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PSYCHOMEDIA
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Società, Trauma e Solidarietà


Perché la guerra?
Attuali teorie antropologiche e considerazioni psicoanalitiche

Gian Marco Pauletta d’Anna



Nel 1931 la Società delle Nazioni, tramite l"'Istituto internazionale di cooperazione intellettuale", invitò degli esponenti rappresentativi della cultura dell'epoca a scambiare una corrispondenza su temi di interesse generale per la società. Fu interpellato Einstein, il quale propose a Freud uno scambio epistolare, che fu pubblicato con il titolo Perché la guerra? (Freud S., 1933).
In un'Europa ancora intensamente colpita dalla prima guerra mondiale, dove altri venti di guerra si agitavano, l'interrogativo posto da Einstein a Freud muoveva da una valutazione etica "c'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?" (id. pag. 283). Quindi la comprensione dei motivi della guerra avrebbe dovuto essere utile a far evolvere gli uomini in modo tale che si escludesse la guerra, vista come una calamità per il genere umano.
La risposta di Freud riprende le considerazioni sull'aggressività istintuale e sulla pulsione di morte, più ampiamente sviluppate in altre opere e che si intrecciano con molti capitoli della psicoanalisi freudiana. Per concludere che "la guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile", se non accentuando il processo di "incivilimento": "le modificazioni psichiche che accompagnano l'incivilimento sono evidenti e per nulla equivoche -dice Freud -Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione dei moti pulsionali" (id. pag, 297 e 298).
Ancora oggi l'interrogativo etico sulla guerra è presente insieme alla opposizione morale alla guerra in un ideale pacifista, salvo che gli stessi pacifisti morali siano nella fattispecie talvolta favorevoli alla guerra insieme ai cinici (per esempio nella guerra del Golfo dove erano implicati rilevanti interessi di controllo delle fonti petrolifere) o addirittura favorevoli all'intervento armato, mentre i cinici sono per l'astensione (per esempio nella guerra in Jugoslavia).
Il problema della guerra riveste comunque ancora oggi problemi etici, politici, sociali, di relazioni internazionali, dell 'Organizzazione delle Nazioni Unite (che è lo sviluppo della Società delle Nazioni dei tempi di Einstein e Freud), mentre rimane anche aperto il problema della guerra come fenomeno sociale e della sua comprensione in termini di origini e cause.
Ripropongo 1'interrogativo sulla guerra per diversi motivi.
Intanto per il fatto di ritenere insoddisfacenti le spiegazioni freudiane e di altri psicoanalisti, che hanno ripreso l' argomento.
Quindi per il motivo di ritenere che 1'evoluzione delle ricerche, degli studi e delle teorie antropologici abbiamo portato elementi nuovi e nuove ipotesi per comprendere il fenomeno guerra e che tali rilievi antropologici possano aprire nuove vie per la cooperazione della psicoanalisi, e in particolare per la psicoanalisi dei gruppi, allo studio della guerra e della relativa psicologia.
Un motivo ulteriore è che il fenomeno guerra mi pare anche uno dei terreni, in cui si possa comprendere la necessità che la psicoanalisi superi tendenze riduzioniste, che le derivano dal suo fondatore, e tendenze all’isolamento scientifico supponente e cerchi ed offra la cooperazione con le altre discipline e le altre scienze umane in particolare. La possibilità che la ricerca psicoanalitica si contestualizzi maggiormente nel campo complessivo della ricerca biologica e umanistica ritengo che avrebbe ricadute euristiche anche per la ulteriore comprensione psicoanalitica della mente e dei gruppi.
Freud, come da molte parti si è osservato, aveva appunto una visione del sociale accentuamente riduzionista, che lo portava ad escludere persino 1'utilità di una psicologia sociale distinta dalla psicologia individuale, dalla quale riteneva sul piano filo e ontogenetico derivassero l'evoluzione mentale e l"'incivilimento", come egli lo chiamava, e, a mio parere, la maggior parte degli psicoanalisti, che successivamente si sono occupati di fenomeni sociali (come Fromm, o come Jacques nella scuola inglese, o Fomari in Italia) hanno mantenuto questa tendenza a far derivare i fenomeni sociali dallo sviluppo individuale, in una visione dello sviluppo e del progresso di tipo lineare e causale, da livelli originari verso mete sempre più elevate.
Pensiamo alla assimilazione freudiana tra primitivi, bambini e nevrotici, che certamente risente dell'idea ottocentesca, rimasta a lungo presente nella nostra cultura, che lo sviluppo filogenetico abbia seguito un processo lineare di evoluzione da stadi selvaggi a stadi evoluti e civili e che i primitivi siano la rappresentazione di come fossero i nostri progenitori nei vari stadi di sviluppo, in quanto soggetti umani rimasti selvaggi, come dei bambini dell'umanità.
Il riduzionismo freudiano, che lascia la suggestione di risalire "ab ovo", in effetti non risolve mai il problema dell'origine della gallina: la spiegazione dell'incivilimento risulta in Freud circolare e tautologica, giacché da un lato sostiene che lo sviluppo e 1"'incivilimento" derivano dalle richieste sociali che il bambino incontra e che si oppongono alla soddisfazione pulsionale istintuale e d’altro lato spiega l'origine dei fenomeni sociali dall'origine individuale.
L'antropologia ha fatto grandi passi avanti nella ricerca e nella teorizzazione.
In primo luogo si è raffinato e trova sempre maggiori conferme I 'evoluzionismo culturale, che riscontra nell'evo1uzione culturale dell'uomo principi analoghi a quelli dell'evoluzionismo biologico darwniamo della variazione-selezione-duplicazione.
Il moderno evoluzionismo culturale si è sviluppalo dalle opere di While (1949) e di Steward (1955). Steward pone le basi della metodologia della ricerca ecologico-culturale, in cui si studiano le interazioni tra le condizioni dell'ambiente, in cui le popolazioni vivono, quali il clima, il suolo, le acque, la fauna e la flora, ma anche le altre popolazioni circostanti, e, per altro verso, i fattori culturali, quali le tecnologie di sopravvivenza, in primo luogo, e quindi l' organizzazione sociale, i sistemi di allevamento e di educazione, le strutture di potere ecc.
Alla base dell'evoluzione viene posta la necessità di sopravvivenza e di benessere biologico (chiamate costrizioni materiali) e il processo di evoluzione culturale viene visto, nei termini di variazione- selezione-duplicazione, nella interazione tra abitat e tecnologie di sopravvivenza in primo luogo, come interazione a partire dalla quale, sempre secondo un processo darwiniano si evolvono gli altri fattori culturali, sociali e pisocologici.
La ricerca antropologica ha da tempo mostrato che 1'evoluzione delle culture è avvenuta in molte parti del mondo in maniera indipendente e attraverso una multilienarità evolutiva: cioè pare proprio che tra i nostri antenati non abbiamo mai avuto cannibali, giacché il cannibalismo non pare sia stato praticato dalle popolazioni indoeuropee, mentre lo era, per esempio, dagli Aztechi dell'America centrale, che peraltro non ebbero a loro volta antenati che avessero fatto sacrifici di animali da carne di allevamento, assenti in epoca precolombiana in tutte le Americhe. Come può essere osservato anche nella nostra storia della cultura occidentale, il processo evolutivo non ha seguito mai una linearità analoga nelle diverse culture, ne una linearità rettilinea da bassi livelli a livelli più elevati.
Lo strutturalismo di Levi-Strauss ha posto l'accento sulle somiglianze e sulle differenze rilevabili tra le diverse culture, ritenendo che le somiglianze poggino in ultima analisi sulle comuni possibilità di cervello umano e quindi su universali elementi presenti nell'inconscio, mentre le differenze siano conseguenza della fondamentale dicotomia natura-cultura, cioè esito delle ricerche diverse di soluzioni ai problemi umani non risolvibili secondo natura.
Il materialismo culturale, attualmente in auge, segue un modello forte di evoluzionismo. Si studiano le cause dell'evoluzione seguendo il rapporto tra le costrizioni materiali dell'esistenza umana e le situazioni ambientali delle popolazioni. Gli aspetti sociali e psicologici sono ritenuti conseguenza delle modalità con cui si trovano soluzioni ai problemi materiali dell'esistenza (è chiara quindi una derivazione marxiana, anche se tale corrente prescinde da previsioni o soluzioni politiche, e si limita a studiare le evoluzioni culturali).
In questa corrente si situa uno dei più autorevoli antropologi moderni, Marvin Harris, le cui teorie del "determinismo storico", esito di amplissime ricerche, paiono dare un quadro attendibile dell’origine delle culture e dei fattori sociali, tra i quali la guerra (Harris M., 1968, 1979, 1987).
Il senso di parlare di determinismo è per Harris ritenere che variabili ambientali e culturali simili diano luogo a sequenze simili e che quindi l'evolversi delle culture, compresi i mezzi di produzione, le religioni, le ideologie e le mentalità, siano il frutto di un processo evoluzionista darwiniano e non di scelte coscienti degli uomini (fino ad un certo punto -egli stesso dice, e io sottolineo -cioè fino a] punto in cui non subentri una consapevolezza dei problemi e dei processi di soluzione degli stessi).
L' origine delle culture viene fatta risalire alla fine del primo periodo paleolitico, durato da 30.000 ai 10.000 anni fa, verso il termine dell'era geologica del pleistocene, durante la quale la gran parte dell' emisfero settentrionale era ricoperta dai ghiacci, mentre nella zona centro-meridionale abbondava una uniforme prateria, habitat della megafauna, facile e abbondante preda dei cacciatori-raccoglitori. Verso i 13.000 anni fa iniziò la fine dell'ultima era glaciale, con aumento del calore terrestre, scioglimento progressivo dei ghiacciai e inizio delle variazioni climatiche e ambientali nelle diverse zone del globo.
Dappertutto, con il cambiamento del clima terrestre, si estinsero le specie della megafauna. Suolo e acque, flora e fauna si diversificarono nelle zone del pianeta: per esempio, nelle americhe si estinsero i cavalli, i buoi, i porci, l' elefante e l' antilope, presenti fino a circa 7.000 anni fa e poi non più fino alla reimportazione postcolombiana.
I reperti scheletrici del paleolitico dicono che l'uomo avesse avuto in quel periodo un' ottima alimentazione, di gran lunga superiore a quella di altre popolazioni, in più recenti epoche, e che in media solo l' uomo moderno occidentale abbia superato le condizioni scheletriche del paleolitico. Mentre con il cambiamento dell'ecosistema, gruppi diversi di esseri umani, situati in diverse parti del mondo, dovettero ingegnarsi a trovare sistemi di sopravvivenza diversamente appropriati alle diverse condizioni ambientali, stanti le medesime necessità e il medesimo cervello. In questa interazione sorsero evolutivamente le diverse forme di sopravvivenza, le agricolture, le cacce, gli allevamenti, le tecnologie e a questi connesse e integrate i linguaggi, le credenze, le conoscenze, le religioni, i sistemi sociali, le strutture di parentela, di accoppiamento, di allevamento ovvero, in una parola, le culture.
Dalla fine del pleistocene gli uomini hanno sempre avuto il problema di trovare e sfruttare risorse sufficienti alla sopravvivenza e al benessere biologico e ci sono riusciti, più o meno, e con modalità diverse nelle varie epoche e nelle varie parti del mondo. Come rileva Harris, il problema è sempre stato duplice e complesso: da una parte il problema delle risorse e dall'altra il problema demografico. Giacche è evidente che, a parità di risorse, il quantum pro capite dipende dal numero dei componenti la popolazione che dispone di tali risorse. Dalle ricerche e dagli studi effettuati, concordemente si evince che il problema in effetti (non certo per consapevolezza di assenti demografi o di economisti inesistenti) è sempre stato il seguente: lo sviluppo di tecnologie e quindi di sistemi culturali atti a sfruttare determinate risorse tende a far di conseguenza aumentare il benessere biologico della popolazione e quindi produce tendenzialmente incremento demografico, e quindi maggiore sfruttamento delle risorse con tendenziale esaurimento delle stesse (della fauna, della produttività dei terreni. ..fino al petrolio dei giorni nostri). A questo punto o sorgono nuove tecnologie per nuove risorse, il che determina un' evoluzione della cultura o la popolazione tende all’estinzione insieme all’estinzione delle risorse.
In questo quadro si iscrive la teoria antropologica della guerra di Harris (1977 e 1987), alla base della quale si pone il problema demografico, derivato dalla necessità di sopravvivenza delle popolazioni in relazione al problema fondamentale delle risorse.
Secondo Harris in primo luogo si può facilmente escludere la dipendenza della guerra dalla natura umana in quanto esaminando le diverse etnie classificate, che nell' Ethnographic Atlas (Murdock G.P., 1967) sono 1.179, si verifica che, per quanto la guerra, come omicidio organizzato intergruppo sia diffusa, essa non è praticata da alcune popolazioni e le forme della guerra sono diverse per molti fattori nelle diverse popolazioni, che la praticano.
Anche la derivazione della guerra dall'aggressività trova nelle stesse osservazioni la sua falsificazione, poiché, essendo l’aggressività individuale, sotto varie forme e manifestazioni, presente in individui di tutte le popolazioni, appunto non in tutte si pratica la guerra, e cioè non si passa dall'aggressività individuale all'aggressività organizzata di gruppo.
La guerra appare quindi al pari di altri fattori una delle componenti delle culture, che si istituisce evolutivamente e varia nel corso della storia, al pari degli altri fattori culturali. Un esempio significativo è quello degli indiani americani Pueblo che ai tempi della colonizzazione spagnola del Nuovo Messico erano descritti dagli osservatori di allora come aggressivamente dediti all'attacco dei coloni e a bruciare chiese, con i preti dentro, e che successivamente sono stati descritti dagli antropologi come un popolo estremamente pacifico e solidale; un esempio recente può anche essere quello degli ebrei, che insediatisi nel territorio israeliano sono divenuti, per la prima volta, una potenza militare mondiale, in evidente relazione con le circostanze ambientali e con la tecnologia disponibile.
Un popolo molto studiato rispetto alla guerra sono gli Yanomano, che vivono all'interno della foresta nel bacino dell 'Orinoco e che sono stati chiamati da uno dei loro maggiori osservatori Il popolo crudele" (Chagnon N., 1968), per la loro bellicosità feroce. Gli Yanomano sono anche particolarmente interessanti per il fatto che all'intensa bellicosità si associa la presenza di una altrettanto enfatizzata presenza di quello che Harris chiama il complesso della supremazia maschile, che è presente nelle società proporzionalmente alla presenza della pratica bellica.
La guerra tra gli Yanomano ha la caratteristica di essere un perenne stato di guerra interna tra villaggi, facenti parte dello stesso gruppo etnico. Ciascun villaggio è il risultato di una scissione di un altro villaggio: i villaggi sono mediatamente composti da circa 80 persone, con punte di 160. Nei villaggi è sempre presente una grossa litigiosità, dato il carattere molto aggressivo dei maschi. Quando il villaggio tende a superare numericamente la media degli abitanti scoppia immancabilmente una lite di particolare intensità che divide il villaggio in due fazioni e quindi la fazione soccombente deve lasciare il villaggio e cercarsi un altro insediamento lontano.
Sia le liti interne ai villaggi, che la guerra tra i villaggi, secondo la stessa opinione degli Yanomano, sono soprattutto motivate dalla competizione per appropriarsi delle donne, che sono massimamente svalorizzate sul piano sociale, dove massimo è il predominio maschile e considerate una preda, di cui appropriarsi con la violenza, sia nel senso di prenderle bellicosamente ai nemici, sia come modo comunemente praticato di accedere ai rapporti sessuali, sempre con caratteristiche di rapporto sadico di sottomissione della donna.
In effetti il rapporto uomini-donne è presso gli Yanomano di circa 150 a 100, con prevalenza di uomini. Se si pensa che la guerra e le liti competitive comportano un'elevata percentuale di omicidi di maschi, si vede un rapporto maschi e femmine di circa 2 maschi adulti per una femmina adulta, dove 25 maschi su 100 moriranno in combattimento. Il rapporto maschi-femmine pari a 2/1 costituisce una evidente e grossa alterazione rispetto alla probabilità statistica dei due sessi alla nascita, che si ritiene atteso nella proporzione di 100 per 105 a favore delle femmine. Il ruolo secondario e la svalutazione della femmina comportano che presso gli Yanomano, sia per diretto infanticidio, sia come esito di incurie e di disalimentazione, circa il 50% delle femmine nate non giunga a maturità sessuale. Quindi i conti tornano sul piano numerico, ma non tornano sul piano dell'apparente assurdità del fatto che da una parte si scatena una fortissima bellicosità competitiva per le donne, le quali sono risultato di una loro eliminazione al 50% da bambine.
Ma i conti possono tornare se si considerano altri fattori. gli Yanomano si ritiene siano stati una popolazione perdente rispetto ad altre popolazioni prevalenti, che abitavano le sponde dell'Orinoco e da queste sospinti a vivere all'intermo della foresta, in condizioni ambientali meno favorevoli (nell’area geografica amazzonica, le popolazioni prevalenti tendono infatti a vivere lungo le via d'acqua).
I mezzi di sussistenza degli Yanomano consistono sostanzialmente di banane coltivate sul posto e di caccia nel territorio circostante gli insediamenti. Per piccoli insediamenti la selvaggina, pur con una caccia difficoltosa e non di grande soddisfazione, rimane sufficiente per una dieta non ricca, mentre l'incremento demografico accent-uerebbe lo sfruttamento delle risorse faunistiche, con alterazione dell'equilibrio ecologico e minaccia di non sopravvivenza per l'intero insediamento. L'infanticidio diretto o indiretto delle femmine costituisce nei fatti un anticoncezionale preventivo, presente in molte popolazioni, e quindi un antidoto all’incremento della popolazione. Infatti nelle popolazioni, che non dispongono di metodi anticoncezionali e nelle quali il sesso è praticato senza limitazioni, l'indice di incremento delle popolazioni è evidentemente proporzionale al numero delle donne, cioè delle possibili gravidanze e nascite. La scissione dei villaggi impedisce che si creino mai insediamenti troppo numerosi in relazione alle risorse del territorio del villaggio, mentre la bellicosità tra i villaggi comporta che si creino delle "terre di nessuno" tra un villaggio e l'altro, come aree pericolose per la caccia (per via dei nemici), ma preziose riserve di ripopolamento faunistico. Il complesso della ferocia maschile funziona su due versanti: da una parte quello bellicoso e dall'altra quello della svalutazione delle femmine sul piano sociale. Relativamente alla prima funzione è chiaro che vi è una interdipendenza fra guerra e bellicosità maschile, poiché il fatto che la guerra sia importante esalta le qualità maschili più bellicose e al tempo stesso la bellicosità maschile favorisce lo scatenarsi della guerra. Tutto ciò, sempre interdipendentemente, comporta che la donna sia al tempo stesso svalorizzata socialmente in quanto non guerriero e ridotta ad oggetto passivo altamente appetibile. La donna è quindi concausa della guerra, in quanto preda rara, ma è anche preda rara in quanto il complesso della supremazia maschile le riserva un allevamento, che ne riduce del 50% le possibilità di sopravvivere. Tutto il sistema socio-culturale degli Yanomano concorre a mantenere questo stato di cose: per esempio nell'allevamento indirizzato ad incentivare la brutalità maschile come qualità sommamente pregiata, da cui deriva come corollario l'incuria nei confronti delle femmine.
Tutto questo sistema concorre a mantenere un'equilibrio ecologico della popolazione Yanomano, mantenendo basse le pressioni demografiche.
Marwin Harris utilizza questo ed altri esempi per mostrare il rapporto esistente tra le guerra e "benefici" socio-culturali in funzione della sopravvivenza della popolazione, che la pratica, e tra strutture socio-psicologiche e funzione sociale complessiva delle stesse.
La teoria della guerra, che risulta dagli studi di Marwin Harris, è sinteticamente la seguente. La guerra è un fenomeno culturale, che, al pari degli altri fenomeni delle culture, emerge per selezione darwiniana nell'evoluzione delle popolazioni. La guerra ha come fattori primariamente causali l'incremento delle pressioni demografiche in rapporto alla tendenza dell'esaurimento delle risorse. La guerra ha duplice valenza: l'aumento delle risorse attraverso l'appropriazione predatoria e la regolazione della pressione demografica attraverso il complesso della supremazia maschile, che parallelamente si instaura nella società bellicosa.
Un altro esempio è quello dell'impero azteco. Gli Aztechi vivevano nella valle del Messico e traevano sussistenza basilare da una difficile agricoltura in un clima di alternanza tra periodi di siccità e di alluvioni. I loro dei erano crudeli ed esprimevano la loro rabbia attraverso flagelli metereologici. Perché fossero placati bisognava continuamente sacrificare loro cuori e sangue umani, di cui erano avidi. Gli Aztechi avevano sviluppato uno stato imperiale, dotato di un micidiale esercito organizzato, e prevalevano sulle altre popolazioni della zona. La casta dei guerrieri-padroni dominava la società azteca insieme ai sacerdoti, depositari dei riti sacrificali. La guerra degli aztechi era rivolta, anche attraverso spedizioni in territori lontani, oltreché alla sottomissione delle popolazioni limitrofe, all'importante scopo di fare prigionieri. E a tale scopo era improntata la strategia militare, talché arrivavano ad evitare le possibilità di vittoria sul campo di battaglia, che avrebbero comportato 1'uccisione di troppi nemici, preferendo costringere gli attaccati alla resa vivi (e pare che tale tattica sia stata fatale all'impero azteco nella guerra contro le inferiori truppe di Cortes). Gli aztechi volevano molti prigionieri vivi per poterli sacrificare ai loro dei. In un' occasione pare che abbiano sacrificato in quattro gironi quattro file di prigionieri, lunghe oltre due miglia, per un totale di circa 14.000 uomini (Cook S., 1946). E le vittime sacrificali, dopo che cuore e sangue erano stati devoluti agli dei, venivano rese ai loro padroni, i comandanti militari, cui erano stati attribuiti. Questi, che precedentemente avevano "tenuti in fresco" i prigionieri in casa propria, utilizzandoli in ruoli servili, facevano allestire un banchetto dei loro corpi. Dalle decine di migliaia di teschi ritrovati, e già a suo tempo descritti dai primi osservatori spagnoli, si è calcolato che la popolazione azteca era, almeno quanto i suoi dei, avida di carne umana (non avevano alcun animale da allevamento), dalla quale, importante esito della guerra, ricavava un contributo proteico alla altrimenti più povera dieta.
Agricoltura, religione, guerra, cannibalismo di massa facevano dunque parte di un sistema integrato secondo il quale il popolo azteco aveva vissuto a lungo, prima che fosse distrutto dagli spagnoli. Non si sa purtroppo, in questo caso come esattamente il complesso della superiorità maschile agisse da regolatore demografico, ma evidentemente la guerra azteca implicava spinte demografiche e carenza di risorse e si sa che una quota necessaria di sacrifici umani, oltre ai prigionieri schiavi, consisteva di vergini.
Harris considera la presenza di fattori psicologici, ma non li ritiene fattori determinanti causalmente. Pur nella sua evidentemente poca dimestichezza con la psicoanalisi, considera anche ipotesi psicoanalitiche riduzionistiche sull' origine dei fenomeni sociali, come quella avanzata per il cannibalismo (Sagan E., 1974) secondo cui sarebbe una forma originaria di espressione aggressiva, esito della ambivalenza amore-odio e compromesso tra desiderio di incorporazione e di uccisione dell'oggetto frustrante. Ma secondo Harris questo non spiega la ragione per cui quello che è evidentemente un fenomeno sociale, giacché è praticato normalmente in una società e non in altre, appunto sia presente in una cultura e non in altre. Lo stesso è per la guerra, per la quale Harris considera alcune ipotesi psicologiche.
Le ipotesi della guerra come gioco, cioè come espressione di un piacere sadico di aggredire e di uccidere, 1'ipotesi della guerra come esito della necessità di solidarietà sociale attraverso la proiezione del1'aggressività interna al gruppo sul nemico esterno, 1'ipotesi della guerra come volontà politica di potenza sono tutte visite come componenti possibili e che rendono possibile la guerra, ma che non spiegano le radici culturali della guerra e la evoluzione bellica specifica di specifiche culture.
Anche l' ipotesi della guerra come conseguenza della natura umana, di cui si è già detto segue la stessa sorte delle altre per analoghe ragioni: la guerra può essere certamente conseguenza della natura umana e dell'umana psicologia, che la rendono possibile, ma non può essere una conseguenza necessaria, poiché appunto l'osservazione etnocomparativa lo esclude.
Certo il quadro antropologico storico-determinista, per quanto ponga alle radici primarie la biologia e le conseguenze delle necessità di sopravvivenza dell'organismo umano, risulta fortemente culturalista. Nel dibattuto problema antropologico di cosa determini primariamente 1'evoluzione la linea sostenuta è natura -cultura -psicologia diversamente dal riduzionismo psicologico che sostiene la linea natura - psicologia- cultura. In altri termini l' evoluzione deterministica implica primariamente un costituirsi di assetti del gruppo etnico e quindi fa discendere da questi e da questi dipendere gli aspetti dello sviluppo psicologico degli individui all'interno dello stesso gruppo etnico.
Personalmente concordo con 1'impostazione psicologica e psicoanalitica di gruppo secondo cui tra gruppi e individui vi è una interdipendenza continua, senza che si possa determinare una priorità causale. In effetti nei gruppi, in tutti i gruppi, piccoli e grandi, si nota il formarsi di configurazioni tematiche di gruppo, inconsce agli individui, le quali sono composte di elementi mentali individuali ma organizzati rispetto ai fini del gruppo e tra individuo e gruppo si osserva anche una continua reciproca funzionalità, del gruppo funzionale all'individuo, ma anche dell'individuo funzione del gruppo.
E però mi pare che il quadro antropologico prospettato abbia delle evidenze, che non possono non essere considerate, particolarmente il valore etnocomparativo delle culture e delle culture di guerra in particolare.
La guerra è, per sua stessa essenza, un fenomeno di gruppo, che esprime un assetto gruppale, e nei gruppi gli assetti strategici del gruppo prevalgono sugli individui. L'individuo può individualmente avere comportamenti aggressivi sia in sintonia, che in distonia con il gruppo, ma non può fare la guerra se non insieme ad un gruppo di individui che è d 'accordo nell'identificare un altro gruppo di individui come nemico. Se un individuo volesse la guerra, ma non la volesse il gruppo di cui fa parte, la guerra non si farebbe e l'individuo sarebbe classificato nel gruppo come guerrafondaio, come eccentrico, come pazzo. Se invece un gruppo volesse la guerra, 1'individuo pacifista sarebbe un disertore.
Peraltro è tipico dei gruppi, in special modo dei gruppi etnici classificare come naturale ciò che inerisce in realtà la specifica identità del gruppo: per esempio, noi occidentali consideriamo "naturale" considerare la sanguinarietà degli Yanomano beluina, mentre per gli Yanomano la ferocia è un valore e trovano "naturale" disprezzare chi ne è privo.
In antropologia si chiama "emica" una spiegazione di fenomeni culturali data dall'interno di una cultura, mentre si chiama "etica" una spiegazione dello stesso fenomeno data dall'esterno dei quella cultura (noi psicoanalisti diremmo nel primo caso identificandosi e nel secondo non identificandosi con una determinata cultura). Per esempio è emica la spiegazione delle crociate come guerre per la liberazione del santo sepolcro, mentre è etica una spiegazione delle stesse crociate come guerre espansive nel contesto di un conflitto tra espansionismo arabo ed espansionismo europeo.
La teoria freudiana della guerra come risvolto inevitabile della natura umana sarebbe in effetti considerabile una spiegazione emica, essendo la guerra, come molti hanno rilevato, una caratteristica specifica della cultura occidentale, di fondamentale importanza fin dalle sue origini greco-romane. Mentre la spiegazione dell'educazione repressiva e del suo risvolto atto a favorire la bellicosità individuale maschile e la passività femminile costituirebbe la spiegazione psicologica profonda di una modalità diffusa di allevamento della prole nella cultura occidentale in epoca vittoriana. Cioè Freud non spiegherebbe affatto perché la guerra si pratichi, bensì spiegherebbe come in una cultura si favorisca nel corso dello sviluppo dei bambini il sorgere di tendenze aggressive, utilizzabili socialmente a fini bellici del gruppo. Non sarebbero 1 'aggressività innata che deve essere repressa per 1'incivilimento, ne viceversa la repressione degli istinti, le cause, naturale la prima o culturale la seconda, della presenza della guerra nella società in generale, quanto sarebbe il fatto che la società europea di sia evoluta culturalmente con presenza di guerra e di modalità di ontogenesi bellicosa, come cofattori di un quadro al tempo stesso socio-psicologico e psico-sociale.
La cultura occidentale fin dalle sue origini greco-romane e prima ancora nell'alveo indo-europeo da cui deriva, ha coltivato la guerra coloniale di conquista e le guerre interne ed esterne di predominanza insieme all'agricoltura irrigua latifondista e all'allevamento di bestiame da carne e da latte.
Le colture idrauliche latifondiste determinano lo sviluppo di sistemi socio-culturali gerarchizzati a piramide, ovvero regni a larga base di manovalanza contadina e di manodopera per la costruzione di tecnologie idrauliche di gestione delle acque. La guerra agisce come fonte di territori, di popolazioni sottomesse e di prigionieri da impiegare (vivi) nella servilità, mentre 1'allevamento rende inutili e svantaggiose le tentazioni cannibaliche.
Nella nostra società il complesso della supremazia maschile ha presieduto anche alla regolazione delle nascite attraverso il controllo delle donne con i tabù della verginità, della fedeltà, della indissolubilità del matrimonio e con 1'attribuzione al maschio della prerogativa della fecondazione legittima, cosicché 1'indice di natalità è diventato proporzionale ai maschi legalmente coniugati (con fortissima riduzione delle tendenze alla promiscuità e tendenziale eliminazione dei nati illegittimi, che venivano abbandonati e allevati nell'incuria).
E in effetti 1'evoluzione sessuale maschile e femminile, con complesso fallico maschile e complesso di castrazione femminile appare tipico e funzionale alla struttura etnica di secoli di civiltà europea.
Penso che se gli psicoanalisti avessero più dimestichezza con la storia etnocomparativa e con le diverse modalità di allevamento, di educazione e di istruzione praticate nei diversi gruppi etnici, avrebbero ampi dati per constatare come i diversi corsi dello sviluppo dei soggetti umani tendano ad influenzare l'evolversi di mentalità diverse e adatte ai ruoli delle diverse culture.
Purtroppo molte culture si sono orami estinte o sono in via di estinzione o sono ibridate con altre (come le numerose e interessantissime etnie degli indiani del Nord America) e coloro i quali hanno osservato nel passato le popolazioni "primitive", lasciandoci pure una grande quantità di dati, non si sono preoccupati di osservare con attenzione sufficiente le modalità relazionali dello sviluppo nelle diverse etnie.
Tuttavia dalle osservazioni fatte soprattutto dagli psicoanalisti- antropologi degli anni '40 si possono rilevare delle continuità evidenti fra le modalità di sviluppo individuale e i ruoli etnico-tipici degli adulti: addirittura le modalità di allattamento, oltre alle modalità di relazione con il bambino, di educazione e istruzione dell'adolescente risultano in concorso verso lo sviluppo di mentalità profonde e di comportamenti etnico-specifici.
Per esempio le madri degli Aranda centroaustraliani hanno una tipica e generalizzata modalità di allattamento: dalla nascita tengono sempre il piccolo vicino, portandolo sempre appresso e dandogli il seno ogni volta che lo richiede e questo atteggiamento è masochisticamente mantenuto molto a lungo senza alcuno svezzamento; inoltre le madri hanno una totale disponibilità non solo del seno, ma di tutto il loro corpo per i bambini e senza mai lamentarsi si lasciano succhiare, mordicchiare e tormentare i capezzoli e toccare finché a qualche anno di età il figlio gradualmente si stacca.
Roheim (1950), che riporta queste osservazioni nota egli stesso che questa modalità di allevamento tende a generare "ottimismo orale" e disponibilità per identificazione, che costituisce anche il tema dominante nell'educazione successiva. L'ottimismo orale risulta molto utile agli Aranda per tollerare da adulti una vita caratterizzata dalla penuria e la reciproca generosità tra membri della tribù è indispensabile per far fronte alle difficoltà della caccia al canguro e all'emù, che vengono divisi fra tutti da parte dei fortunati che li catturano.
Una modalità diffusa tra le tribù indiane d'America più aggressive pare fosse quella di frustrare il piccolo fin dal periodo dell'allattamento togliendo il seno sempre prima della sazietà. Nelle stesse tribù una educazione improntata a insegnare la capacità di tolleranza del dolore, delle ferite, delle difficoltà fìsiche, con premiazione degli atteggiamenti più indifferenti alla difficoltà fisica era funzionale a creare la mentalità adatta al guerriero aggressivo e indomito. I riti di uccisione dei prigionieri, cui tutta la popolazione dei villaggi, compresi i bambini piccoli doveva assistere, al di là delle spiegazioni emiche religiose, avevano lo scopo etico di creare e incrementare il piacere di uccidere, attraverso forme di identificazione con 1'aggressore, la disinibizione a farlo, il terrore di fare la fine dei prigionieri e quindi la forza per morire, piuttosto che arrendersi.
Questi sono solo esempi, ciascuno dei quali richiederebbe un complesso studio a se, per evidenziare appunto la possibilità che lo sviluppo mentale sia fortemente orientato nel contesto etnico e egli individui possano crescere predisponendosi alla psicologia bellicosa.
Il limite della teoria di Harris è invece, secondo me, quello di non considerare abbastanza un fattore importante: come cultura e mentalità relative, una volta che si siano formate per selezione darwiniana, siano quindi potenti fattori di resistenza rispetto a ulteriori variabilità evolutive.
Se cioè la guerra, come altre forme dell’attività umana, si è selezionata nell’evoluzione di un gruppo etnico, e se la cultura di quel gruppo etnico è diventa il deposito genetico della guerra, tendendo quindi a generare mentalità bellicose, cultura e mentalità relative non assumono poi una tendenza alla riproduzione ripetitiva?
La psicoanalisi studia l'evolversi della mente e delle sue funzioni e sul piano clinico si cura di come mantenere alla mente una variabilità, oltre le tendenze ad assumere strutture e dinamiche ripetitive, che si possono deteminare nel corso dello sviluppo individuale. La psicoanalisi dei gruppi, più recentemente, ha studiato e studia le complesse dinamiche mente-gruppo e sul piano clinico le possibilità che il gruppo può avere per lo sviluppo evolutivo della mente. Il modello psicoanalitico riguarda sia la possibilità di trasferire evolutivamente l'esperienza psico-affettiva sulle situazioni ambientali del presente sia la difficoltà psicodinamicamente interattiva con il presente. A livello delle difficoltà che i soggetti e i gruppi umani incontrano nella ricerca di soluzione alle esigenze individuali e istituzionali il modello psicoanalitico è quello della resistenza al cambiamento evolutivo, che assetti mentali e di gruppo, che si sono deteminati nel passato, presentano.
Ecco che la psicoanalisi presenta un modello, che comprende sia il modello di evoluzione deteministica, sia un modello di variabilità/non variabilità dipendente da fattori psicologici presenti e non per selezione darwiniana.
Nel caso della guerra la questione si porrebbe così nella complessità risultante da un quadro antropologico-culturale completato dai fattori psicologici individuali e di gruppo.
Se ammettiamo che la guerra sia il prodotto di una evoluzione culturale, che l'ha selezionata fra le forme di una determinata cultura, e ammettiamo anche che con concomitante selezione si siano selezionate forme di relazioni di allevamento e di educazione che concorrono a creare mentalità individuali che supportano la guerra, ci possiamo però chiedere se il processo evolutivo si mantenga sempre darwinianamente selettivo sulla base delle primarie spinte alla sopravvivenza o se ad un dato momento le culture, che si sono selezionate, con le mentalità che si sono selezionate al loro interno e che le sostengono, non diventino fattori di resistenza al cambiamento al di là delle utilità di sopravvivenza delle popolazioni, analogamente a quanto la psicoanalisi verifica nel caso delle evoluzioni mentali per gli individui.
Per esempio la religione cattolica si oppone ancor oggi tenacemente al controllo delle nascite con i moderni anticoncezionali e ostacola la politica di diffusione del controllo delle nascite nel terzo mondo dove la pressione demografica ha livelli accentuatissimi. Gli Aztechi succitati hanno perso la battaglia contro gli spagnoli per una strategia di guerra loro tipica. Gli Zulù, dopo aver distrutto buona parte dell’ esercito inglese con forze preponderanti, si sono attardati a compiere riti purificatori dopo la battaglia, senza approfittare del successo per distruggere l'intero corpo di spedizione inglese e dando invece modo al nemico di riprendersi dalla sconfitta e quindi poi di vincerli. L'integralismo Islamico si oppone ad ogni forma di innovazione dei costumi mussulmani e cavalca ancora la tradizionale ideologia religiosa della guerra santa, mentalità classiche del!a cultura espansionista araba. Nella ex Yugoslavia sono riesplosi conflitti interetnici di predominanza, con costi altissimi per le popolazioni coinvolte e nessun visibile beneficio, in un mondo nel quale il dominio territoriale ha scarsa rilevanza rispetto al dominio tecnologico e dei mercati.
Può darsi che il principio di selezione-duplicazione (o estinzione) farà comunque con il tempo giustizia delle passate evoluzioni culturali che sono foriere di scarsa utilità per la sopravvivenza e che pertanto tenderanno ad estinguersi. Ma certamente nessuno può oggi più non pagare i costi dei conflitti culturali, in quanto ormai siamo tutti abitanti del villaggio globale e abbiamo compreso che la guerra può comportare il rischio tragico dell'estinzione del!a specie umana.
La distinzione tra forme culturali (e mentali) primitive ed evolute, se si è rivelata inappropriata in una fantasia di sviluppo lineare, può invece poggiare nella distinzione tra livelli emici ed etici di comprensione dei problemi della vita umana, degli individui e delle popolazioni. Cioè rimarrebbe a livelli primitivi un livello di comprensione ideologico, mentre evoluto sarebbe un livello di comprensione scientifico: per esempio sarebbero analogamente primitivi sia il cannibalismo rituale, sia l'animalismo odierno che identifica uomini e animali come equivalenti e sacri, mentre potrebbe essere evoluto il cannibalismo di chi naufrago su un'isola deserta si nutrisse delle spoglie di un compagno, comprendendone la funzione indispensabile al!a sopravvivenza, così come evoluto è il rispetto consapevole degli equilibri ecologico-faunistici, in un' ottica di mantenimento della vivibilità ambientale.
Se così fosse, certo c'è da rendersi conto dei grossi problemi implicati, vi sarebbe non una distinzione tra popoli primitivi e popoli evoluti, ma tra uso consapevole e inconsapevole della mente e del comportamento, distinzione, che certamente, più o meno, passa in ciascuno dei viventi e che probabilmente dipende sia dal livello di emancipazione psicologica raggiunto, sia dal livello di conoscenza scientifica.
In conseguenza dei dati etnocomparativi si possono vedere più possibilità di ricadute euristiche per la psicoanalisi, tra le quali propongo le seguenti:
- la riconsiderazione delle obiezioni, già sollevate da Malinowski e dalla Mead, rispetto alla ubiquità della evoluzione mentale degli esseri umani;
- la necessità di considerare il campo gruppale come necessario alla conoscenza psicoanalitica;
- la riconsiderazione della evoluzione mentale e dei problemi mentali in una dimensione complessa e contestualizzata.
- la depurazione dei contenuti emici delle teorie psicoanalitiche;
- maggior possibilità di elaborare un modello psicologico della mente, distinguendolo dai modelli eroici dell'anima (psiche) e dai modelli emici naturalistici salute/malattia;
- una riflessione sul ruolo dello psicoanalista, e sul significato etnico della sua presenza solo nelle cultura occidentale, con ricadute sulla relazione clinica co-transferale.
Come le altre scienze, la psicoanalisi potrebbe quindi continuare a fare la sua parte nel favorire il superamento del determinismo evolutivo, verso la possibilità di scelte fatte con determinazione, superando però anche i propri limiti emici di "tribù" e cooperando con le altre "tribù" di ricercatori di conoscenza.
Personalmente non ritengo di avere una natura bellicosa, ne una natura pacifica. Per esempio mi arruolo nella propugnazione di idee, che mi sembrano, giuste in quanto utili e funzionali, ma anche mi arrendo volentieri a chi mi mostra, con armi inconfutabili, idee migliori delle mie.
Il conflitto delle idee può non essere sanguinoso, se si comprende che può contribuire all'evoluzione di tutti contendenti.

Gian Marco Pauletta d’Anna
Milano
e-mail : gmpda@katamail.com


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