengono coniati anche nuovi termini che sembrano dare maggiore dignità a tale sindrome: come dromomania, o automatismo ambulatorio. Questa "epidemia" dura per alcuni decenni e tende poi ad estinguersi intorno al 1910.
Fatto singolare è che questo quadro clinico non varcherà mai l'Atlantico: è una sindrome che non attecchirà nei paesi anglossassoni, per lo meno in questa forma. Eppure negli Stati Uniti il fenomeno della fuga patologica viene attentamente considerato, e viene anche coniato un termine specifico: drapetomania. La drapetomania riguarda, però, solo gli schiavi di razza nera che tendono a fuggire ripetutamente dalle piantagioni. E' quindi evidente che questa diagnosi serve solo a negare i motivi seri e drammatici che portano questi poveri schiavi a tentare ripetutamente inutili fughe da situazioni di estrema violenza.
Bisogna inoltre tenere presente che gli psichiatri americani conoscevano molto bene la Psichiatria europea in genere, e quella francese in particolare. Quindi non si può ritenere che la sindrome "scoperta" dal Tissié fosse loro sconosciuta, né si può ritenere che non ci fossero casi molto simili a quelli del paziente di Tissié. Evidentemente, però, la struttura culturale americana non dava importanza alle fughe reiterate tanto che, quando queste accadevano, l'elemento psicopatologico che veniva evidenziato era soprattutto il cambiamento d'identità, e pertanto la sindrome veniva già allora definita "Personalità Multipla".
Questa singolarità viene spiegata dall'autore in base a numerosi fattori. Di questi, due mi sembrano particolarmente rilevanti. Il primo è senz'altro di tipo culturale. Il viaggio, l'esplorazione, era un elemento molto valorizzato negli Stati Uniti, ed il Far West ne era la rappresentazione più affascinante. Per cui, per un cittadino inglese o americano, allontanarsi e far perdere le proprie tracce era fenomeno non solo frequente, ma ritenuto normale. Nella cultura europea, invece, e in quella francese in particolare, la fuga si identificava come vagabondaggio, e il vagabondaggio era segno di degenerazione e di tendenze criminali.
Il secondo fattore è di tipo sociale e organizzativo. In Francia, come anche in Italia e in Germania, esisteva la leva obbligatoria e tutti gli uomini dovevano portare con sé un libretto di riconoscimento in cui, oltre alle generalità, era registrato anche l'eventuale espletamento degli obblighi di leva. Perciò qualsiasi uomo adulto trovato senza il documento di riconoscimento, che non fosse in grado di fornire notizie adeguate sul perché si trovasse in giro, veniva immediatamente condotto al primo posto di polizia, ove si cercava di identificarlo. Molti di questi uomini, se accusavano amnesie o comunque non riuscivano a dare congrue spiegazioni, venivano inviati in ospedale psichiatrico. Non è dunque un caso che il novanta per cento delle fughe patologiche descritte dagli autori francesi appartenesse al sesso maschile.
Pertanto in Francia, come in altri paese europei, esisteva un rigido controllo poliziesco che evidenziava molto facilmente i soggetti che abbandonavano la loro dimora abituale e che non potevano fornire indicazioni sulla loro provenienza e la loro identità. Questo non può essere considerato un fattore determinante, ma semplicemente sufficiente per evidenziare il fenomeno stesso.
La fuga, o per meglio dire il desiderio di cambiare, viaggiare, uscire dal chiuso dell'ambiente familiare o cittadino, è un'esigenza dell'uomo. Ulisse può essere considerato l'antesignano di questa dimensione umana. Certo egli poteva giustificare il suo lungo peregrinare - spesso, peraltro, allietato da situazioni molto piacevoli - con l'ira di Nettuno.
Ma se dall'antica Grecia passiamo a considerare altri contesti culturali incontriamo un fenomeno molto singolare presso le tribù Aborigene dell'Australia: il Walk - About, che letteralmente significa "andare via", "andare in giro". Questo termine, coniato sulla base di osservazioni antropologiche, è molto conosciuto negli Stati Uniti ed è entrato nel gergo letterario e cinematografico.
"[É] Un uomo, un giorno qualsiasi può raccogliere i suoi pochi strumenti di sopravvivenza e É andare. Si incammina verso gli spazi sconfinati che circondano tutt'intorno il suo villaggio, sicuro della sua conoscenza e capacità di procurarsi mezzi di sostentamento, e sicuro di possedere una sua forza personale, del tutto indipendente da illusioni di essere protetto da enti benevoli esterni o da prospettive di entrare in contatto con divinità. [É] All'Aborigeno è concesso di non dare alcuna motivazione al suo andare, né alcuno mai domanderà quando il suo ritorno. Tutti i legami strettissimi che lo legano alla tribù da cui di fatto dipende come identità tribale inscindibile da quella personale, vengono sciolti sulla scorta di una esigenza personale. A volte l'Aborigeno motiva l'andare con "mi chiamano" e parte alla volta di altre comunità dove sono presenti dei consanguinei che necessitano della sua presenza, altre volte nemmeno una parola. A volte l'andare corrisponde ad un concentrarsi sul mondo delle intenzioni; un andare per attivare le sue intenzioni, per "cantare" la donna amata o raccogliere il suo Dreamtime [É]" (G. Bartocci).
Cosa possiamo derivare dalla comparazione di queste due situazioni: la fuga patologica ed il walk- about? Ma, prima di tutto, sono queste due entità comparabili?
Certamente si potrà obbiettare che le due situazioni sono diverse: nel Walk-about il soggetto è pienamente consapevole, nella fuga dissociativa invece c'è amnesia, a volte perdita della identità, e l'andare sembra afinalistico.
Ma le differenze risulteranno notevolmente minori se pensiamo che i soggetti delle fughe patologiche, se sottoposti a ipnosi, non solo recuperano i ricordi del loro viaggio, ma a volte anche le motivazioni. Possiamo, allora, affermare che forse le differenze non sono eccessive, mentre sicuramente la diversità risiede nel vissuto del soggetto che si allontana e nel giudizio sociale rispetto a questo comportamento.
Sicuramente nella cultura aborigena si evidenzia un grande rispetto che ogni uomo nutre per il suo mondo interno, per il suo Dreamtime, ma anche il profondo rispetto che gli altri individui appartenenti alla tribù hanno per le esigenze del singolo, anche se non espresse e verbalizzate. "[É] Qui le intenzioni umane, anche se lasciate libere di fluire, non rappresentano necessariamente un pericolo per sé o per la comunità" (G. Bartocci).
Possiamo allora ipotizzare che in una cultura che non approva, ma che anzi vive come patologica, l'espressione di questo comportamento, se il soggetto non riesce né a prendersene la responsabilità né a reprimerne l'impulso, egli possa porre in atto un meccanismo dissociativo.
Quindi la dissociazione (fenomeno ben diverso dalla scissione, con la quale spesso viene confuso) non è necessariamente dovuta a un trauma psichico più o meno pregresso e più o meno ripetuto. La dinamica dissociativa, invece, può emergere anche quando il soggetto si trova in una situazione fortemente conflittuale - sia in termini intrapsichici che interpersonali (e su questi ultimi la cultura può influire notevolmente) - che non ha alcuna possibilità di risolvere.
Lo stesso meccanismo sembra attuarsi nella cossiddetta "Personalità Multipla", oggi più correttamente definita come disturbo dissociativo di personalità. Non è un caso, quindi, che queste due sindromi (la Fuga Dissociativa e il Disturbo Dissociativo di Personalità) si siano alternate e sovrapposte nel tempo.
Ma evidentemente per creare una nuova sindrome psicopatologica non basta una particolare emergenza psicopatologica: in tal caso, infatti, questa rimarrebbe un evento singolo, anche se più volte ripetuto, ma che non riuscirebbe a fare storia. E' quindi necessario che si associno altri due fattori.
Il primo è legato ad un sistema sociale che non solo rende visibile un determinato comportamento (come ad esempio il documento d'identità obbligatorio in Francia) ma che giudichi quel comportamento come un disvalore (fuga = vagabondaggio = criminalità).
Il secondo è legato all'intervento dello psichiatra, che si preoccupa di dare un nome e una spiegazione a un fenomeno che può, nella connotazione di patologicità, fornire un utile secondario (pensiamo, ad esempio, all'abuso della diagnosi della Personalità Multipla per ottenere sconti di pena anche in presenza di reati gravi). è evidente che in questo caso si crea una nuova sindrome clinica di cui è piuttosto ozioso domandarsi se sia una entità reale o meno.
E giustamente questa è la considerazione di Hacking, che è un filosofo.
Ma forse noi dobbiamo darci una risposta in più. Se non è una malattia reale, cos'è allora: una semplice costruzione sociale? Non esattamente, anche perché dire che è una costruzione sociale significherebbe negare tutta la dinamica intrapsichica del soggetto.
In effetti si tratta di un complesso fenomeno di interazione tra l'individuo, con i suoi bisogni e i suoi desideri, e la possibilità di poterli esprimere in quel determinato contesto sociale e culturale. Pertanto ci dobbiamo interrogare non tanto sulla realtà o meno della sindrome, ma sul come e sul perché avvenga quel determinato evento psicopatologico. Ed è una domanda la cui risposta è per noi psichiatri fondamentale, perché è quella che sicuramente ci apre alla comprensione, ma anche alla possibilità di un intervento che possa essere terapeutico individuale o che invece debba ricoprire un più ampio compito: quello di denunciare e/o modificare le norme culturali di base.


Bibliografia
Bartocci G. : "Elementi di valore terapeutico nelle psicoterapie transculturali" - In: "Il processo terapeutico in psicoterapia, a cura di Lalli N., Cavaggioni G., Fiori Nastro P. - Edizioni Universitarie Romane, Roma 1994.
Hacking J. : "I viaggiatori folli" - Marozzi Editore, Roma 2000
Lalli N. : "Manuale di Psichiatria e Psicoterapia" (con particolare riferimento al cap.VIII) - Liguori Editore, Napoli 1999


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