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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: RELAZIONE GRUPPO<=>INDIVIDUO
Area: Disagio familiare,
Separazioni e Affido dei Minori


Abuso psicologico: profili giuridici e criminologici

Avv. Paolo di Martino*




Tratto da:
Paolo di Martino, in AA.VV. I Diritti della Persona, Collana di Giurisprudenza critica,
a cura di P.Cendon, Utet, 2005, Vol. III

Abstract: Recente giurisprudenza di merito e di legittimità ha aperto il varco alla tutela penale degli abusi psicologici quando essi, sulla base di un rapporto personale continuativo tra autore del reato e vittima, connotato da sistematiche e abituali sopraffazione psicologiche per lo più verificatesi nell’ambito delle mura domestiche, sono tali da rendere abitualmente dolorose le relazioni familiari e da determinare uno stato di avvilimento morale vuoi con atti, vuoi con parole che offendono il decoro e la dignità della persona, nonché con violenze (psicologiche appunto) capaci di produrre sensazioni dolorose pur senza lasciare traccia visibile. Il problema della prova della responsabilità rimane pur sempre il nodo principale e la difficoltà maggiore, trattandosi per loro natura di abusi privi di riscontri documentali. Il giudice, quindi, sarà chiamato ad un’attenta, saggia e competente valutazione delle testimonianze soprattutto della persona offesa avvalendosi anche, se del caso, di professionisti in ordine all’attendibilità di quest’ultima. Quanto ai profili risarcitori derivanti dalle condotte abusanti sopra descritte si ritiene, pur in presenza di voci autorevoli di tenore opposto, che sia configurabile a prescindere dal danno biologico e morale, un danno esistenziale autonomamente azionabile.


SOMMARIO: 1. Le nuove frontiere del concetto di abuso psicologico – 2. La patogenesi dell’abuso psicologico – 3. Vittimizzazione: tutela pubblica e privata – 4. Reato di maltrattamenti in famiglia e rilevanza dell’abuso psicologico – 4.1 Il problema della prova penale – 5. Abuso psicologico e profili risarcitori del danno esistenziale


1. Le nuove frontiere del concetto di abuso psicologico

La novella legislativa della legge n.154/01 in tema di ordini di protezione contro i maltrattamenti in famiglia ha consentito la possibilità di ottenere provvedimenti anche di allontanamento dalla casa familiare di chi, coniuge o convivente, compia abusi anche morali.
E’ la prima volta, forse, nella legislazione italiana che compare codificata la figura dell’abuso morale o psicologico e, al di là di quella che sarà poi l’applicazione pratica, la portata innovativa della norma risulta potenzialmente enorme. Si intravede la possibilità, infatti, seppure con le cautele e le prudenze del caso attesa la delicatezza delle questioni in gioco, dell’apertura di una finestra sull’universo sommerso delle violenze non visibili, quelle non fatte di certificati medici o del pronto soccorso, quelle non fatte di prove documentali o di perizie psichiatrico-forensi, ma non per questo meno gravi o meno pericolose o meno lesive e invalidanti.
Ci sono parole, azioni, comportamenti, interazioni che nessuna legge punisce (o riesce a punire, almeno fino ad oggi), ma che possono risultare ancor più invalidanti di una ecchimosi o di uno sfregio, perché feriscono, tagliano e segnano in modo indelebile la coscienza.
Si tratta di una violenza che riguarda situazioni diverse sia di tipo carenziale-omissivo che di tipo attivamente lesivo, che colpiscono il benessere emotivo e psicologico della vittima.
La provocazione continua, persistente, quasi uno stile di vita, l’offesa, la denigrazione, la svalutazione, la coercizione, il ricatto, il silenzio, la privazione della libertà, la menzogna e il tradimento della fiducia riposta, la noncuranza, la trascuratezza fisica e affettiva, la manipolazione dei sensi di colpa, sono solo alcune forme in cui si manifesta la violenza psicologica. Quando una o più di queste condotte diventano pervasive al punto da caratterizzare e stravolgere le interazioni e da far sorgere disfunzionamenti e/o mutamenti delle condizioni emotive e di vita della vittima, allora si può parlare di vero e proprio abuso psicologico.
Una tipologia di violenza subdola, spesso perversamente legata ai disturbi del o dei soggetti di quel particolare contesto socio-ambientale, in grado di provocare gravissime sofferenze in chi la patisce, sofferenze molto difficilmente dimostrabili in un’ottica giudiziaria, ma non per questo meno reali, meno autentiche e meno pericolose.
Ed è proprio quando l’esistenza della vittima viene pesantemente condizionata e sconvolta, quando viene profondamente leso il suo benessere fisio-psichico, che l’abuso deve essere sanzionato.
Il fenomeno è trasversale e tocca non solo ambiti differenti dalla famiglia, dalle sette religiose al luogo di lavoro (mobbing), ma anche tutte le sfere sociali e tutti i soggetti, dalla ex moglie all’ex marito, al bambino, all’anziano o al disabile.
La violenza psicologica che si perpetua nell’ambito familiare, che qui più interessa, è quella forse più “ri-conosciuta” e trattata in ambito giudiziario, pur se ancora costretta negli angusti spazi della prova.
Ma spesso e purtroppo non è neppure fine a se stessa in quanto l’abuso morale è finalizzato ad altre condotte di reato quali l’induzione alla prostituzione, la pedofilia, la truffa ed altro ancora.
Molte volte le violenze psicologiche, le condotte persuasive e ricattatorie all’interno della famiglia perpetrate su minori, possono diventare violenze appartenenti ad un ceppo familiare o ad un clan: i minori vengono così messi nelle mani di una rete organizzata di pedofili, se non è un adulto della famiglia stessa che avvia o lavora all’interno di una di queste reti criminali. La pericolosità dell’abuso e della trascuratezza psicologica nei confronti del minore si misura anche nella maggiore vulnerabilità e nella più facile aggredibilità dello stesso da parte del pedocriminale che si presenta sotto le mentite spoglie dell’amico della porta accanto.
Del resto proprio la complessità del fenomeno, il suo radicarsi in comportamenti ed interazioni umane complesse, il suo collocarsi su quel sottile filo che da un lato si chiama capacità persuasiva e dall’altro coartazione psicologica, la sua sfuggente inquadrabilità in precise categorie giuridicamente rilevanti, è alla base della difficoltà di giungere ad un sereno e provato giudizio di responsabilità penale o civile.
Del resto è proprio sui limiti entro i quali può essere circoscritto l’abuso psicologico, che si sono riscontrate voci discordanti:
Alla convinzione, espressa da molti che ogni forma di abuso, specialmente maltrattamento fisico, abuso sessuale e patologia delle cure, configuri anche un abuso psicologico, si contrappone quella di chi limita il concetto di abuso psicologico a quegli atti o omissioni che esercitino una pressione psicologica tale da provocare una alterazione dell’equilibrio psicologico della vittima (Cecchini 1999).
E’ in questo terreno difficile, pericolosamente infido ma, al contempo, stimolante per lo sviluppo di dottrina e giurisprudenza, che si gioca il futuro del prossimo inquadramento giuridico della violenza psicologica affinché anche il diritto svolga il suo ruolo attento di correzione e sanzionamento delle storture e degli abusi, pur senza demandare alla giustizia compiti e aspettative di moralizzazione o pseudo-moralizzazione che non le sono propri.


2. La patogenesi dell’abuso psicologico

La complessità dei fenomeni criminali e/o devianti, il loro attingere da fattori i più disparati predisponenti o agevolanti, vuoi di tipo biologico-ereditaristico, vuoi di tipo culturale, familiare o socio-ambientale, non può che indurre ad un approccio al fenomeno di natura interdisciplinare andando a ricostruire o tentare di ricostruire le storie di vita, le dinamiche psichiche e sociali di tutti i soggetti coinvolti per potersi avvicinare il più possibile alla comprensione reale del fatto in esame.
Nell’analisi della cosiddetta carriera criminale o deviante di numerosi casi di abuso psicologico intrafamiliare, studiati da attenta criminologia, si sono riscontrati evidenti e determinanti condizionamenti ambientali tali da indurre a classificare l’eziologia della nevrosi dei soggetti esaminati come soprattutto psicogena.
Gli impulsi aggressivi che di solito sfociano in comportamenti apertamente criminali e antisociali, in questo tipo di abuso si sviluppano per lo più in forme di nevrosi che si manifestano in comportamenti che, ad un occhio non tecnico e un po’ distratto, potrebbero sembrare semplicemente curiose manifestazioni dell’essere o del carattere, o di abitudini di vita o sessuali, magari ammantate da apparenti e plausibili giustificazioni.
A ciò si aggiunga che spesso accade di imbattersi in vittime che, paradossalmente ma non troppo, accettano o addirittura sono colluse con il proprio carnefice, al punto da opporsi ai comportamenti abusanti in modo del tutto inidoneo e inefficace (ad esempio nell’esperienza pratica accade che una vittima decida, a fatica, di rivolgersi al legale per un consiglio, ma poi messa di fronte alla scelta se denunciare o meno il proprio aguzzino si ritiri o, comunque, ritratti e ridemensioni i fatti), facendo trasparire che l’essere abusate risponde tutto sommato ad un quasi irrinunciabile bisogno inconscio di tipo masochistico.
Quanto detto può apparire decisamente avulso dall’esperienza e dal comune sentire e ragionare apparendo assurdo che una vittima resti legata, pur potendo magari usare degli strumenti anche giuridici per emanciparsene, al suo carnefice quando e soprattutto lo si odia nel profondo.
Così non è, a parte i casi di forza di maggiore per cui ogni altra via di uscita sarebbe un “peggio”, in quanto il legame sussiste e sopravvive proprio in forza del rapporto di odio senz’altra ragione che il bisogno di viverlo e alimentarlo. Ciò vale sia a livello microsociale che macrosociale atteso che l’avere un “nemico” per antonomasia, un “nemico” concreto, da “odiare” e sul quale catalizzare e scaricare tutta la propria aggressività (sia esso immigrato, zingaro, islamico etc.) può essere indispensabile per la “salute” mentale dell’individuo non meno che per quella di gruppi sociali o Stati.
I soggetti abusanti portatori di un evidente disturbo di personalità (non per questo certo da considerarsi incapaci in tutto in parte di intendere e di volere) sono sempre alla ricerca, proprio per le loro nevrosi, di una soddisfazione ai loro impulsi aggressivi trovando, soprattutto all’interno della famiglia, facili e comodi bersagli. Chi ne patisce le conseguenze sono, dunque, i parenti o compagni più prossimi non importa se adulti o minori.
Questo tipo di abuso intrafamiliare è ancora più “sporco” proprio per essere giocato su delicatissime dinamiche di rapporti di sangue, di peculiari rapporti emozionali, di convivenza più o meno necessitata o forzata, di aspettative di affetti, di desideri di identificazione e quant’altro.
Nel caso di minori, la dottrina ha parlato di abuso indiretto quando gli stessi, per esempio sono coinvolti in separazioni conflittuali:
In queste situazioni, l’abuso può assumere le forme più variegate, concretizzandosi, per esempio, nell’esigere lo schieramento del bambino dalla parte di uno o dell’altro genitore, utilizzandone ansia di separazione e sentimenti di colpa (Monaco e Coll. 2000).
Ed ancora:
Sono frequenti i casi in cui il bambino è costretto a schierarsi (od a sperimentare sentimenti di rifiuto e di solitudine se non lo fa), al fine di poter essere, per quel genitore, “mio figlio”, evitando le conseguenze delle proiezioni negative che si accompagnerebbero al fatto di essere vissuto, invece, come “suo figlio”. Oppure viene commesso abuso non rispettando i tempi stabiliti per le visite, con disagio del bambino; o strumentalizzando il figlio per avere informazioni o mandare messaggi più o meno espliciti alla controparte; o proponendosi a lui come vittima della situazione, che iene drammatizzata e finisce per essere l’argomento centrale di ogni discorso, provocando – così – una inversione di ruolo per cui il figlio si trova a dover fungere da consolatore; o, ancora, utilizzando il disagio del bambino per colpevolizzare l’altro coniuge, eventualmente cercando pareri tecnici che convalidino il danno subito dal figlio (Fagiani 2000).
Su questa sottile e fragile linea di demarcazione, ove capita che vittima e suo aguzzino siano legate da un perverso e quasi inespugnabile meccanismo di protezione di amore-odio, si colloca la giustizia che si interroga sui suoi strumenti e sulla loro efficacia.


3. Vittimizzazione: tutela pubblica e privata

L’illusione penalistica, per dirla con il titolo di un recente libro, non può non far perdere di vista la realtà dell’enorme fatica dello strumento penale ad intervenire, sanzionare ed eseguire la sanzione in modo efficace in situazioni di tal fatta.
Anche la legge n.154/01 con la previsione dell’allontanamento del coniuge o della persona abusante, nella sua applicazione pratica, ha sì aperto uno squarcio su queste realtà ma ha, altresì, dimostrato di non essere in grado di arrivare “ovunque” e, forse, è meglio che sia così.
Ciò che si chiede, in modo molto più pragmatico, è che l’apparato repressivo-giudiziario intervenga con scrupolo, forza, coscienza e preparazione in quelle situazioni dove l’abuso psicologico è sfociato in modo reale nello stravolgimento delle vite e delle esistenze delle vittime.
Al di là di rari ed eventuali interventi dei servizi sociali (che se e dove intervengono lo fanno su impulso proprio dell’Autorità Giudiziaria), “il pubblico” può agire quasi esclusivamente a mezzo degli organi di Giustizia. Ma ciò avviene quando, e i casi sono ben pochi rispetto al numero oscuro del fenomeno, la vittima decide di uscire allo scoperto.
Alla luce di quanto anche sopra detto per uscire allo scoperto, la vittima deve avere avuto prima la forza, la capacità, la possibilità di emanciparsi dal carnefice e ciò, purtroppo, per la maggior parte delle volte non accade, soprattutto quando si tratta di minori.
Il ricorso al Tribunale per i Minorenni troverà ostacolo nella negazione assoluta degli addebiti da controparte, il ricorso per separazione o divorzio con addebito troverà una lunga strada in salita fatta di CTU magari scarsamente professionali con ciò che ne consegue in tema di riflessi giuridici su diritti di visita o diritti patrimoniali, la denuncia penale o il ricorso per ordini di protezione troveranno ostacolo nella prova e così facendo, ciò che emergerà saranno solo i casi più eclatanti mentre l’universo del sommerso rimarrà sempre più sommerso.
E’ su questa direttrice che il dibattito giuridico-interdisciplinare deve arrivare ad un serio, ponderato ma serrato confronto.
Per quanto attiene, poi, alla sfera della tutela privata l’unica strada, forse, percorribile per un tentativo di miglioramento sarebbe quella della psicoterpia che, peraltro, necessiterebbe di una volontà da parte della vittima (spesso costretta a sottoporvisi di nascosto) e del suo persecutore (spesso neppure conscio della natura patologica del suo comportamento), volontà e consapevolezza non di rado assenti. Una simile strada richiede un impegno arduo, anche costoso sia in termini economici che di investimento personale psichico e intellettivo e, per di più, dagli esiti incerti; come detto deve fare i conti, poi, con la disponibilità a mettersi in discussione sia da parte del più o meno consapevole aguzzino, sia da parte della stessa vittima.
In tale prospettiva lo scrivere e/o il dibattere ai più ampi livelli di questi problemi non può far altro che contribuire a diffondere cultura e, non ultimo, a far sentire le vittime “meno colpevoli” e a prendere cognizione e consapevolezza del loro status e dei loro diritti sì da poterli far valere con maggiore fermezza e sicurezza.

IN SINTESI – La novella legislativa della legge n.154/01 in tema di ordini di protezione contro i maltrattamenti in famiglia ha codificato il concetto di violenza morale o abuso psicologico dando nuovo impulso e nuove prospettive, anche nel campo del diritto, allo studio di tali fenomeni e della loro rilevanza penale e civile. Il fatto che l’abuso psicologico sia un elusive crime difficilmente provabile e documentabile, non deve impedire anzi deve agevolare la ricerca e il dibattito scientifico a tutti livelli, giudiziario, sociale, clinico e culturale; così facendo si agevolerà una presa di coscienza di tutti gli operatori del settore, ma anche della possibilità per le vittime stesse di acquisire consapevolezza della loro situazione e, magari, di trovare il coraggio di denunciare. Ciò è tanto più importante quando vittime sono dei minori, per il fatto che per loro natura sono meno protetti, più indifesi e perché un bimbo abusato psicologicamente, sarà con molta probabilità a sua volta un adulto abusante.



4. Reato di maltrattamenti in famiglia e rilevanza dell’abuso psicologico
LEGISLAZIONE: c.p. 572.

Negli ultimi anni si è assistito ad un numero crescente di pronunce giurisprudenziali che hanno fornito un approccio esegetico vicino, per non dire conforme, all’impostazione e interpretazione del concetto di maltrattamento psicologico così come fin qui sinteticamente delineato.
Seppur il fenomeno sia ampiamente sottostimato e, conseguentemente, la produzione giurisprudenziale e dottrinaria non sia per nulla copiosa sull’argomento è possibile tracciare delle linee guida interpretative, sufficientemente consolidate, in grado di delineare i contorni della fattispecie di reato.
Nella nozione di maltrattamenti, giuridicamente intesa, rientrano anche le violenze psicologiche, e quindi non solo fisiche, sulla base di un rapporto personale continuativo tra autore del reato e vittima, connotato da sistematiche e abituali sopraffazione psicologiche per lo più verificatesi nell’ambito delle mura domestiche; tali sopraffazioni devono essere tali da rendere abitualmente dolorose le relazioni familiari e da determinare uno stato di avvilimento morale vuoi con atti, vuoi con parole che offendono il decoro e la dignità della persona, nonché con violenze (psicologiche appunto) capaci di produrre sensazioni dolorose pur senza lasciare traccia visibile.
La condotta contestata e penalmente rilevante può ben concretizzarsi in una ingiustificata, protratta ripetizione di frasi minatorie, angherie, vessazioni, tormenti, umiliazioni, ingiurie, richieste di pratiche sessuali contro natura, atti di disprezzo e di offesa alla dignità della persona sì da rendere intollerabile l’estrinsecazione della quotidianità della vittima tra le mura domestiche al punto da provocare in essa un’involuzione/peggioramento della personalità e una condizione di prostrazione e sofferenza durature, difficilmente reversibili (Grasso, 2003).
Quando le condotte citate, seppur con intervalli più o meno brevi di “normalità”, diventano una sorta di “normale” atteggiamento di prevaricazione da parte del soggetto attivo, a prescindere dalla valutazione discrezionale del giudice in ordine al concorso con altre fattispecie penalmente sanzionate, il reato si può dire configurato.
Rappresentano sofferenze morali vere e proprie anche i tentativi e le azioni dirette ad ottenere pratiche sessuali contro natura (sempre che detti atti non realizzino, per mancanza di qualche elemento, altre ipotesi delittuose), qualora esse si rivelino come manifestazioni consapevoli di recare o produrre nella vittima offesa, disprezzo, umiliazione e asservimento.
Richiedere abitualmente, ad esempio, il compimento di atti sessuali frutto di perversioni o devianze alla moglie o convivente, di cui si conosca l’indisponibilità, benché la donna resista ed esiga rispetto e benché al rifiuto della stessa segua offerta di scuse o ancora benché la donna vi accondiscenda suo malgrado perché succube o per evitare un danno peggiore, si tratta di condotta che integra gli estremi del reato di maltrattamenti: la ripetizione insistente delle richieste, dato il disvalore che la moglie o la persona convivente gli attribuisce, cagiona a costei sofferenze per il disprezzo che l’uomo mostra delle sue condizioni.
In casi del tutto peculiari anche la pervicace e sistematica violazione degli ordini stabiliti dal giudice nella causa di separazione o divorzio, quando i provvedimenti giudiziari sono tra l’altro tutti nella direzione di tutela del riconosciuto e fondamentale ruolo di uno dei coniugi, padre o madre non importa, l’esercizio continuo di tutte le possibili azioni giudiziarie (sempre ai limiti anche del codice deontologico forense) come sequestri di conti correnti, pignoramenti, cause di sfratto studiate a tavolino, rappresentano fini strumenti “legali” e non, utilizzati per destabilizzare il coniuge e genitore, per ferirlo, per abusarne psicologicamente al punto da farlo sentire impotente e con le spalle al muro (di Martino, 2004).
Se a tutto ciò si aggiungono continui comportamenti attivi od omissivi (non far sapere lo stato di salute dei bambini, impedire la visita quando sono malati, ovvero non comunicare gli spostamenti fuori sede etc.), volti a sminuire la persona nel suo essere, padre o madre, professionista e più in generale uomo o donna, allora non possono non ravvisarsi condotte gravemente lesive della dignità, del decoro personale, professionale e di persona rilevanti sotto il profilo penale.
La cosa, però, in assoluto più grave è quando a tali azioni si accompagna la totale noncuranza per il peso ed il ruolo affettivo-emotivo che il genitore ha con i figli, a costui molto legati emotivamente, e i conseguenti effetti negativi nell’armonica crescita e corretto sviluppo di questi ultimi. Questo atteggiamento di subdola violenza non fisica, diretta nei confronti dell’altro genitore e indiretta, ma non troppo, verso i figli rende ancor più grave e cupo il quadro complessivo della personalità e delle condotte poste in essere che necessitano di un forte e deciso intervento di contenimento.
Le condotte sopra menzionate possono quindi, purtroppo non di rado, interessare anche i minori quali vittime dirette o mediate. Sull’argomento ci si dovrebbe dilungare in una trattazione monografica ma qui si vuole soltanto accennare a quelle che possono essere le condotte più pericolose e al contempo all’estrema difficoltà di farle emergere per poter essere sanzionate.
Rispetto all’infanzia l’abuso psicologico principalmente riguarda la punizione di comportamenti positivi e attivi quali il sorriso, il movimento (di recente in Piemonte è capitato che un padre legasse al tavolo il proprio figlio piccolo perché si comportava male a tavola e la madre non faceva nulla perché era minacciata di morte), l’esplorazione, la vocalizzazione, la manipolazione di oggetti e lo scoraggiare con ogni mezzo il rapporto adulto-bambino; rispetto alla seconda infanzia e all’adolescenza l’abuso di cui si tratta consiste per lo più nella punizione dell’autostima e nel punire le abilità interpersonali necessarie per un’adeguata riuscita nei contesti extrafamiliari.
Unanime è ormai in dottrina (forse meno nella giurisprudenza) la convinzione che l’abuso psicologico, diretto o indiretto, specie nei confronti dei minori è forse, fra tutti gli abusi, il più grave perché
se per un bambino è comunque possibile strutturare una propria personalità, sia pure in termini oppostivi, di fronte ad una violenza chiara e definita, quale può essere quella fisica, allorché si trova di fronte a qualcosa che non ha caratteristiche definite, che si presenta ambiguo, sfuggente e per lui del tutto incomprensibile, il suo processo evolutivo subisce una profonda distorsione, trovando difficoltà insormontabili nella strutturazione del proprio Sé, sia pure in chiave difensiva (Marinucci 1998)
Il problema della permanente concezione della “privatezza” della famiglia , delle sue scelte, delle sue decisioni, della difesa del proprio stile di vita e di educazione, rappresenta una delle barriere più insormontabili ai fini della dimostrazione delle condotte abusive, ma sul punto torneremo più oltre. Ciò che, invece, gli operatori del diritto sono chiamati a fare è guardare bene e saper bene valutare la portata degli inevitabili sintomi di cui sono portatori i bambini: sofferenza, psichica, iperattività, problemi di linguaggio e di apprendimento, trascuratezza esteriore, malattia mentale, devianza, tossicodipendenza, disturbi affettivi e così via. Saranno elementi tutti importanti ai fini di una ricostruzione e valutazione delle responsabilità anche in ambito penale, sempre in quell’ottica di complessità dei fenomeni di cui si è già accennato.
Si tenga conto, poi, che un bambino abusato secondo le migliori acquisizioni delle scienze criminologiche, con tutta probabilità sarà un adulto disadattato, deviante e a sua volta un padre o madre abusante. Le figure di ciò che è stato, ed in particolare della generazione immediatamente precedente, rappresentano lo snodo, il punto più delicato perché il ricordo di quale tipo di rapporto il figlio ha avuto con i genitori nella sua infanzia, quale ricordo ne ha, quale rapporto riesce nell’oggi a trattenere con la sua parte infantile, specie quella più sofferta, quale conseguente presenza del desiderio di vendicarsi dei genitori attraverso il proprio figlio è presente, quale aspirazione v’è a ricercare nel figlio quell’amore che gli è stato negato dai propri genitori nell’infanzia, saranno elementi tutti determinanti dell’essere adulto abusante o meno.
In quest’ottica l’intervento a trecentosessanta gradi, giudiziario, sociale e clinico è quanto mai necessario.
Si assiste, poi, anche a casi di maltrattamenti in famiglia aggravati (art.572 cpv c.p.) in conseguenza di lesioni gravi subite dalla vittima. Si tratta di lesioni non inferte direttamente dal soggetto abusante, bensì di lesioni che rappresentano l’esito di atti lesivi dell’integrità personale compiuti dalla stessa vittima su se stessa (tentativi ripetuti di suicidio o atti autolesionistici gravi), come conseguenza dei maltrattamenti e vessazioni psicologiche subite.
Anche il suicidio della vittima è stato riconosciuto come circostanza aggravante del reato qualora, benché evento non espressamente voluto, sia da mettere in sicuro e diretto collegamento con i ripetuti e gravi episodi di maltrattamenti per effetto dei quali lo stato psicologico di prostrazione indotto nella vittima sia da identificarsi quale vero e proprio trauma fisico e morale che ne ha determinato il darsi la morte. In queste drammatiche situazioni spesso accade che la vittima fino all’estremo gesto, nonostante la manifestazione ripetuta e spesso nascosta e soffocata dei suoi disagi, non sia mai riuscita a denunciare, gridare o far conoscere la sua situazione, magari arrivando addirittura a colludere con il proprio carnefice e compagno di una vita.
In tal senso meriterebbe un ulteriore approfondimento la delicatissima problematica circa la rilevanza della scriminante del consenso dell’avente diritto. Non constano precedenti giurisprudenziali specifici e copiosi salvo qualche pronuncia che affronta la questione più sotto il profilo dell’interazione e del rapporto tra maltrattamenti e cultura o sub-cultura di origine diversa da quella italiana.
E’ stato affermato in proposito che dette sub-culture che fanno del maltrattamento fisico o psicologico un costume o modus vivendi, sarebbero in contrasto assoluto con i principi che stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano, in particolare con la garanzia dell’inviolabilità dei diritti dell’uomo sanciti dall’art.2 Cost., i quali trovano specifica considerazione in tema di diritto di famiglia negli artt.29-31 Cost..


5.1 Il problema della prova penale
LEGISLAZIONE: c.p. 572 – c.p.p. 187, 194, 220 – delib. C.N.P. 28.6.1997, codice deontologico ordine psicologi, artt. 11, 12

Uno dei principali e più gravi problemi che riguardano l’abuso psicologico è proprio la sua invisibilità, la sua non documentabilità scritta, l’essere un elusive crime.
Spesso operatori sociali o educatori sensibili e competenti anche attraverso l’osservazione delle dinamiche relazionali e familiari, hanno difficoltà a leggere la trama invisibile dell’abuso ritrovandosi poi nell’oggettivo impasse di darne prova concreta al momento di fornire argomentazioni concrete alla magistratura vuoi per una denuncia, vuoi per un dibattimento penale.
A ciò si aggiunga, come evidenziato, che spesso l’abuso psicologico è invisibile agli stessi individui abusanti, oltre che agli abusati, al punto che si rende necessario trovare gli strumenti per poter fare acquisire progressivamente la consapevolezza di questa modalità distorta di relazioni, conditio sine qua non per esercitare un’azione giudiziaria.
Ma il fatto che sia un crimine invisibile, elusivo, non vuol dire certo che non esista, ma piuttosto che è più difficile da decifrare e dimostrare.
Il problema, dunque, sotto il profilo del diritto, da parte dell’accusa ed eventualmente della difesa della persona offesa, è quello di riuscire a far risaltare l’oggettività della condotta criminosa.
La Corte di Cassazione, forse in un’ottica prudente e garantista e per certi aspetti condivisibile, ha affermato il principio secondo cui ai fini di una condanna per tali fatti non è sufficiente la presentazione di una serie di querele o denunzie della persona offesa dovendosi, invece, sottoporre la testimonianza della persona offesa [e aggiungiamo anche l’eventuale interrogatorio dell’imputato], ad un vaglio di attendibilità intrinseca particolarmente rigoroso, non essendo la stessa immune da sospetti, in quanto portatrice di interessi in antagonismo con quelli dell’accusato (Cass 1.12.1999 n.1423, CP, 2000, 1879). Sul punto torna in primo piano quell’approccio alla complessità che, dal livello epistemologico e di teoria generale, si sposta su di un livello molto più concreto e pratico imponendo al giudice l’analisi di qualsiasi elemento risultante dal processo e dalla ricostruzione delle storie di vita e di quotidianità dei soggetti coinvolti.
Del resto la persona offesa nel processo assume la qualità di teste e come tale la sua deposizione deve essere sottoposta dal giudice al vaglio di credibilità e attendibilità in relazione alle risultanze processuali.
Ma proprio la delicatezza della posizione della parte offesa nel processo per il reato di cui all’art.572 c.p., rappresenta uno degli anelli se vogliamo al contempo più importanti e più deboli nell’accertamento della verità. In questa direzione una difesa della persona offesa, costituita parte civile per valere anche pretese risarcitorie, attenta, seria e preparata, magari accompagnata da un sostegno psicologico, può contribuire ad infondere maggiore sicurezza e ridurre i rischi di vittimizzazione secondaria.
Sulla deposizione della persona offesa peserà molto non solo il ruolo delle rispettive difese, ma anche il ruolo di conduzione dell’esame testimoniale da parte del giudicante al fine di evitare che gli inevitabili attacchi del difensore dell’imputato, volti a minare la credibilità e la moralità del teste, superino la soglia del consentito.
Importanti saranno anche le cosiddette testimonianze de relato atteso che, proprio la tipologia del delitto, indurrà la persona offesa a fare riferimento a familiari, parenti o amici a conoscenza delle circostanze di causa; il giudicante sul punto sarà chiamato ad una delicata opera di valutazione, valorizzazione e ricostruzione delle dichiarazioni in un più complessivo e unitario quadro probatorio.
Qualora, poi, la persona offesa e teste non sia in condizioni psico-fisiche tali da offrire garanzie sufficienti in ordine ad una deposizione veritiera e/o precisa, il giudice, avvalendosi degli strumenti di cui all’art.220 comma 2 c.p.p., potrà demandare ad un perito il controllo sulla credibilità soggettiva della stessa.
Si osservi ancora che l’art.194 comma 1 c.p.p. impone il divieto di deporre sulla “moralità” dell’imputato salvo che si tratti di fatti specifici, idonei a qualificarne la personalità, in relazione al reato e alla pericolosità sociale. Orbene la connotazione “morale” degli abusi psicologici in famiglia, va di pari passo proprio con una maggiore connotazione e valorizzazione delle qualità morali dell’imputato; in questo senso sono necessarie alcune regole per non invalidare la deposizione e mantenerla all’interno dei paletti codicistici.
Si ritiene, infatti, che la deposizione della persona offesa sulla moralità dell’imputato possa essere ammessa ogniqualvolta si tratti di fatti specifici (abuso di sostanze psicotrope o alcoliche, frequentazione abituale di tresche e personaggi equivoci, dissipazioni etc.), di fatti riguardanti la sua personalità, di fatti idonei a qualificare la di lui personalità in relazione al reato o ad accertare o escludere la sua qualità di persona socialmente pericolosa.
A fronte di tutto ciò, rimane fermo il divieto per il giudice di disporre una perizia criminologica sulla personalità dell’imputato, dovendo quindi rimanere ancorato a quanto acquisito dalla deposizione e dagli atti processuali.
La delicata posizione della vittima teste spesso necessita, proprio in relazione alle sindromi patologiche innestate dalle violenze psicologiche subite, di un’assistenza dello psicologo-psicoterapeuta. Sul punto la scarna casistica ha riscontrato l’escussione anche e proprio del terapeuta che, espressamente autorizzato dall’assistito in ordine al venire meno dei suoi obblighi di segretezza professionale, ha fornito elementi importanti e decisivi ai fini della condanna.
La questione riveste un peculiare peso processuale ma sarebbe opportuno che lo psicologo, in ottemperanza al codice deontologico in simili casi, previa valutazione anche scritta delle conseguenze sulla tutela psicologica del paziente da portare a conoscenza dello stesso, si munisse per iscritto di una dichiarazione motivata liberatoria, di assenso e di autorizzazione da parte dell’assistito persona offesa nel procedimento penale a deporre su quanto venuto a conoscenza durante il periodo e in ragione della terapia.
In ultimo si osserva come l’acquisita consapevolezza della “parzialità” e “settorialità” dell’intervento giudiziario penale, calibrato esclusivamente sull’accertamento della responsabilità e la conseguente punizione del colpevole, a prescindere da qualsivoglia valutazione in ordine alla necessità od opportunità di interventi reintegrativi e/o correttivi e non solo punitivi nel contesto socio-familiare, ha fatto sì che la stessa magistratura abbia sentito l’esigenza di approfondire lo studio del fenomeno con corsi e seminari di formazione ad hoc per i giudici.


6. Abuso psicologico e profili risarcitori del danno esistenziale
LEGISLAZIONE: c.p. 572 – Cost. 2 - c.c. 2043, 2059

Le nuove tendenze dottrinarie e giurisprudenziali volte alla “valorizzazione” del reato di maltrattamenti in famiglia in conseguenza di violenze ed abusi psicologici, come sopra più specificamente delineati, hanno aperto e stanno aprendo dibattiti accesi e proficui, non privi di contrasti e di posizioni discordanti, in tema di risarcibilità di quelle condotte che hanno portato ad uno sconvolgimento/stravolgimento delle abitudini di vita e delle condizioni psichiche delle persone lese.
Chi tra i giuristi è più sensibile alla tutela della persona e della sua salute in tutti gli ambiti di estrinsecazione e formazione della sua personalità, primi fra tutti la famiglia, non può non dare una lettura costituzionale (art.2 Cost.) del reato di maltrattamenti in famiglia arrivando ad allargare la sfera di tutela anche risarcitoria in relazione ai fatti di cui sopra.
Il bambino come l’adulto abusati psicologicamente, a prescindere da una eventuale lesione della propria intergrità fisio-psichica (biologica) accertabile con una CTU medico-legale, a prescindere dal danno morale derivante da reato, si troveranno in una condizione di menomazione e mutamento della propria vita e di compromissione delle proprie aspettative esistenziali.
Il danno esistenziale, ben lungi dall’essere una duplicazione della pecunia doloris, si pone invece come una sequenza infranta di dinamismi personali e sociali che si sono inesorabilmente alterati, un altro modo di rapportarsi col mondo esterno, un “interfacciamento” meno ricco, una compromissione del libero dispiegarsi delle attività dell’uomo. Insomma si tratta di una modificazione peggiorativa della sfera personale del soggetto in sé e nelle sue attività quotidiane attraverso le quali quest’ultimo realizza la sua individualità, un pregiudizio che incide in modo durevole sull’esistenza del o dei danneggiati non solo sotto il profilo psicologico/emotivo ma anche sotto l’aspetto concernente la sfera organizzativa/quotidiana.
Quando tutto ciò si verifica in conseguenza di abusi psicologici si può parlare di una sorta di mobbing familiare, come taluni lo hanno voluto definire. Il peggioramento, talvolta irreversibile, della qualità o regolarità di vita quotidiana del minore o dell’adulto che sia, vittima di abusi, con riferimento alle normali attività realizzatrici della persona incide in modo determinante su quei diritti alla salute e alla qualità di vita costituzionalmente garantiti.
Il fatto reato non solo può avere generato un danno biologico in senso stretto, una malattia nel corpo o nella psiche, un danno morale soggettivo inteso quest’ultimo come mera sofferenza morale, prostrazione dell’animo, abbattimento dello spirito, patema d’animo e stato di angoscia a carattere “transeunte”, ma anche un vero e proprio sconvolgimento dell’esistenza e della quotidianità passata, presente e futura del soggetto che sfugge ad ogni inquadramento o parametro tabellare e che deve essere autonomamente risarcito.
La figura recente del danno esistenziale può ben attagliarsi al caso di specie e sembra essere la più idonea a dare contezza delle ragioni e delle pretese risarcitorie della vittima dell’abuso psicologico ben più devastante di una ferita lecero-contusa.
Al di là dei distinguo di carattere giuridico, dei contrasti e dell’opposizione di certa dottrina e giurisprudenza in ordine all’ammissibilità di un tutela risarcitoria da mobbing familiare, ciò che conta è discutere e dibattere su nuove forme di sensibilizzazione degli strumenti normativi già esistenti, al fine di proteggere posizioni soggettive deboli ma pur sempre bisognose di garanzie.


Bibliografia:

Bandini e Coll. 1991 – Garbarino, Vondra 1993 - Garbarino e Coll. 1997 – Marinucci 1998 - Riva 1998 – Cecchini 1999 - Pacciolla, Ormanni 1999 - Ponti 1999 - Serra 1999 - Cendon, Ziviz, 2000 – Fagiani 2000 - Forti 2000 – Monaco, Marinucci, Viola 2000 - Bricchetti 2001 - Buzzi, Tannini 2001 - Montanari, Bona, Oliva, 2001 - di Martino 2002 – Riondato 2002 - Bandini e Coll. 2004 –


*Paolo di Martino nato a La Spezia nel 1971, già Funzionario dal 1996 del Ministero della Giustizia, ha conseguito nel 1998 con lode la Specializzazione in Criminologia Clinica e Psichiatria Forense presso l’Università di Genova ove ha svolto e svolge anche incarichi di docenza presso i corsi di specializzazione, di perfezionamento e masters; attualmente è Avvocato del Foro di Massa Carrara, svolgendo la propria attività professionale principalmente in Milano. E’ alla quarta pubblicazione scientifica. Nella stessa Collana della Casa Editrice ha pubblicato "Criminologia Analisi interdisciplinare della complessità del crimine" (2002) con prefazione di P.L.Vigna.; "Violenze familiari - La tutela civile e penale nella legge n.154/01: profili giuridici e criminologici nell’applicazione giurisprudenziale" con prefazione di M. Picozzi (2004). Per la UTET ha pubblicato due capitoli nella collana di Giurisprudenza Critica "I Diritti della persona", AA.VV. a cura di Paolo Cendon (2005). Ha partecipato come relatore ad importanti convegni nazionali (Società Italiana di Psichiatria) su temi giuridico-criminologici ad approccio interdisciplinare.


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