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Suoni e silenzio nell’immersione subacquea

Emanuela Zerbinatti




Premessa
Cercare di stabilire un’unica motivazione per ciascuna persona che decida di dedicarsi all’attività subacquea ricreativa è un’impresa quanto mai ardua. Nella migliore delle ipotesi si possono identificare diversi motivi tra i quali alcuni sembrano ricorrere più di altri come ad esempio quel particolare bisogno di silenzio che accomuna molti sub. Questo desiderio è talmente accentuato che i vari strumenti progettati appositamente per consentire la comunicazione sott’acqua non si diffondono nella pratica ricreativa, nonostante siano dei veri gioielli tecnologici che avrebbero tutte le caratteristiche per andare ad ampliare la collezione di “giocattoli” di cui i sub vanno particolarmente fieri (Capodieci S, 2006). Un piccolo sondaggio inedito realizzato al riguardo da Salvatore Capodieci tra i partecipanti ad una mailing-list di sommozzatori, ha rivelato pur con i limiti di dimensione e selezione del campione che in sostanza questi strumenti non piacciono perché “almeno sottacqua ci si vuole godere il silenzio”.
Nulla di strano in tutto questo. Nelle moderne civiltà occidentali dove ai rumori del traffico e delle attività industriali si è aggiunta l’invadenza della cultura della comunicazione a tutti i costi, in cui suoni e immagini ci vengono propinati a tutte le ore del giorno e della notte, sono sempre di più le persone che fuggono verso i grandi silenzi mistici, estatici o emotivi promessi dai luoghi più isolati del mondo, siano essi religiosi o ricreativi. A stupire della scelta dei sub semmai è il fatto che il mare e gli oceani siano tutto fuorché silenziosi. L’acqua è un conduttore di suoni talmente efficace che ogni più piccolo rumore, dal proprio respiro ai suoni prodotti dal mare e dai suoi abitanti, viene amplificato e diventa percettibile. La domanda da porsi quindi non è tanto perché i sommozzatori cercano il silenzio nelle profondità delle acque, ma quale silenzio vanno cercando? Per cercare di rispondere a questa domanda la questione dovrebbe, a mio parere, spostarsi da un piano puramente quantitativo e neurofisiologico ad uno qualitativo ed emotivo ed è quello che proverò a fare.

Il bisogno di silenzio
Il rumore ormai è una costante del vivere quotidiano che riguarda tanto le città quanto i luoghi più isolati un tempo ritenuti vero regno di tranquillità. Questa progressiva “rumorizzazione degli spazi vitali”, dovuta all’espandersi degli impianti industriali e delle grandi vie di comunicazione e trasporto, rischia di nuocere davvero alla salute. E non si tratta solo del più ovvio pericolo di danni all’udito, ma anche di rischi indiretti correlati al fatto che il rumore viene interpretato dal cervello come un segnale d’allarme che, attraverso il sistema neurovegetativo e la produzione degli ormoni dello stress, scatena reazioni generalizzate in tutto l’organismo con ripercussioni sui sistemi cardiovascolare, immunitario, endocrino e nervoso. Il problema è ben noto all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) che ormai tra i suoi piani di intervento prevede sempre la lotta al cosiddetto “inquinamento acustico” in difesa del diritto alla salute e alla tranquillità nel senso più ampio di un benessere globale fisico, psichico e sociale.
Il rumore però non è l’unico nemico del silenzio. Nella moderna società della comunicazione di massa l’inquinamento acustico è dato anche da un eccesso di suoni e parole che altrimenti, prese a piccole dosi, sarebbero utili e piacevoli. Ad ogni modo, qualunque sia la fonte dell’inquinamento acustico che ci affligge, spesso siamo davvero costretti a fuggire in cerca di una pausa di silenzio. Qualcuno allora spera nel conforto di una casa in campagna, altri si spingono su isole semideserte e altri ancora si danno alla vacanza spirituale nei monasteri, che proprio per il bisogno crescente di silenzio, si sono organizzati con aree adibite ad uso foresteria per turisti desiderosi di pace. In questo contesto, il desiderio di silenzio dei sommozzatori appare una necessità condivisibile che spinge però verso una scelta assolutamente personale. È l’insieme delle nostre caratteristiche psicologiche culturali e sociali che ci indica quale strada seguire per trovare tregua all’eccesso di stimoli acustici. Chi ama il mare è nel mare che cercherà silenzio, così come chi ama la montagna è la che andrà a cercarlo.

Il silenzio impossibile
Proposto così il silenzio viene ad assumere unicamente il significato di “assenza” di rumore, parole e suoni, ma è davvero così? Probabilmente no, perché il silenzio assoluto non esiste e chi desiderasse questo sarebbe condannato a rimanere insoddisfatto. Anche ipotizzando di trovarci in una stanza completamente insonorizzata, in qualche modo riusciremmo sempre a sentire qualcosa, fossero anche i rumori che noi stessi facciamo muovendoci. Senza volerlo finiremmo a concentrarci sul più piccolo e altrimenti impercettibile rumore e, nel caso estremo di una nostra immobilità assoluta, riusciremmo a sentire il rumore del nostro stesso respiro o il battito del cuore. E proprio come non possiamo far smettere il cuore di battere così non possiamo impedire al cervello di sentire. D’altra parte sembra una caratteristica intrinseca del cervello, per cui anche nei momenti di “silenzio” risulta in qualche modo impegnato ad attendere o a immaginare dei suoni. Vari studi hanno infatti dimostrato che quando ci aspettiamo di sentire un rumore o un suono si attivano le stesse aree cerebrali deputate all’elaborazione acustica. Per esempio, si è visto che, se ad alcuni volontari in “ascolto” del silenzio viene detto che entro breve sentiranno un suono provenire da una certa direzione, nel loro cervello si attiveranno ancora prima di sentirlo le aree della corteccia uditiva primaria sul lato opposto a quello indicato e altre aree della corteccia frontale ad esse associate. Diversi ricercatori hanno invece osservato che facendo ascoltare brani musicali noti interrotti da pause di silenzio, le aree della corteccia uditiva primaria e associativa si attivano anche nei momenti “vuoti” dando a chi ascolta una sensazione di continuità musicale, cosa che non avviene se i brani sono sconosciuti. Questi risultati sull’attività delle aree uditive rispecchiano quanto già osservato per le aree visive.

Suono e attenzione
“Un uomo mi disse che preferiva fare subacquea nei laghi alpini, piuttosto che nei mari tropicali
Trovava la vita marina in acqua calda troppo piena di distrazioni, troppo ricca di colori e cose da fare e da toccare.
Per lui, la gioia dell’immersione era avere l'opportunità di vedere dentro se stesso.
Al fine di esaminare il suo carattere aveva bisogno di trovarsi in acque fredde, scure e profonde
in cui l’immersione, il semplice respirare sott'acqua erano il fine in sé”.
(Ecott T, Assetto neutro, 2001)

D’altra parte simili fenomeni di riempimento e immaginazione uditiva fanno parte della vita quotidiana, come quando abbiamo un motivetto che gira per la testa o quando pensiamo di telefonare e già ci sembra di sentirne i toni e i suoni di attesa, ma questi studi possono dirci qualcosa sui meccanismi cerebrali che sottendono l’attenzione. Per esempio è stato osservato che nel disturbo da deficit di attenzione (ADHD) sono coinvolte le stesse aree cerebrali deputate all’ascolto, tanto è vero che una caratteristica di questi pazienti sembra essere proprio la fatica a distinguere nell’ambiente i suoni importanti da quelli inutili e non è infrequente che descrivano il loro mondo come “troppo rumoroso per potersi concentrare”. Le ricerche sulle modalità di percezione dei suoni, reali o immaginari, potrebbero perciò avere importanti risvolti clinici sia nella comprensione sia nel miglioramento dei programmi di trattamento di questi disturbi.
L’associazione tra suono e attenzione ci riporta però più direttamente anche al problema del silenzio in immersione. È noto infatti che sulla terraferma la maggior parte degli individui tende ad assegnare alla modalità visiva un ruolo dominante la quale spesso giunge ad assorbire l'attenzione distraendola da altri canali sensoriali. Si stima che nell’individuo normovedente circa l'80 per cento delle informazioni percettive elaborate, provengano dal canale visivo. Questa cosiddetta “dominanza visiva” avrebbe un valore filogeneticamente adattivo, in quanto la vista si è rivelata più efficace di altri sensi nel controllo dell'ambiente (Gargiulo ML, 2003). Ciò non significa che stimoli di altra natura non vengano considerati, ma solo che la loro elaborazione avviene in maniera meno consapevole, sebbene ugualmente pregnante da un punto di vista quali e quantitativo per l’esperienza complessiva.
Viceversa, le afferenze sensoriali uditive, tattili, cinestetiche, olfattive, termiche, propriocettive, e termo-igrometriche possono essere soggette a una elaborazione cosciente dell’informazione quando ci si trova in situazioni di deprivazione sensoriale visiva forzata o determinata da cause naturali (cecità, copertura sperimentale degli occhi, o condizioni di buio/oscurità). Gli studi condotti in condizione di deprivazione sensoriale visiva, usando per esempio una benda per coprire gli occhi, hanno consentito di valutare quanto i vissuti extravisivi siano quantitativamente e qualitativamente pregnanti, anche quando non sono consapevolmente elaborati (subcezione). Infatti, eliminando la componente sensoriale che monopolizza l’attenzione (la vista) si mette una persona in condizione di concentrarsi su ciò che percepisce attraverso altri canali e quindi di notare alcuni stimoli percettivi extravisivi che sebbene fossero già presenti nel suo campo fenomenico, venivano per così dire “offuscati” e coperti dalle percezioni visive.
Al di là delle condizioni sperimentali è comunque noto che se ci troviamo in un ambiente sconosciuto o, peggio, che non ci offre la possibilità di sfruttare i nostri canali sensoriali preferenziali, il nostro livello di arousal aumenta. Lo scopo è quello di permetterci di affrontare al meglio una situazione nuova, ma in alcuni casi può andare oltre l’intenzione e diventare disfunzionale. Giusto per rimanere nel campo delle deprivazione visiva, si è visto per esempio che l’oscurità può aumentare lo stress e alterare le risposte del sistema nervoso generando uno stato ansioso anche in soggetti adulti sani (Grillon et al., 2007). Volontari stimolati con suoni, rumori o immagini hanno dimostrato meno controllo delle loro reazioni in condizioni di buio rispetto a quanto non avvenisse alla luce, con una differenza che era evidenziabile nell’aumento significativo dello "startle reflex", il sobbalzo in risposta a stimoli uditivi o visivi. In questo studio è stato evidenziato che l'oscurità può essere ansiogena in particolare in condizioni che vengono definite di “stress sociale”, quali per esempio parlare in pubblico. Più in generale sembra però che queste reazioni si manifestino in situazioni in cui si sente messa in pericolo la propria incolumità fisica e psichica (camminare in un vicolo buio o trovarsi a vivere in un luogo percepito genericamente come poco sicuro). L’aspetto più interessante è che finora il potere dell’oscurità di scatenare reazioni ansiose in individui per altro sani non era mai stata dimostrata, mentre era ben noto che soggetti affetti da disturbi d'ansia hanno una minore soglia di sopportazione a stimoli esterni che aumentano le reazioni emotive incontrollate come i sobbalzi.
Le particolari condizioni ambientali in cui si viene a trovare chi va sott’acqua fanno si che tutta l’esperienza fenomenica e percettiva del sommozzatore sia profondamente diversa rispetto a quanto avviene all’asciutto. Senza addentrarci troppo in particolari già discussi da altri (Venza et al., 2006) basterà qui ricordare che per esempio la maggiore densità del mezzo liquido, se da un lato permette di provare quella piacevole sensazione di essere sospesi come in un volo, dall’altro impone che si acquisisca la capacità di muoversi più lentamente, sfruttando la resistenza dell’acqua quasi fosse un punto d’appoggio per progredire, piuttosto che un muro da abbattere. Per quanto riguarda la vista, sott’acqua gli occhi perdono la loro capacità di mettere a fuoco gli oggetti, motivo per cui serve la maschera subacquea che però, a causa della diffrazione dei raggi nel passaggio acqua-vetro porta comunque a vedere le immagini più vicine e più grandi (circa il 25%) di quello che sono in realtà. Inoltre, poiché l'acqua assorbe la luce che sulla terra ci consente di attribuire dei colori agli oggetti, la visione subacquea senza l'ausilio di una lampada risulta monocromatica e tendente al blu. Infine, anche la percezione acustica risulta profondamente alterata perché se da un lato l’acqua, in quanto incomprimibile, trasmette i suoni molto più efficacemente dell’aria, dall’altro va considerato che l’orecchio umano si è evoluto per adattarsi alla vita terrestre mentre in questo ambiente risulta profondamente svantaggiato. La velocità di trasmissione sonora per esempio è talmente alta da non consentire al cervello di distinguere lo sfasamento temporale tra l’arrivo dei suoni nell’orecchio destro e sinistro, per cui ci risulta difficile localizzarne la provenienza. Bisogna poi considerate che la pressione che l’acqua esercita sulle membrane timpaniche tendendole fa sì che il suono venga percepito più per conduzione ossea che per vibrazione di queste come avviene sulla terraferma.
Da un punto di vista strettamente fisico l’immersione ricreativa rappresenta quindi una grossa sfida per tutti gli apparati sensoriali del sommozzatore. Il bisogno di silenzio potrebbe perciò essere dovuto alla necessità di una maggiore concentrazione. Molte persone che soffrono di emeralopia, spesso notano la loro difficoltà proprio perché alla guida di un autoveicolo in condizioni di oscurità (nelle quali si evidenzia il loro deficit) diventano insofferenti alla presenza di passeggeri che parlano, contrariamente a quanto avviene di giorno quando la loro vista è pressoché normale.
Sempre a proposito di vista, udito e concentrazione si può fare un ulteriore ipotesi per spiegare perché i sommozzatori preferiscono il silenzio in immersione. È ben noto infatti che, a livello di conversazione, buona parte della nostra finezza uditiva deriva dalla possibilità o meno di avere di fronte chi ci sta parlando e in particolare di poterne vedere la bocca. In immersione, dove pure la discesa di coppia è la prima regola di sicurezza, la possibilità di trovarsi faccia a faccia col compagno è limitata a brevi momenti. Senza contare che anche ipotizzando un contatto facciale prolungato, proprio la bocca risulterebbe sempre coperta dagli strumenti per respirare. Ne deriva che ascoltare qualcuno sott’acqua può diventare frustrante e faticoso per il notevole quanto inutile sforzo di concentrazione richiesto, a prescindere dalla disponibilità di mezzi tecnologici di supporto.

Suono: percezione acustica o percezione di eventi?
L’analisi della percezione sonora così come l’abbiamo vista finora nella sua veste di fenomeno fisico associato ai processi cognitivi di riconoscimento e interpretazione, rientra nel campo di interesse della psicoacustica. Tuttavia, per quanto affascinante possa essere, non ci aiuta a comprendere appieno il valore che il silenzio assume nell’immersione e che a quanto pare contribuisce a farla diventare un’esperienza degna di essere rivissuta. Per farlo dovremmo verificare se è possibile andare oltre la concezione della percezione dei suoni come un mero fatto fisico, integrando eventualmente la componente immaginativa che vi si associa.
Come detto, nella nostra cultura la percezione sensoriale è centrata sulla “dominanza visiva”. Questa centralità rende di fatto semplicistica l’interpretazione della percezione attraverso canali sensoriali diversi. Nella vita di tutti i giorni noi non sentiamo semplici segnali acustici o onde sonore, sentiamo eventi: suoni di persone e cose che si muovono, iniziano, cambiano e si evolvono, dinamicamente inseriti nel momento attuale. La psicoacustica analizza come il nostro cervello elabora la percezione dal momento in cui un suono mette in vibrazione la membrana timpanica ricavandone informazioni sulla qualità e sulla direzione, ma non ci dice perché, quando ascoltiamo per esempio la musica, queste informazioni sonore si mischiano a pensieri, emozioni, commenti, tanto da farci perdere il senso di confine tra ciò che è fuori (lo stimolo acustico) e ciò che è dentro la nostra testa (la percezione musicale nel suo complesso). Detto in altri termini, noi non siamo semplici riceventi passivi di suoni. Oltre ai processi psicoacustici devono essere considerati anche i processi immaginativi che rendono l’esperienza uditiva assolutamente unica per ognuno di noi (Forrester MA, 2006).
Secondo Rodaway (1994) la “dominanza visiva” condiziona non solo il nostro modo di percepire il mondo, ma anche di descriverlo. Così quello che sperimentiamo attraverso altri canali sensoriali viene riproposto sotto forma di immagini visive. Questo avviene in particolare per la percezione sonora, ma tra percezione visiva e percezione sonora ci sono profonde differenze che rendono gli aspetti sonori del mondo se possibile ancora più coinvolgenti da un punto di vista emotivo di quelli visivi. Come fa notare Rodaway se la vista dipinge un’immagine del mondo, l’udito (come il tatto, il gusto e l’olfatto) sono la vita.
Prendiamo ad esempio la posizione del ricevente dello stimolo. Nella percezione visiva il ricevente ha sempre la sensazione di essere al limite del suo campo visivo e quindi il suo orizzonte percettivo corrisponde a quello che si trova di fronte e ai lati rispetto alla direzione in cui sta guardando. Nella percezione sonora, invece, il ricevente si trova sempre al centro dell’esperienza percettiva, tanto che risulta ugualmente se non più sensibile ai suoni che gli provengono da dietro rispetto a quelli che gli provengono dal davanti. Si può quindi dire che mentre la visione è un mondo oggettivo di cui noi non siamo parte ma osservatori, il suono è un mondo di eventi che ci pone come protagonisti diretti fin dalla vita intrauterina. Bisogna infatti ricordare che le prime informazioni sensoriali in questa fase dello sviluppo, così come nella primissima infanzia sono di natura sonora e solo in seguito visive. L’importanza dei primi suoni con cui il bambino viene in contatto per il precoce sviluppo affettivo è stato sottolineato da psicologi dello sviluppo e psicanalisti. Sabbadini (1998) per esempio ha ipotizzato che la precoce esposizione a modelli sonori abbia effetti profondi sullo sviluppo di una successiva psicopatologia. D’altra parte i più recenti studi di psicologia fetale hanno dimostrato non solo che il feto è in grado di ricevere informazioni sonore sia dal mondo esterno che da quello interno al grembo materno, ma anche di memorizzarle e ritenerle per un periodo di tempo limitato dopo la nascita. La funzione di queste “memorie sonore” sarebbe proprio quella di consentire al feto, una volta nato, di percepire il mondo come un po’ più familiare di quanto non sarebbe altrimenti, consentendogli per esempio di “riconoscere” la madre, i familiari o addirittura i modelli musicali e linguistici propri della sua cultura appena li incontra nella vita extrauterina.
Da un punto di vista sonoro il mondo del sommozzatore e quello del feto sono molto simili, se non altro perché, essendo entrambi immersi in un liquido, la trasmissione dei suoni avviene con le stesse modalità fisiche e quindi per conduzione ossea. Non ci sono molti studi riguardo alla capacità di questa particolare via trasmissiva di suscitare emozioni né tanto meno sulla possibilità di richiamare “memorie fetali” se posti nelle stesse condizioni, come appunto l’immersione, da adulti. Tuttavia curiosi esperimenti sulla possibilità di fare musica sott’acqua, condotti da Michael Redolfi, compositore e artista elettronico, cofondatore del Centro nazionale di creazione musicale di Nizza, qualche spunto di riflessione per ricerche future dovrebbero darlo. Questo artista con “Fluido e sonico” ha realizzato il primo concerto subacqueo della storia presentato nel 1981, in occasione del Festival della Rochell.
Da allora tutti i successivi lavori di Redolfi sono stati concepiti come un approfondimento della ricerca sulla sostanza acustica liquida e delle sue implicazioni estetiche e cognitive. Il suo progetto musicale mira ad esplorare allo stesso tempo le tecniche di diffusione del suono nel mezzo liquido e le caratteristiche dell'ascolto umano in immersione. A questo proposito Redolfi ritiene che sott’acqua, proprio per l’inefficacia quasi assoluta dell'apparato uditivo umano, sia possibile ricevere solo alcune delle componenti del segnale acustico, in particolare quelle captate dalla risonanza della scatola cranica che definiscono una conduzione ossea del suono, estremamente fisica e tale da generare un immaginario introspettivo e personale, per una sorta di completamento gestaltico della mente. Ai suoi concerti l'ascoltatore è immerso nel mezzo del liquido-acustico ed è costretto a orientarsi in uno spazio “familiare” e allo stesso tempo estraneo, indefinito e ostile. Si gioca tutto sul piano dell'infanzia e della memoria, richiamate per differenza attraverso l'unicità dell'esperienza, ma le prime fasi della vita sono rivissute in modo goffo e imbarazzato sul duplice piano corporeo e cognitivo, come se non fossero un ricordo, ma piuttosto un presagio o un'intuizione. Il tentativo di recuperare le memorie prenatali, non sono certo una novità per gli artisti, ma se altri sono ricorsi ad artefatti per ricreare l'organizzazione dei rapporti spazio-temporali del mentale in condizioni fisiche “estreme”, Redolfi ha scelto un richiamo per simulazione. Ciò che emerge dalle sue opere è piuttosto il mondo interno dell'ascoltatore, rispetto al quale l'ambiente circostante si configura come un enorme sistema di amplificazione della coscienza.
Nel caso dell’immersione ricreativa dove i suoni, per quanto ritmici e a loro modo piacevoli, non sono certo definibili “musicali” nel senso più letterale del termine, si riesce comunque a ipotizzare una funzione simile per la componente extravisiva dell’esperienza. Come già ribadito da colleghi più esperti in materia, nell’immersione subacquea (Gargiulo ML, 2003), similmente a quanto visto per i casi di deprivazione visiva, diventano più pregnanti anche le componenti extravisive della percezione pur restando importante la componente visiva. È anzi plausibile supporre che sia proprio questa particolare condizione di chi va sott’acqua, portando ad accentuare le altre percezioni, a determinare quella particolare valenza psicologica dell’immersione subacquea. Come ricorda infatti l’Autrice, “anche sott’acqua le percezioni extravisive concorrono a costituire gli aspetti “non razionali” dell’esperienza e del suo vissuto attuale, ma la valenza introspettiva dell’esperienza subacquea, deriva dal fatto che questa ultima è ricca di stimoli percettivi di tipo non visivo, che pur non essendo riconosciuti immediatamente dal sommozzatore, incidono profondamente su di lui, dandogli la possibilità di vivere in una dimensione psicologica particolarmente adatta per l’attuarsi di alcuni processi mentali. Questi sono facilitati perché la persona durante le immersioni vive esperienze alcune delle quali sono la amplificazione di qualcosa che si può trovare anche sulla terra, ma che nell’acqua è più accentuato, altre invece sono possibili soltanto nella dimensione subacquea concorrendo così alla creazione di un’opportunità davvero unica per l’estrinsecarsi di certi fenomeni”. A mio parere questa “opportunità davvero unica” potrebbe essere cercata proprio in quella conduzione ossea che sembra accentuare la sensazione di essere un tutt’uno mente e corpo.

Misticismo e apnea

Arrivati a questo punto rimane da fare un’ultima considerazione sulla gestione del silenzio. Nelle moderne società occidentali l’eccessiva “rumorizzazione” degli spazi vitali sembra non trovare una risposta efficace per il semplice fatto che alla consapevolezza crescente dei rischi per la salute dati dal rumore e dall’uso eccessivo della comunicazione acustica, si contrappone una paura tremenda di farne a meno. Come abbiamo visto, nella nostra cultura il silenzio finisce per assumere il significato di una “assenza”, uno spazio “morto”, inquietante e penoso in cui ci si sente soli e per questo spaventati. La paura del silenzio è allora la paura di mettere dei confini tra Sé e l’Altro e di essere rifiutati nel momento in cui ci si rende “altri”. Il silenzio diventa quindi un vuoto da colmare, ma non da rendere funzionale. Per contro, nelle culture orientali e in quelle in cui il senso di appartenenza dei singoli alla collettività è più spiccato, si ricorre molto più facilmente al linguaggio non verbale e in generale si ha un margine più ampio e positivo di significati da attribuire al silenzio. In esse la funzione del silenzio è presa in seria considerazione in quanto momento di riflessione, ponderatezza e saggezza nella vita e la sua pratica costante diviene elemento indispensabile per le interazioni tra l’uomo e la natura e tra gli uomini stessi. Stare in silenzio è un modo di ritrovarsi e ascoltarsi, di riprendersi uno spazio fisiologico che è allo stesso tempo una possibile riconquista di uno spazio interiore (“l’armonia intrapsichica”) e relazionale (la distanza del “confine interpsichico”). Una “presenza” invece di una “assenza”. Due modi diametralmente opposti di interpretare il silenzio.
Ma allora c’è da chiedersi che cosa spinga tanti moderni occidentali ad assumersi il rischio di vivere il silenzio immergendosi nelle profondità del mare? Dovremmo forse pensare che i sommozzatori, proprio perché portati a sfidare le condizioni ambientali estreme, sono anche più propensi a sfidare le condizioni intrapsichiche estreme? O al contrario dovremmo credere che i sommozzatori abbiano un modo di pensare di “tipo orientale” e che questo li porti a praticare la subacquea come una sorta di adattamento di questo pensiero alla cultura occidentale? Se così fosse dovremmo trovare una presenza maggiore di praticanti di attività meditative, yoga e quant’altro tra i sommozzatori che tra la popolazione generale e in effetti l’impressione che se ne ricava è proprio questa soprattutto per quanto riguarda gli apneisti. Tuttavia è difficile dire se venga prima l’attrazione per la subacquea o quella per le pratiche orientali. Molto probabilmente la verità sta nel mezzo e le stesse caratteristiche personologiche, spingono un individuo tanto verso l’una che verso l’altra. Quel che è certo è che ai sommozzatori servono un gran controllo su se stessi e la capacità di gestire lo stress; la meditazione potrebbe essere quindi percepita come un modo per migliorare questi aspetti. La pratica del silenzio attraverso la meditazione o la stessa subacquea diventa quindi una condizione essenziale per il ritrovamento di se stessi, perché aiuta a percepire il silenzio non già come un vuoto abissale, ma come un vuoto funzionale. Chi pratica una qualsiasi delle tecniche meditative sa benissimo che il silenzio non sarà mai assoluto, così come sa che il silenzio non deve essere né combattuto né forzato. Imporsi di fare silenzio o pretendere di allontanare da sé i rumori che si sentono, finisce per aumentare il rumore che si fa o che si percepisce. Viceversa accogliere quei pochi suoni, soprattutto se ritmati in un’alternanza di suoni/pause, assume un valore quasi ipnotico in cui il vuoto tanto temuto si riempie di sé. In tutte queste pratiche il primo passo che si chiede di fare è spesso quello di concentrarsi su una propria funzione fisiologica come il ritmo del proprio respiro. Per il sommozzatore questo passo è ancora più facile perché il suono del respiro, amplificato dalle attrezzature, si sente benissimo e infatti il sommozzatore sa che il silenzio fisico dell’immersione non è un silenzio assoluto, così come lo sapeva Jacques Cousteau, che pure descrisse l’oceano come "Il mondo silenzioso”. Il silenzio del sommozzatore è quello che viene dopo, quando vinta la paura del vuoto e la conseguente necessità di controllo sui suoni, si raggiunge la sospensione del tempo e uno stato di pieno benessere psico-fisico.

Bibliografia
Capodieci S. (2006), L’interesse scientifico per la psicologia subacquea, in Venza G. et al., Psicologia e psicodinamica dell’immersione subacquea, Franco Angeli.
Forrester M.A. (2006), Auditory perception and sound as event: Theorising sound imagery in psychology, Sound Journal, www.ukc.ac.uk/sdfva/sound-journal/forrester001.html.
Gargiulo M.L. (2002), La dimensione extravisiva nell’immersione subacquea. Relazione presentata al Convegno "Psiche e immersioni" S. Vito Lo Capo 17-19 ottobre 2002.
Grillon C. et al. (2007), Acute stress potentiates anxiety in humans, Biological Psychiatry, 15; 62 (10):1183-6.
Rodaway P. (1994), Sensuous geography: body sense and place, London: Routledge.
Sabbadini A. (1998), On Sounds, Children, Identity and a 'Quite Unmusical' Man, Sound Journal, 1, 1-10, www.kent.ac.uk/sdfva/sound-journal/sabbadini981.html
Venza G. et al. (2006), Psicologia e psicodinamica dell’immersione subacquea, Franco Angeli.



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